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Il perdono ci fa bene, l'odio ci avvelena: la scienza dimostra che perdonare è un toccasana

PerdonoIn alcune antiche tribù africane, quando qualcuno uccideva un’altra persona, non veniva rinchiuso da nessuna parte, veniva invece consegnato alla famiglia della vittima, legato e immobilizzato dentro a un barca. Nel momento in cui la barca navigava nella parte più profonda del fiume, la famiglia doveva decidere se gettare l’assassino nel fiume o meno. Potevano scegliere di perdonare subito, ma se preferivano la punizione, allora lo gettavano nel fiume per farlo affogare. Quando questo succedeva, la famiglia aveva allora la seconda opportunità di perdonare, anche se con pochi secondi per decidere, prima che questi affogasse, ed erano proprio i bambini a chiedere che venisse salvato. Se in quel momento si gridava "Perdono!", uno dei membri si gettava nel fiume per salvarlo, e non si limitava semplicemente a tagliare le corde per salvarlo e tirarlo fuori dall’acqua, ma lo aiutava anche a salire sulla barca, per ricevere il perdono di tutta la famiglia. Questa antica pratica indigena garantiva una salute mentale ed emozionale nei membri della tribù, perché essi sapevano che vivere con il rancore significa vivere avvelenati, significa avere crepe sociali aperte come ferite sanguinanti, che prima o poi si manifesteranno come vendetta, punizione o tortura. Una distruzione assicurata e un peso che non lascia vivere. In queste tribù indigene non vi erano molti assassinati, poiché si agiva per mezzo del perdono. (fonte: "Uccidere o Perdonare? Punire o Riconciliare? Due tipi di epifania che conducono a diversi tipi di vita", di Alberto José Varela")

A tal proposito, ho letto un bellissimo articolo di psicologia di Rita Nannelli, pubblicato sulla rivista Nuovo Consumo di dicembre 2016, da pag. 22 a pag. 25, che tratta degli effetti del perdono da un punto di vista scientifico: in calce lo riporto integralmente, perché merita, insieme ad un'intervista ad Adrian Fabris, docente di Filosofia Morale all'Università di Pisa, e ad un altro interessante articolo di Barbara Autuori. Presumo di non contravvenire alla volontà degli autori dando diffusione dei loro articoli, in quanto il numero in questione di "Nuovo Consumo" è già stato venduto e disponibile online gratuitamente per tutti sul sito della rivista. In sintesi, perdonare fa bene, fa proprio bene, ci fa vivere meglio, mentre i rancori sono un veleno per il corpo e per l'anima. 

Come dicono un paio di frasi piene di significato, spesso citate in Rete (ed erroneamente attribuite alla Bibbia, in realtà la fonte non è nota):

«Perdonare è liberare un prigioniero e scoprire che quel prigioniero eri tu»
«Chi non sa perdonare spezza il ponte sul quale egli stesso dovrà passare»

Sul tema dell'Amore e del Perdono, scrissi un paio di poesie nell'aprile 2015, riportate su galgani.it:

Porgi l'altra guancia
 

Per un Amore
sempre vincitore,
tutto è benvenuto,
anche uno schiaffo bruto:

diffidenza e malafede
vanno incontro a chi crede
in indulgenza e carità
per l'altrui felicità,

o nella compassione
che d'ogni afflizione
è umilmente curativa,
per il cuor educativa.

Porgere l'altra guancia
è spezzare la lancia
del disprezzo e del male
con un Amore reale,

sempre efficace,
coraggioso e audace,
nell'infonder Pace.

(Francesco Galgani, 1 aprile 2015)

Ama il prossimo tuo
 

«Vivi e lascia vivere»
già basterebbe,

non sentirsi così ganzi
da «scagliar la prima pietra»
ancor meglio sarebbe,

ma non giudicar strano,
schifoso,
o peggio ancor dannoso,

per paura,
non conoscenza,
o altrui miscredenza,

è virtù rara,
di odio ignara.

«Ama il prossimo tuo,
come te stesso»,
nasce dal cuore
senza compromesso:

non disprezzare,
«l'altra guancia» dare,
con puro amare,

è cuore accogliente,
speranza vivente,
fede sincera,
compassione vera.

(Francesco Galgani, 22 aprile 2015)

Per quale motivo siamo di passaggio in questo mondo? Secondo me, siamo in questo pianeta per allenarci ad Amare, per sviluppare Compassione. Collegato a questo tema, ho scritto l'articolo "Il potere della preghiera e della meditazione: una prospettiva scientifica interreligiosa", nel quale affermo che: «Compassione significa allargare il più possibile la propria vita comprendendo all'interno di essa anche gli altri, andando il più possibile oltre il proprio microcosmo. Siamo tutti collegati in una rete di inter-dipendenza, quindi il male che facciamo agli altri lo facciamo anche a noi stessi, il bene che facciamo agli altri lo facciamo anche a noi stessi: sebbene da un punto di vista strettamente razionale una tale comprensione sia difficile ma comunque possibile (riflettendo sul principio di causa ed effetto che regola tutto l'universo), a un livello più concreto, più quotidiano, il modo più diretto e più pratico per arrivare ad un tale modo di vivere compassionevole parte con la preghiera».

Desiderare il bene di chi ci fa, o ci ha fatto, del male. Non dar troppo peso ai torti e alle ragioni, perché sono una trappola. Pregare per la felicità di chi ci crea sofferenza. Questi pochi esempi mostrano un modo di esistere, di essere al mondo, di vivere, che fa del bene a noi e lo fa anche agli altri. Anzi, il vero cambiamento personale e sociale per un mondo migliore passa proprio da qui. Secondo me, sarebbe importante tenere a mente che chi crea sofferenza è perché è a sua volta sofferente. Quando abbandoniamo l'attaccamento ai nostri rancori, stiamo facendo innanzitutto qualcosa di buono per noi stessi.

Segue l'articolo di Rita Nannelli, pubblicato sulla rivista Nuovo Consumo di dicembre 2016 da pag. 22 a pag. 25: buona lettura!

Scuse accettate

Imperativo etico, comandamento evangelico, strategia dell’evoluzione della specie che mi fa stare meglio, nel corpo e nell’anima, rispetto all’idea fissa del torto subito e dei propositi di vendetta. Il perdono, secondo neuroscienziati, filosofi, psicologi e sociologi, toccasana per chi lo concede e per chi lo chiede, ma anche per la società. Purché sia autentico e non solo a Natale.

di Rita Nannelli

La miglior vendetta è il perdono. Uno dei primi consigli della mamma, quando torni da scuola imbronciato perché il più pestifero della classe ti ha fregato la merenda e scarabocchiato il diario, è considerato dagli esperti una delle migliori medicine per guarire le ferite e guardare avanti senza rancore. Ma di fronte a un amore tradito, un’amicizia offesa, al torto di un familiare, di un vicino di casa o di un collega porgere l’altra guancia e dimostrarsi indulgente è meno facile e istintivo che giurare vendetta e sfogare la rabbia. Anzi la tentazione di rispondere al male col male, all’offesa con l’offesa, è il più comune dei comportamenti, umano, ma forse troppo umano. Perché secondo alcune ricerche scientifiche perdonare ci fa stare meglio del continuo rimuginare sull’ingiustizia subita e dei propositi di rivalsa. “Serbare rancore equivale a prendere un veleno e sperare che a morire sia l’altro”, avvertiva in modo geniale Shakespeare cogliendo il controsenso della vendetta.

Pardon!

Trasformo le difficoltà in risorse, entro in sintonia con l’altro, cambio angolo visuale superando il conflitto. È quello che succede nel cervello quando decido di perdonare un’offesa, secondo uno dei più recenti studi di neuroscienze di un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa. In sintesi si tratta di un processo per niente banale (che coinvolge diverse aree cerebrali) di rivisitazione dell’esperienza che assume una coloritura emotiva positiva da negativa qual era. Ma un conto è scegliere la strada della comprensione in uno studio clinico, come i volontari dell’esperimento (a cui era stato chiesto di immaginare varie scene nelle quali subivano un torto e poi, sempre con l’immaginazione, di perdonare oppure di dare fuoco al risentimento), un conto è la vita reale che ci offre sempre un coltello da girarsi nella piaga. «Il perdono corrisponde all’abilità presente in ognuno di noi di trasformare le cose belle e brutte che accadono in un dono. E da un dolore profondo può nascere un dono: in questo modo ci si libera dalla sofferenza che quel dolore porta con sé», risponde Daniel Lumera, direttore della Fondazione My Life Design e ideatore del progetto International School of Forgiveness, formatore e docente specializzato in sociologia della comunicazione e dei processi culturali.

Senza rancore

Un legame tra perdono e benessere che mette d’accordo psicologi, scienziati, filosofi e sociologi. «Le persone capaci di perdonare sono selettivamente più adatte alla sopravvivenza della specie. È, infatti, comprovato scientificamente che si ammalano meno e hanno una qualità della vita superiore sotto il profilo personale, delle relazioni e sociale. Il perdono ha un impatto profondo sul sistema circolatorio e su quello immunitario, sulle aree cerebrali dell’empatia, dello sviluppo del cambio di prospettiva, sull’area preposta a far percepire i problemi come opportunità. Si può dunque dire che il perdono cura il corpo», spiega Lumera, autore del libro La cura del perdono. Che sia strategia dell’evoluzione, un comandamento evangelico, un imperativo morale o tutti e tre, concedere venia conviene perché sposta la qualità delle emozioni dal rancore (che non rimanda a niente di buono: in latino rancor deriva da rancere “essere rancido, guasto, andato a male”) alla gratitudine. «Si potrebbe dire che è una sorta di integratore alimentare della dieta delle emozioni, capace di sviluppare un senso profondo di liberazione e la consapevolezza che la propria felicità dipende da quella degli altri», puntualizza Lumera. Gli fa eco Mimmo Petullà, sociologo, antropologo ed epistemologo delle religioni: « La scelta del perdono, rispetto al sentimento di vendetta, si rivela come un progressivo percorso di terapeutica liberazione che, impedendo all’esperienza offensiva d’inchiodarci al passato, schiude inedite e feconde vie d’uscita, non solo per l’oggi, ma anche per il futuro».

Mi perdono

A ben guardare un gesto di sano egoismo per andare avanti e rimettere in moto la propria vita, che altrimenti resta inceppata. Ma appurato e dimostrato che fa bene ad anima e corpo, come si può imparare a perdonare e non solo a Natale quando siamo già tutti più buoni? «Anziché fare un vademecum del perdono riflettiamo innanzitutto su questo punto – afferma Giovanna Carlo, psicoterapeuta e didatta Arpa (Associazione per la ricerca in psicologia analitica) –: per perdonare sul serio bisogna fare una distinzione tra la censura e l’imbavagliamento del disagio che si prova per un torto subito e il vero perdono che lenisce le ferite della memoria, che significa riconoscere l’accaduto e guardare avanti con una nuova prospettiva, accettando il fatto che, come noi, anche gli altri hanno le loro zone d’ombra. Ma ciò che conta davvero – aggiunge la psicoterapeuta – è perdonare sé stessi. Se non possiamo accettarci, facendo i conti con quello che siamo veramente, non possiamo perdonare gli altri. Intendo perdonarsi rispetto a obiettivi o mete personali non raggiunte, rispetto ad ambizioni non realizzate, frutto magari di aspettative troppo alte, di un’educazione troppo rigida o di una religione dai principi punitivi. Bisogna smetterla insomma di essere arrabbiati con sé stessi».

Ricerca interiore

Quindi perché faccia stare meglio davvero chi lo concede e chi lo riceve, dev’essere un perdono vero. «Mi fa stare bene il perdono ricevuto, perché ripristina la relazione con chi ho offeso, ma io devo essere consapevole del male che gli ho fatto – sottolinea Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa –. Mi fa stare meglio il perdono che riesco a dare, perché mi libera dall’idea fissa del torto subito e mi svincola dal peso del passato, ma colui che perdono questo perdono se lo deve meritare». Un percorso lento di presa di coscienza che ha bisogno di tempo e «di interiorizzazione delle esperienze – aggiunge Carlo – che la società attuale, superficiale, sbrigativa e buonista, non aiuta a compiere. La tendenza è a dimenticare, non a perdonare davvero, e questo non fa altro che aumentare un sordo risentimento. Inoltre, perché il perdono si attui realmente, serve da parte di chi ha ferito un’assunzione di responsabilità che richiede anch’essa tempo, ricerca in sé stessi, fatica». Allora, se il perdono non è una scelta improvvisata o un impeto di benevolenza, nella società contemporanea non sembra molto forte e diffusa l’attitudine a quello autentico.

V per vendetta

«Forse si odia di più che in passato – è il parere di Lumera –. Oggi, a causa soprattutto dei social network, l’inconscio personale si riversa continuamente in quello collettivo, con il risultato che i sentimenti di odio che si coltivano ogni giorno hanno una diffusione e una manifestazione senza filtri. La società attuale è basata sulla competizione a tutti i livelli e in questo contesto la misericordia e la comprensione sono viste come una debolezza. Comunque accanto a tutto questo abbiamo moltissimi grandi esempi di perdono – nota Lumera -: Nelson Mandela su tutti. Dopo decenni di prigione si era assunto la responsabilità di perdonare i suoi aguzzini e chiamarli a governare insieme, liberando così le coscienze di un intero paese. C’è poi l’esempio del Ruanda che, dopo il massacro del 1994, ha utilizzato il perdono come strumento di stato per pacificare il paese (esistono anche delle giornate obbligatorie del perdono...). Così, il perdono, come elemento di reciprocità che non esclude – e dall’esclusione nascono tante forme di violenza – può rappresentare la chiave di volta non solo per una trasformazione personale, ma anche sociale e collettiva».

C’è rimedio

Non coltivare il dolore in attesa che la vendetta si compia, ma svincolarsi dal male, cercando un buon motivo per porvi rimedio. Viene da domandarsi se per i popoli sia come per le singole persone: ad alcuni viene più facile che ad altri. «Vari studi hanno evidenziato che le culture di appartenenza influenzano in modo significativo l’attitudine o meno al perdono. Non è un caso che nei paesi dove le dinamiche relazionali risultano più forti e centrali di quelle individualistiche, come per esempio in quelli latinoamericani, perdonare è una pratica sociale piuttosto diffusa. In più, sebbene l’ispirazione scaturita dall’esperienza religiosa non appaia essenziale nel decidersi per il perdono, bisogna riconoscere che essa offre potenti metafore e narrazioni capaci di dotare di senso, dunque di incoraggiare, questa propensione», ritiene Petullà, autore del libro Dalla vendetta al perdono. Un’analisi per liberare se stessi e l’altro (Rubbettino editore, 2015), che allarga così l’orizzonte della riflessione: «Il perdono non è un’invenzione moderna; anzi ha origine con le civiltà più antiche. Oggi, però, potrebbe rivelarsi come un efficace strumento per la risoluzione dei conflitti e il ristabilimento delle condizioni di pace anche a livello internazionale». In fondo qual è il senso del perdono se non dare un’apertura di credito, ancora una volta, malgrado tutto, a una persona e al mondo?


Cuore d’oro

Buono in tutti i sensi, il cuore di chi non porta rancore e sa perdonare.

di Barbara Autuori, articolo pubblicato insieme a quello sopra riportato

Correre, nuotare, giocare a tennis. E perdonare. Come tante altre attività sportive, assolvere chi ci ha ferito e fatto soffrire rappresenta un ottimo balsamo per il fisico, oltre che per l’anima. Perdonare, infatti, si traduce in un calo della pressione, minori sintomi depressivi e un senso di benessere generale, con il risultato – sostengono gli scienziati – che chi sa condonare gli sbagli riduce il rischio di sviluppare malattie cardiache e disturbi mentali scatenati dal ricordo ossessivo dell’offesa. Serbare rancore e rimuginare sui torti subiti, per contro, costa molto anche in termini fisici: l’accumulo di stress si può tradurre in forme di somatizzazione come ulcere e gastriti e incidere sulla qualità del sonno. «Il rancore produce quella che viene definita ruminazione mentale, spesso uno degli aspetti chiave in questo tipo di disturbi», dichiara il neuropsichiatra Stefano Pallanti. Un meccanismo autodistruttivo che può essere bloccato proprio grazie al perdono con effetti benefici soprattutto per il cuore. Lo ha dimostrato la ricerca condotta dall’équipe di Britta Larsen del Department of Psychology and Philosophy dell’Università della California di San Diego. Lo studio ha evidenziato i meccanismi con i quali il perdono agisce positivamente sull’apparato cardiovascolare anche a lungo termine. L’indagine chiedeva ai partecipanti di ripensare a un’offesa ricevuta, prima lasciando fluire la rabbia connessa all’evento e successivamente cercando di raggiungere una posizione interiore di perdono verso la persona responsabile del torto. Nel corso del processo i ricercatori rilevavano la pressione arteriosa, minima e massima, nonché la frequenza cardiaca. Parametri cardiovascolari comparati poi con quelli rilevati nei momenti in cui gli studenti venivano semplicemente distratti dalla loro rabbia. Le persone distratte dal ricordo offensivo avevano all’inizio livelli inferiori di pressione arteriosa (come quelli che avevano perdonato) rispetto a quelli concentrati sulla ruminazione rabbiosa; in seguito però la loro pressione, soprattutto la minima, è risultata più alta rispetto a quella di coloro che avevano effettivamente perdonato. “Il nostro – ha scritto Larsen nell’articolo pubblicato sulla rivista Psychosomatic Medicine – è il primo studio che indica come focalizzarsi sul perdono sia non solo protettivo in quel preciso momento, ma possa offrire una difesa anche successiva attraverso un cambiamento del modo in cui gli individui rispondono al fenomeno della ruminazione psicologica sull’evento che può ripresentarsi nel futuro”. Segno che un cuore che sa perdonare non solo è un cuore grande ma anche più sano.


Esame di coscienza

Un gesto di apertura che richiede una lenta e progressiva presa di coscienza. Il perdono tra sacro e profano nelle parole di Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa

di Rita Nannelli

Che cosa significa perdonare?

«Significa andare contro l’irreversibilità delle cose. Quando subiamo del male, questo male ormai c’è e non può essere cancellato. Possiamo chiedere che vi si ponga rimedio oppure possiamo vendicarci: ma il male – subito o compiuto – rimane comunque. Il perdono ci offre, invece, la possibilità di non vincolarci a ciò che è accaduto. Ci dona la possibilità di andare avanti. È un atto di speranza».

Nella società contemporanea è forte o no il senso del perdono? Ne avvertiamo l’importanza per la vita di relazione?

«Capiamo che è utile, ma non sempre lo consideriamo nella maniera giusta. Troppo spesso vediamo in Tv cronisti sprovveduti che, subito dopo un fatto di sangue, domandano a chi ne subisce le conseguenze se perdona oppure no i responsabili. Così il perdono viene frainteso. Esso, se è vero, comporta una progressiva presa di coscienza ed è quindi il risultato di un lungo percorso».

Quali stati d’animo si accompagnano alla vendetta e quali al perdono?

«La vendetta è un sentimento di chiusura. Ci si concentra sull’obiettivo, si alimenta l’attesa del contrappasso coltivando il dolore che si prova. Il perdono è un gesto di apertura. Si ritiene di poter dare ancora fiducia al mondo e alle persone che lo abitano, nonostante tutto».

Che differenza c’è tra il perdono del credente e quello del laico?

«Il laico perdona direttamente chi gli ha fatto un torto e deve trovare di volta in volta buone ragioni per farlo. Il credente perdona chi gli ha fatto del male coinvolgendo, in questo suo atto, lo stesso Dio. Dio per primo è misericordioso: è colui che può perdonare. Sapere questo e sapere che ciascuno ha bisogno di essere perdonato, aiuta a perdonare gli altri».

Si può imparare a perdonare?

«Certamente. Anzi, si deve. Il perdono, infatti, non è né il frutto di una decisione immotivata né il risultato di un improvviso sussulto di bontà. La capacità di perdonare offre una prospettiva nei confronti delle cose, è un modo di stare al mondo. Perciò bisogna capirne il valore e imparare a esercitarlo, secondo giustizia».

 

 

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