Pienezza di Vita
(19 settembre 2021, vai alla galleria)
Pillole di Buddismo - Un esempio di cosa significa "essere consapevoli e parlare apertamente"
Quanto segue è tratto dalla lettera (gosho) intitolata “Condoglianze per un marito defunto”, scritta nel 1278 da Nichiren Daishonin e indirizzata alla monaca laica Myoho.
Nel frammento che qui cito, Nichiren ricorda alcuni importanti eventi della sua vita, nei quali ha pagato duramente la sua decisione di parlare apertamente di ciò di cui era consapevole. E com’è andata a finire? Oggi i suoi insegnamenti sono conosciuti e praticati in tutto il mondo, quindi, storicamente parlando, ha vinto, nonostante abbia vissuto un estremo isolamento, condizioni assai precarie e disumane, frequenti attentati alla sua vita. Chiunque, al suo posto, probabilmente sarebbe morto di disperazione, eppure la sua fede è stata più forte di qualsiasi persecuzione fatta dai governanti e dalle persone comuni della sua epoca. Come ho scritto in “L'odio profondo e perverso dello Stato italiano verso i cittadini italiani (e una previsione)”: «[...] sembra che lo Stato sia sempre, storicamente e inderogabilmente, smentito. [...]». A quel tempo, “lo Stato” era l’empio potere monarchico e religioso del Giappone.
Quanto segue mi sembra un inno contro l’omertà:
«[…] Ormai il Giappone è diventato un paese nel quale le offese all’insegnamento corretto abbondano e sembra che i tempi siano maturi per l’invasione da parte di un paese straniero.
Chi ne è consapevole e non lo dice apertamente, anche se nell’esistenza presente può godere di pace e sicurezza, cadrà sicuramente nella grande fortezza dell’inferno di incessante sofferenza nella prossima vita. Ma, se, temendo una tale sorte, egli decide di parlare, deve essere preparato a subire l’esilio o la condanna a morte.
Consapevole di questo, durante l’epoca di Bunno [1260] sottoposi una petizione al defunto prete del Saimyo-ji, ma il mio consiglio non fu ascoltato. A quel tempo i credenti Nembutsu, quando seppero ciò che avevo fatto, cospirarono con i loro seguaci di alto e basso rango, e mi attaccarono con lo scopo di uccidermi, anche se non riuscirono nel loro intento.
[Il reggente Hojo] Nagatoki, il governatore di Musashi, figlio del prete laico del tempio Gokuraku, consapevole dei desideri di suo padre, mi fece esiliare senza una ragione plausibile nella provincia di Izu. Come tutti hanno potuto vedere, l’effetto è stato che il prete laico del Gokuraku-ji e Nagatoki sono morti e tutta la loro famiglia si è estinta.
Qualche tempo dopo, fui richiamato dall’esilio. Ancora una volta parlai apertamente come il sutra impone, con ancor maggiore veemenza di prima, e di nuovo, il dodicesimo giorno del nono mese dell’ottavo anno di Bun’ei [1271], fui esiliato, questa volta nella provincia insulare di Sado. Come avevo predetto al tempo in cui ero incorso nella disapprovazione delle autorità, i membri del clan reggente che mi avevano condannato all’esilio cominciarono a litigare fra loro. Forse fu per paura di questo che fui richiamato ancora una volta dall’esilio. Tuttavia i miei consigli non furono ascoltati e la gente comune nutrì un astio ancor maggiore nei miei confronti.
Anche se si rischia la vita per esprimere i propri ammonimenti, se le autorità dello stato non li ascoltano, non c’è dubbio che il paese sia destinato alla distruzione. Tuttavia, se, anche dopo che qualcuno ha messo in luce i loro errori, i governanti si rifiutano di seguirne il consiglio, allora non è colpa di chi ammonisce. Con questo pensiero in mente ho lasciato Kamakura nella provincia di Sagami il dodicesimo giorno del quinto mese dell’undicesimo anno di Bun’ei [1274]. Dal diciassettesimo giorno del sesto mese dello stesso anno risiedo qui, nelle profondità delle montagne, e ormai da cinque anni non mi avventuro per più di cento metri oltre il cancello.
Io sono originario della provincia di Awa. L’amministratore di quella provincia, Tojo Saemon-no-jo Kagenobu, dietro le pressioni del prete laico del Gokurakuji, del prete laico Toji Saemon e di tutti i credenti Nembutsu, di tanto in tanto intentava qualche causa contro di me. Alla fine scatenò le ostilità nei miei confronti e così i sostenitori del prete laico del Gokurakuji riuscirono a distorcere la legge per farmi interdire dalla zona sotto la giurisdizione di Tojo Kagenobu e impedirmi l’accesso. Quindi, sono passati molti anni dall’ultima volta che ho potuto visitare le tombe di mio padre e di mia madre.
Inoltre per due volte sono incorso nella disapprovazione dei governanti del paese. La seconda volta fu annunciato ufficialmente che sarei stato esiliato in una remota località, anche se in privato circolò voce che dovevo essere decapitato. Il dodicesimo giorno del nono mese, all’ora del bue [dall’una alle tre], fui condotto a Tatsunokuchi, presso Kamakura, per esser decapitato. In quel momento, per una qualche ragione, un oggetto simile alla luna giunse nell’aria dalla direzione di Enoshima e aleggiò sul capo del boia che ne fu così terrorizzato da non poter portare a termine il suo compito; poi ci furono vari sviluppi e così quella notte sfuggii alla condanna a morte.
In seguito, dopo essere stato esiliato nella provincia di Sado, ci fu un altro tentavo di decapitarmi, ma, come ho detto prima, scoppiò un dissidio fra varie fazioni a Kamakura e fu inviato in tutta fretta un messaggero a Sado; così non mi decapitarono. Alla fine fui perdonato e adesso vivo solo fra le montagne.
Quando ero nella provincia di Sado vivevo in un cimitero chiamato Tsukahara, un luogo fra i prati e le montagne, lontano da qualsiasi abitazione umana. La mia dimora era una piccola capanna che si reggeva su quattro pali. Dalle assi del tetto si intravedeva il cielo e i muri cadevano a pezzi. La pioggia entrava come se il tetto non ci fosse affatto e all’interno si ammucchiava la neve. Non c’erano né effigi del Budda, né alcuna traccia di stuoie o altre coperture del pavimento. Ma io vi collocai l’effigie del Budda Shakyamuni, il signore degli insegnamenti, che avevo con me da tempo e, con il Sutra del Loto in mano, un mantello di paglia addosso e un cappello di paglia in testa, cercai di viverci come potevo. Passarono quattro anni, durante i quali nessuno venne a visitarmi o a portarmi cibo. Ero come Su Wu, prigioniero per diciannove anni nella terra dei barbari del nord, che indossava un mantello di paglia e mangiava neve.
Adesso sono cinque anni che vivo in questa dimora montuosa. Tutt’intorno, come alti paraventi, sono disposte quattro montagne. A nord si erge il monte Minobu, simile a una scala a pioli che arriva fino al cielo. A sud c’è il Takatori che sembra il monte Kukkutapada; a ovest lo Shichimen, simile alla Barriera di ferro e a est il monte Tenshi, che è il principe ereditario del monte Fuji, l’imperatore.
A nord c’è un grande fiume di nome Haya, rapido come una freccia. A sud c’è il fiume Hakiri capace di far rotolare enormi massi come se fossero foglie d’albero. A est il fiume Fuji scorre da nord a sud, impetuoso come l’affondo di mille alabarde. Lungo il suo corso, la cascata di Minobu è come una striscia di stoffa bianca che penzola dal cielo.
In mezzo a queste montagne e fiumi c’è un angusto appezzamento di terreno, dove sorge la dimora di Nichiren. È un luogo così immerso fra le montagne che anche a mezzogiorno è impossibile vedere il sole e di notte non c’è una luna alla quale comporre poesie. Sulle vette schiamazzano scimmie simili a quelle delle gole di Pa in Cina, e nelle valli lo scroscio battente del fiume sembra un rullo di tamburi. Il terreno è ricoperto da grosse pietre e le montagne sono fatte soltanto di roccia e ghiaia.
I governanti del paese mi odiano e, fra la gente comune, nessuno viene a visitarmi. In inverno i sentieri sono ostruiti dalla neve e in estate sono ricoperti dalla vegetazione. In lontananza si ode il triste bramito del cervo e le cicale strepitano nelle mie orecchie. Nessuno viene a visitarmi ed è difficile mantenermi in vita. Non ho indumenti per coprirmi e quindi puoi immaginare quanto sia stata benvenuta la veste che mi hai donato.
Anche chi mi ha conosciuto o ha sentito parlare di me in passato ha smesso di avere compassione, e i discepoli e i braccianti che fin adesso erano con me mi hanno tutti abbandonato. Quindi è stupefacente che una persona come te, che non ho mai visto e di cui non ho mai nemmeno sentito parlare, mi dimostri una simile gentilezza! Non posso fare a meno di chiedermi se tu sia la reincarnazione dei miei genitori defunti o forse una manifestazione delle dieci fanciulle demoni! […]»
(18 settembre 2021)
E fu così che l'Italia prese fuoco...
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Pillole di Filosofia - Ogni visione del mondo è una metafora
La realtà non può essere da noi percepita così com’è, nella sua vera essenza e interezza, giacché noi, come umani, siamo scissi al nostro interno e normalmente obnubilati nel pensiero e nel sentimento.
Qualunque punto di vista è parziale e illusorio: la vita è un mistero, è un sogno dentro un sogno, quindi i nostri pensieri sono tanto sensati quanto quelli dentro un sogno.
Dai sogni dell’umanità nascono le tradizioni e i miti.
Il mito contiene la consapevolezza del passato, del presente e del futuro, nascosta dietro il significato letterale delle storie tramandate.
Noi possiamo solo raccontarci delle storie e inventarcene di nuove per esprimere la cangiante realtà dell’esistenza.
Ogni nostra visione del mondo è una metafora di ciò che è, da non prendere mai alla lettera perché il linguaggio intrappola una specifica parziale realtà umana, limitata e fallace, ma molto interessante se riusciamo a intuire cosa c’è oltre le parole.
(17 settembre 2021)