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La scelta di fronte ai Cavalieri dell’Apocalisse, tra cristianesimo e buddismo

Inganno, dominio tirannico, guerra, carestia, malattia, disastri e morte sono costanti nell'esperienza umana. I Cavalieri dell'Apocalisse camminano sempre tra di noi, e ci seducono. Folle oceaniche sono sempre pronte a servirli.

Proviamo a fermarci, a staccarci dall’avvelenamento informativo, dai mostri che la propaganda continua a introiettarci per renderci più simili ai servi del male. Odio e rabbia, per quanto possiamo giustificarli, sono sempre al servizio delle forze oscure, anche quando rivolti verso chi commette mostruosità. La saggezza del «porgi l’altra guancia» deve essere scaturita da una simile considerazione.

Rimaniamo in silenzio e osserviamo i nostri pensieri, senza giudicarli, lasciamoli fluire come le nuvole in cielo.

Che tipo di linguaggio interiore stiamo sentendo? E’ fortemente connesso al linguaggio esteriore?

Ovunque io vada, per strada, nei bar, nei mezzi pubblici, nei canali informativi più popolari, sento turpiloquio e miseria spirituale. Questo linguaggio serve solo a nutrire i nostri demoni e a spianarci la strada verso una sorte peggiore dell’attuale. Le parole creano la realtà, per questo hanno un potere immenso.

Un linguaggio gentile, fiducioso e positivo crea un ambiente sereno e accogliente in cui è bello vivere, migliorando il nostro e l’altrui benessere. Al contrario, parole volgari, aggressive, ruvide o negative danneggiano la qualità dei nostri legami con gli altri, la nostra salute, e il nostro stare al mondo diventa ogni giorno più difficile.

Chi si fida e si affida all’Amore divino non ha bisogno di usare parole pesanti né di fare previsioni negative. La fiducia in un Amore universale, cosmico, che tutto crea e tutto abbraccia ci rende sopportabile ogni peso e ci fa guardare oltre le contingenze. Ci alleniamo così a osservare gli altri come creature meravigliose di quello stesso Amore che ha creato noi. «Ama il prossimo tuo come te stesso» comincia così ad avere significato.

Animati da una tale fiducia nella vita, potremmo chiederci perché esista il male. A tal riguardo, sono circa quattordici anni che ho intuito due questioni fondamentali conseguenti alla mia fede nella Legge buddista, che ho espresso in molteplici occasioni:

1. Il male non viene mai per nuocere.
2. Il male si autodistrugge senza bisogno di combatterlo direttamente, basta rimanere nel bene.

In realtà nessun maestro buddista che io conosca si è mai espresso in questi termini così diretti, in quanto fraintendibili. Queste sono soltanto due mie convinzioni interiori che trascendono l’esperienza quotidiana e che si fondano su una visione a lunghissimo termine, che può tranquillamente andare oltre l’esperienza corporea. La mia intuizione è che il male esista per darci il libero arbitrio e che, alla luce della Legge mistica buddista, comunque tutto alla fine si trasformi in bene, è solo questione di impegno personale e di tempo. Dal mio punto di vista ciò è in accordo, anche se in modo indiretto e sottile, con la “Parabola della pioggia benefica” narrata dal Budda nel capitolo 5 del Sutra del Loto.

In questa parabola, la pioggia cade indiscriminatamente su tutti gli esseri viventi, che siano in condizioni favorevoli o meno, e ognuno ne trae il beneficio massimo possibile secondo la propria natura. Possiamo estendere questo principio alla sofferenza, nel senso che anche ciò che ci appare come un “male” è in realtà parte della pioggia del Dharma, cioè dell’insegnamento del Budda, il quale, nel capitolo 16 del Sutra del Loto, definisce se stesso come un essere eterno e come “il padre di questo mondo che salva coloro che sono afflitti e soffrono”. Tale definizione fa coincidere il Budda con la vita stessa e le sofferenze della vita come un insegnamento di cui “abbiamo bisogno”. Questa prospettiva, tra l’altro, non è molto diversa da quella panteistica di un dio immanente, molto simile a quella del “Deus sive Natura” (lett. “Dio ossia la Natura”) del filosofo olandese Benedetto Spinoza (1632-1677).

Sono certo che molti buddisti occidentali non sono d’accordo con quanto ho appena scritto, in quanto fondano il loro credere sugli insegnamenti del Budda sul non-credere in un dio. La confusione linguistica nasce non solo dal diverso contesto culturale, ma anche dalla differenza tra il “dio-persona” esterno al creato (trascendente), e il “dio-tutto” che è il creato (immanente). In senso lato, sto sovrapponendo il modo con cui il Budda definisce se stesso con ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il principio che lo regge.

Tornando al tema centrale, sto deducendo dall’insegnamento del Budda che ogni situazione, anche negativa, ha un’origine e uno scopo “per noi benefico” che possiamo trasformare in qualcosa di positivo attraverso una fede corretta, un retto pensiero e giuste azioni. Una sofferenza oggi può portare a un grande risveglio domani. La “trasformazione del veleno in medicina” è un concetto sviluppato soprattutto nella tradizione buddista di Nichiren Daishonin.

Facendo il possibile per unire due tradizioni religiose così distanti, come buddismo e cristianesimo, vorrei citare che uno più grandi maestri della Chiesa Cattolica, Sant’Agostino d'Ippona (354-430), è giunto a conclusioni analoghe.

Sant’Agostino ha infatti sviluppato una concezione del male che cerca di rispondere alla domanda fondamentale su come possa esistere il male in un mondo creato da un Dio onnipotente e completamente buono, un Dio è che Amore.

Sant’Agostino concepisce il male come “privatio boni”, cioè privazione o assenza di bene (cfr. cap. 1 "Sant'Agostino, La libertà e il male morale" di "Bene e Male" di Marco Salvioli). Per Sant’Agostino, il male non è una sostanza o un’entità indipendente, piuttosto è la mancanza o la corruzione di un bene preesistente. Questa idea è stata fondamentale per la teologia cristiana, perché ha permesso di spiegare l’esistenza del male senza attribuirne la creazione diretta a Dio. In altre parole, Dio ha creato tutto ciò che esiste e tutto ciò che ha creato è buono, mentre il male si manifesta solo quando qualcosa si allontana dal suo stato di bontà o integrità originale.

Un elemento centrale della visione agostiniana è il ruolo del libero arbitrio. Sant’Agostino sostiene che il male morale esista a causa delle scelte libere delle creature dotate di volontà, come gli esseri umani e gli angeli. Queste creature sono state create da Dio con la libertà di scegliere il bene o il male. Quando scelgono il male, cioè quando si allontanano volontariamente dalla legge divina e dalla bontà, contribuiscono all’esistenza del male nel mondo. Pertanto, Sant’Agostino difende la bontà di Dio sostenendo che il male non è attribuibile alla volontà divina, ma alla cattiva scelta delle creature.

Un’altra importante idea di Sant’Agostino è che il male esista nel contesto di un ordine universale più grande, che Dio permette per scopi che spesso vanno oltre la comprensione umana. Sant’Agostino sostiene che Dio può trarre il bene anche dalla presenza del male, mantenendo un equilibrio nella creazione che conduce al bene ultimo. Questa concezione di Sant’Agostino è stata ripresa anche in questo passaggio della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino (1224-1274), che cito letteralmente:

«Ad primum ergo dicendum quod, sicut dicit Augustinus in Enchiridio: Deus, cum sit summe bonus, nullo modo sineret aliquid mali esse in operibus suis, nisi esset adeo omnipotens et bonus, ut bene faceret etiam de malo. Hoc ergo ad infinitam Dei bonitatem pertinet, ut esse permittat mala, et ex eis eliciat bona.»

Tradotto: «Alla prima obiezione si deve dunque rispondere che, come dice Agostino nell'Enchiridion: Dio, essendo sommamente buono, in nessun modo permetterebbe che ci fosse del male nelle sue opere, se non fosse così onnipotente e buono da trarre bene anche dal male. Questo dunque appartiene all'infinita bontà di Dio, che Egli permetta l'esistenza dei mali e ne tragga dei beni.»

Questa visione cerca di dimostrare che, pur essendo presente, il male contribuisce indirettamente al disegno divino finale di bontà e redenzione.

Sant’Agostino crede anche che il male sia autodistruttivo per natura. Poiché il male è una deviazione dalla bontà e dalla verità di Dio, non ha una vera essenza o solidità e non può durare indefinitamente. Quando le creature scelgono il male, tendono alla corruzione e alla morte, perché si allontanano dalla fonte della vita, che è Dio. Di conseguenza, il male porta inevitabilmente alla sua stessa rovina, poiché si basa su un’assenza piuttosto che su una sostanza.

Possiamo quindi notare delle sovrapposizioni tra cristianesimo e buddismo nel concezione del male, che in entrambi i casi diventa strumento del bene. Ma alla fine, la nostra scelta di fronte ai Cavalieri dell’Apocalisse, se servire il male o essere strumenti dell’Amore divino, è e rimane personale. Entrambe le scelte hanno un costo molto alto. La terza via, quella degli ignavi che “visser sanza infamia e sanza lodo” (Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto III) non la auguro a nessuno.

(20 novembre 2024)

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