Fede positiva?

Tutti abbiamo una fede, nel senso di fiducia in qualcosa che prescinde da qualsiasi dimostrazione razionale. Anzi, visto che quasi nulla è dimostrabile nella sua verità o falsità, ne segue che siamo guidati fondamentalmente da "credenze", nel senso più neutrale e non giudicante del termine.

I nostri pensieri sono costruiti sulle nostre credenze (e non solo su quelle personali, ma anche su quelle collettive), oltre che sulle nostre esperienze, sul nostro vissuto, sulla nostra biologia, sulle circostanze del momento e su altri condizionamenti. Il nostro punto di vista è necessariamente ego-centrato, cioè centrato su di noi, non potrebbe essere altrimenti: dove si trovano i nostri occhi fisici? Appunto, dentro di noi, ed è da lì che cominciamo a vedere l'esterno, con un punto di vista soggettivo che non potrà mai coincidere con i punti di vista altrui, fatte salve tutte le capacità di astrazione proprie della nostra specie.

Le parole derivano dai pensieri (nel migliore dei casi, nel senso di pensieri che provano a discernere la realtà), ma sono parole che hanno senso? A volte le nostre parole non sono guidate dal pensiero, ma da altro. Se le nostre parole non hanno senso, se parliamo tanto per parlare, possono essere parole dannose. Se parliamo con una fede negativa nella vita, alimentiamo la nostra sventura; se parliamo con una fede positiva nella vita, al contrario alimentiamo la nostra fortuna. Nulla è a caso e i nostri pensieri possono essere profezie auto-avverantesi. Le parole sono importanti ed è proprio per questo che vanno legate all'azione, altrimenti diventano parole svuotate di significato. Lo stesso vale per le parole che compongono le nostre preghiere.

In ogni cosa ci sono sia gli aspetti di luce, sia quelli di ombra, quelli di speranza e quelli di disperazione, quelli animici e quelli egoici. Cerchiamo di guardare gli aspetti di luce, con una fede positiva nella vita. Il buddismo, e in particolare Nam-myoho-renge-kyo, ci aiutano a sviluppare tale fede positiva. Se la sorgente dei nostri pensieri sgorga da una simile fede, il ruscello della nostra vita sarà pieno di gioia di vivere.

Nam-myoho-renge-kyo,
Francesco,
21 giugno 2020

Le illusioni sono necessarie?

Nelle riflessioni seguenti, di Giulio Ripa, il termine "illusione" ha un'accezione positiva, indica una passione necessaria per vivere, proiettata dal presente verso il futuro, di cui non conosciamo gli esiti, che possono essere sia in accordo con i nostri desideri, sia no. L'illusione, in questa accezione, è quella spinta interiore che può portarci a fare le cose più belle della nostra vita... e a volte anche le più contraddittorie, ma pienamente vissute e degne di essere vissute. Chiarito il senso linguistico di quanto segue, necessario per evitare facili fraintendimenti, aggiungo una mia riflessione: intenzioni e desideri ci danno la massima energia quando valorizziamo il nostro percorso di vita assai di più dei risultati che otteniamo strada facendo (questo, in alcune filosofie, è chiamato "non-attaccamento al risultato", che è da considerarsi sempre momentaneo).

Nel testo, ho aggiunto il grassetto per evidenziare il concetto-chiave su cui mi sono soffermato.


[...] la lotta contro le grandi piattaforme informatiche è una giusta lotta ma, nello stesso tempo è una lotta perdente.
E' una vita che lotto contro l'illusione tecnologica, come Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento, una lotta che però ha dato un senso alla mia vita.
Ma, è inutile nascondere che la storia dell'uomo è anche storia dello sviluppo tecnologico: dalla clava fino all'ultima piattaforma digitale WhatsApp Pay partita in Brasile come servizio per i pagamenti digitali (link alla notizia).
La tecnologia, l'applicazione della scienza, è diventata, sovrapponendosi alla religione, il nuovo dio in cui credere, che ci dà la possibilità di realizzare desideri senza limiti, compreso il desiderio di immortalità. Ci illudiamo di superare le nostre mancanze con l'ultima innovazione tecnologica, alimentando la speranza di una vita migliore o addirittura eterna, proprio come fanno le religioni.
Le illusioni (religiose, ideologiche, tecnologiche, utopiche etc) danno un senso alla nostra vita, ma è senza le illusioni che possiamo vedere la realtà così come è. E' in questa contraddizione che si gioca la vita dell'uomo.
Tutti vogliono essere sempre felici, pur sapendo che la vita è fatta di gioia e dolore.
Vivere ed affrontare la vita significa mettere a nudo le proprie contraddizioni, le proprie oscurità. Nessuno vuole conoscere ed accettare i propri limiti umani, la propria fragilità.
La vita resta un mistero meraviglioso. La realtà così come è si manifesta in forme molteplici, tutte connesse fra di loro, in una totalità a noi sconosciuta quindi sacra. Cerchiamo certezze nella vita, ma l'indeterminazione è il suo carattere fondamentale.
Inutile arrabbiarsi perché le cose non vanno come vorrei, bisogna gioire invece per le cose piacevoli che accadono e pazienza se accadano cose che non piacciono.
L'unica cosa che può fare l'uomo è colludere con la vita, cioè giocare insieme alla vita, accordarsi intimamente con essa senza prendersi troppo sul serio. [...]

Giulio Ripa

Lo scopo del lavoro?

Riflessioni sul lavoro, tratte dalla Prima Pagina di "Ha Keillah (La Comunità)" di maggio 2020, bimestrale sia cartaceo sia online del gruppo di studi ebraici di Torino: https://www.hakeillah.com/2_20_01.htm.

Qual è lo scopo del lavoro? Perché lavoriamo? Nell'articolo seguente si fa riferimento a bereshit, che in questo contesto indica l'inizio della narrazione biblica, ovvero si riferisce alla Genesi.

Evidenzio in grassetto due paragrafi che mi hanno fatto molto riflettere, fermo restando che io "non so nulla", ma mi piace ragionare. Oltre al grassetto, ho aggiunto anche una sottolineatura.

Francesco Galgani,
20 giugno 2020

Corona, Pil e Messia

di Manuel Disegni

 

All'inizio ho pensato: e se il coronavirus fosse il messia?

La pandemia, mi son detto, è una chance rivoluzionaria. Quale occasione migliore per cambiare radicalmente il nostro rapporto sociale con la natura, se non quella in cui farlo è il modo più sicuro di sopravvivere, e forse l'unico?

La natura... bisogna ancora che troviamo una maniera di andarci d'accordo. Nei suoi confronti ci comportiamo come degli adolescenti fanatici; oscilliamo fra estremi opposti, incapaci di una visione sobria e oggettiva. O la veneriamo come una divinità materna e protettiva (una sorta di eco-paganesimo vegano), oppure la sfruttiamo e ne abusiamo come se fosse lì, gratis, a nostra disposizione, non avesse valore, e potesse essere buttata via e sostituita a nostro piacimento (una sorta di antropocentrismo solipsistico).

La verità è che la natura ci procura molti benefici – come per esempio la salute, il nutrimento, i cieli stellati e molti altri comfort – ma anche tanti pericoli – come per esempio la fame, le intemperie, il coronavirus e altri malanni. Per godere dei primi, e per evitare i secondi, noi lavoriamo. Le cose pare che stiano così fin da principio, fin da bereshit, in cui sta scritto: bezeat apecha tochal lechem, mangerai pane col sudore del tuo volto. Anche i bambini lo sanno.

Ma oggi noi lavoriamo anche per altri propositi (di chi siano questi propositi, è una bella domanda). Lavoriamo per espandere i profitti. I profitti sono – per definizione – quella cosa che può espandersi solo grazie al fatto che del lavoro venga svolto. Dunque noi lavoriamo affinché del lavoro venga svolto. È questo un fine diverso da quello immaginato dall'autore della narrazione di bereshit. Lavorando noi però tendiamo a dimenticarci del principio e del motivo per cui stiamo lavorando (godere le gioie e allontanare i dolori che ci offre la natura), e continuiamo a lavorare.

Sto parlando del capitalismo. Il capitalismo potrebbe essere definito correttamente come quella forma di organizzazione sociale nella quale il lavoro è un fine in sé. Il punto è: lavorare il più possibile. Fra gli inconvenienti di “lavorare il più possibile” vi è quello di nuocere alla salute. Così il capitalismo può essere definito anche come un virus, molto contagioso, che si è diffuso in tutto il mondo negli ultimi due o trecento anni e dal quale la nostra società continua a essere affetta. E non solo la società, ma anche il nostro cervello. Infatti l'idea che il lavoro sia lo scopo finale dell'esistenza umana sta avendo molto successo. Non sono solo i nazisti a pensare che il lavoro renda liberi, ma a quanto pare anche l'Assessorato alle Politiche e al Lavoro del Comune di Napoli, e in certa misura pure gli autori dell'articolo 1 della Costituzione italiana. A guardar bene, tutti quanti lo crediamo almeno un poco.

Che lo crediamo o meno comunque non conta, perché praticamente siamo tutti obbligati a produrre lavoro svolto svolgendo lavoro. Tant'è vero che il principale problema economico delle nostre società ricche e tecnologiche sembra essere la disoccupazione. Non c'è nulla che le spaventa di più del tempo libero. Esse si sforzano di lavorare di più, acciocché si espandano i profitti, acciocché aumenti il PIL (di cui, è bene ricordarlo, la Bibbia non parlava), acciocché l'anno seguente vi sia più lavoro per più gente, acciocché si espandano i profitti… In circostanze ideali lavoreremmo tutti quanti, ininterrottamente e fino a tardissima età. Purtroppo questo non è possibile, ma noi proviamo del nostro meglio. Provando e riprovando, danneggiamo sia la natura esterna, sia la nostra natura propria, la nostra salute e qualità di vita. Senza mai smettere.

Adesso però bisogna smettere – ho pensato quando è arrivato il coronavirus – se non lo facciamo, morremo. E non fra vent'anni, di superlavoro e consunzione, ma fra poche settimane a causa di una polmonite non curata. La pandemia rendeva la minaccia di morte implicita nel lavoro improvvisamente esplicita e immediata per i lavoratori di tutti i paesi e per gli amanti del lavoro di tutte le classi. “Il lavoro uccide” cessava di essere solo uno slogan da scansafatiche. La disoccupazione diveniva la virtù sociale più importante, poiché l'unico modo di prevenire la diffusione del contagio era evitare il maggior numero possibile di contatti interpersonali, e dunque sospendere la nostra quotidiana cooperazione sociale. Non andare al lavoro era quanto di meglio potessimo fare per proteggere tanto la nostra salute individuale quanto quella altrui – quasi come se una mano invisibile si fosse premurata di garantire con matematica certezza l'armonia fra gli interessi individuali e quelli collettivi.

Il coronavirus sembrava sfidare il capitalismo in questo senso: se fino a febbraio 2020 vivevamo in una situazione universale fondata sul principio “lavorare il più possibile”, cioè il capitalismo, a partire da marzo e fino almeno alla distribuzione di un vaccino anti-Covid entravamo in una situazione universale (la pandemia) che richiedeva l'adozione del principio opposto: “lavorare il meno possibile”. La salute pareva spodestare la “crescita” dal suo posto di imperativo categorico dominante. La battaglia fra la protezione di questo bene comune, la salute, e l'esigenza di espansione dei profitti privati non era mai stata tanto aperta da cent'anni (?) a quella parte. Assistevamo a un fatto per tutti noi completamente inedito: erano i medici, e non gli economisti, a dettare la linea politica. “Lavorare il meno possibile”. Nel frattempo Greta Thunberg cominciava già a notare che il cielo era sempre più blu da quando il prezzo del petrolio aveva preso a calare così rapidamente.

Ma che vuol dire – mi sono domandato quando è arrivato il coronavirus – lavorare il meno possibile? Infatti smettere del tutto di lavorare non sembra materialmente possibile (sempre per quella vicenda del peccato originale di cui sopra). “Lavorare il meno possibile” richiederebbe di organizzare il lavoro in maniera diversa dal capitalismo, una maniera che sarà difficile a realizzarsi ma è pur sempre abbastanza facile a dirsi: per lavorare il meno possibile occorrerebbe sospendere la produzione di merci e il libero commercio, e sostituirli con una catena produttiva grande, efficiente e minimale di produzione dei beni essenziali, e con la loro distribuzione gratuita. Si tratterebbe di impossessarsi della tecnologia e delle conoscenze logistiche di cui disponiamo e disporne davvero, impiegandole per garantire a tutti cibo, medicine e servizi sanitari minimizzando il dispendio e il movimento di forza lavoro umana.. I beni prodotti e distribuiti in tal maniera potrebbero poi diventare più vari e più ricchi, via via, con la regressione del contagio.

Per un momento ho pensato che il 2020 non sarebbe stato ricordato solo come l'anno senza scuola e senza gli Europei di calcio, ma anche come l'anno senza PIL. Forse come il primo anno senza PIL.

Invece non sarà così. Quando Ha Keillah va in stampa, le nazioni del mondo si preparano a ripopolare di bacilli maligni i loro luoghi di lavoro (che sono spesso anch'essi maligni). Sfidano la sorte esponendosi ai fragili equilibri di domanda e offerta dell'infezione per scongiurare il rischio di ritrovarsi, l'anno prossimo, disoccupate. E poi se la prendono con le donne, il tempo ed il governo; coi cinesi, gli olandesi e con chi va a fare jogging, perché il messia non arriva mai.

Manuel Disegni

Quello che non so, non lo so... quello che invece so, non corrisponde alla realtà...

Alcune asserzioni, che costituiscono un sottoinsieme microscopico (quasi nullo) rispetto a tutte le asserzioni possibili, sono dimostrabili - una volta per tutte e in maniera incontrovertibile - come "vere". La negazione di ognuna di tali asserzioni è sicuramente "falsa", anche in questo caso una volta per tutte e in maniera incontrovertibile.

Parimenti, altre asserzioni, che costituiscono un altro sottoinsieme microscopico (quasi nullo) rispetto a tutte le asserzioni possibili, hanno una dimostrazione - anch'essa una volta per tutte e incontrovertibile - della non dimostrabilità della loro verità o falsità.

Per tutte le altre asserzioni... ovvero per tutto ciò che di altro può essere pensato e scritto, non rimane che un certo livello di fiducia soggettiva (ovvero fede) sulla loro verità o falsità, oppure il tirare a indovinare (vale a dire servirsi di euristiche), oppure il più onesto ammettere di non sapere. Poiché tali asserzioni non dimostrabili né nel senso della verità, né della falsità, né della non-dimostrabilità della verità o falsità, costituiscono la quasi totalità delle infinite asserzioni possibili, ne segue che il "non sapere" è la condizione più probabile e più realistica anche dell'essere umano più erudito.

Per quanto mi riguarda, non posso neanche dimostrare la verità o falsità di quanto ho qui scritto, in quanto non so se le asserzioni dimostrabili come "vere" o "false" costituisca un insieme infinitamente più piccolo dell'infinito di tutte le asserzioni possibili, come ho presupposto all'inizio di questa riflessione. E' solo una mia congettura, forse dimostrabile, forse no.

Francesco Galgani,
18 giugno 2020

Pages

Subscribe to Informatica Libera - Francesco Galgani's Blog RSS