Il nome nascosto della Verità è Discordia

Nel pianetino di Concordia la vita scorreva tranquilla. La naturale attitudine dei suoi abitanti, i concordiani, era di andare ognuno incontro all’altro, con gioia, vedendo in ogni persona un essere meraviglioso. Nelle piazze, durante i canti e i balli delle feste, le persone spesso si prendevano per mano in cerchio, sentendosi parte della stessa Creazione.

Il senso profondo dell’essere umani era solo attraverso l’umanità degli altri. Ogni persona sapeva interiormente che se avesse concluso qualcosa nella vita sarebbe stato soltanto grazie al lavoro e alla realizzazione fatti insieme agli altri. La solitudine, l’invidia e la paura erano sentimenti poco conosciuti.

Non c’era tanta tecnologia, giusto l’essenziale per andare avanti in armonia con Madre Natura. Il lavoro non mancava e tutte le occupazioni avevano la stessa dignità, riconoscimento e supporto sociale, rivolto anche a filosofi e artisti. L’unica occupazione che nessuno praticava era quella del politico, perché nessuno ne capiva né il senso né l’utilità. Per questa stessa ragione, non esistevano partiti.

Per quanto possibile, le comunità locali agevolavano la scelta di un percorso di vita in base alle proprie inclinazioni. Nessuno veniva discriminato per le proprie scelte, credenze o condizioni personali.

I periodi di carestia erano quelli in cui fioriva il massimo della solidarietà. La morte non spaventava più di tanto, era vista tanto misteriosa quanto la vita stessa. Le malattie e i dolori venivano accettati per quel che sono, senza starci troppo a ragionare sopra. E la vita scorreva, a volte come un piccolo torrente, altre volte come un grande fiume, ma in ogni caso scorreva.

Per tutti questi motivi, ogni concordiano, dal più giovane al più anziano, aveva l’abitudine di pensare interiormente e di rivolgersi agli altri usando il “noi”. Viceversa, l’uso dell’“io” e del “voi” erano abbastanza contenuti. In generale, le espressioni linguistiche, nelle varie lingue e dialetti di Concordia, erano spontaneamente rivolte all’unione piuttosto che alla separazione.

L’individuo, inteso come entità separata e autonoma, semplicemente non esisteva neanche come concetto. Tutti si sentivano parte di qualcosa di più grande. Fin dalla più tenera età, infatti, uno degli insegnamenti fondamentali del vivere sociale era che nulla e nessuno esiste di per sé. Tutto ciò che sembra manifestare le caratteristiche dell’esistenza, in realtà, è solo l’esito temporaneo di relazioni.

Crescendo, i giovani di Concordia imparavano a focalizzare la loro attenzione sulla qualità delle relazioni. Quando discutevano, non capitava quasi mai che qualcuno volesse imporre un punto di vista. Se accadeva, spesso la sofferenza che ne conseguiva era di monito per tutte le persone coinvolte. “Se avessimo tutti un unico pensiero, ci saremmo già estinti”, recitava un proverbio popolare.

E così, anno dopo anno, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio, i popoli di Concordia sperimentavano l’avventura della vita senza guerre, né affrontavano difficoltà superiori a quelle imposte da Madre Natura. Non c’erano leggi scritte, poiché le società, nel loro insieme, erano fatte di persone capaci di regolarsi armoniosamente in base alle circostanze.

Un giorno, però, accadde un evento straordinario. Qualcosa di nuovo e mai conosciuto prima.

Arrivò su Concordia una flotta di esseri celesti, astronauti giunti da chissà dove, armati e guidati da un alieno piuttosto collerico e pieno di sé. Disse: “Io sono il vostro Dio, sono vostro Padre, voi mi servirete e mi amerete, perché ogni mia parola è verità e legge. Chi si comporterà come un figlio obbediente e rispettoso, avrà in ricompensa la mia gloria. Tutti gli altri saranno maledetti”.

Queste parole suonarono molto strane, lontane anni luce dalla sensibilità dei concordiani, che infatti all’inizio non capirono. Ma quest’essere, presentatosi come onnipotente e depositario d’ogni verità e giustizia, trovò il modo di farsi capire abbastanza velocemente, a forza di massacri e torture. Chi non gli ubbidiva, veniva ucciso, tutto qua. Non esitò a compiere stragi.

Su quel pianetino iniziò quindi ad esistere una verità imposta dall’alto e persino delle leggi scolpite sulla pietra. I buoni erano quelli che abbracciavano e difendevano quella verità e quelle leggi, imponendole anche con la violenza o con i ricatti, mentre i cattivi erano tutti gli altri. Un’unica verità era stata quindi sufficiente a creare una divisione che prima non esisteva. Da lì in poi, la storia cambiò direzione, trasformandosi in una serie infinita di guerre, di sangue e di lacrime.

Non era più possibile chiamare quel pianetino “Concordia”, ovviamente. Il nuovo corso della storia impose un nuovo nome. Oggi, quei poveri disgraziati che nonostante tutto hanno ancora il coraggio di abitare quel pianetino, lo chiamano “Terra”. E, purtroppo, tali terrestri hanno la memoria corta. Infatti, non hanno l’accortezza di guardare con tremendo sospetto e motivata inquietudine chiunque si presenti come portatore di verità, o chiunque inviti a schierarsi da una parte piuttosto che da un’altra.

Ma prima o poi capiranno, magari rileggendosi più volte questo breve e lontano ricordo delle loro origini.

(24 agosto 2022)

Studiare serve a confermare la propria ignoranza?

Anni di studio “matto e disperatissimo”, di leopardiana memoria, dove possono portarci? Secondo me, sono possibili almeno due “punti di arrivo”, seppur temporanei.

Il primo, auspicabile, è quello di prendere consapevolezza della propria non-conoscenza e dell’impossibilità di conoscere, giacché la realtà è fatta di opposti compresenti che non possono coabitare serenamente nella propria mente, a meno di non scivolare nell’orwelliano bipensiero (nel peggiore dei casi) o d’abbracciare completamente la disorientante impostazione filosofica di Nagarjuna (nel migliore dei casi). Nagarjuna dimostrò il carattere erroneo di tutti i concetti che gli esseri umani considerano come veri. Se vogliamo comprendere la realtà con il ragionamento, infatti, inciampiamo in una contraddizione dopo l'altra, perché nessuna cosa ha una sua caratteristica inalterabile da poter offrire come sicura garanzia. Da questo punto di vista, il paradosso socratico di sapere di non sapere mi pare la posizione più equilibrata, sebbene non possa salvarci dal rischio della follia. Casomai, se abbiamo la fortuna di essere abbastanza introspettivi, può aiutarci ad essere più consapevoli della nostra inevitabile follia.

Il secondo punto di arrivo, al contrario, è quello di sapere di sapere. Questo ci aiuterà a strutturare il nostro ego, a provare a svolgere il nostro lavoro nel migliore dei modi, e a relazionarci con gli altri mostrando competenza. Potremo dare consigli e darci da fare per il bene di tutti o, estremizzando, per salvare il mondo (solitamente facendo quasi soltanto danni, sbandierati come opere di carità, di generosità o persino di filantropia). Impareremo che, per avere successo ed essere credibili, non dobbiamo mai mostrare incertezze. Come ci suggerisce la programmazione neurolinguistica, è sempre meglio inventare una risposta convincente piuttosto che tacere di fronte a domande su cui, in verità, avremmo poco o nulla da rispondere. In sintesi, questo punto di arrivo è quello di chi esibisce idee chiare su se stesso, sulla vita e sulle proprie competenze. Se poi tale esibizione di chiarezza sia reale o simulata, è un altro discorso.

Ad un primo sguardo, il primo e il secondo punto di arrivo sembrano agli antipodi. In realtà, sono lo stesso punto o, detto in altro modo, sono due punti sovrapposti. E, in quanto temporanei, sono due punti sovrapposti che si spostano continuamente, perché, in fondo in fondo, non c’è nessun punto di arrivo.

Ma allora, se anni di studio matto e disperatissimo non hanno alcun punto di arrivo, cosa possiamo dire di noi stessi? Cosa possiamo rispondere alla domanda “Chi sono io?”. Anzi, meglio ancora, alla domanda: “Io esisto?”. Forse questa, che potrebbe sembrare la domanda delle domande (che peraltro quasi nessuno si pone), è mal formulata, perché non ci sono né esistenza né non-esistenza. Di un oggetto, di un essere vivente, di noi stessi, di un qualsiasi ente concettualizzabile o persino nominabile ma non concettualizzabile (come nel caso di Dio) non si può dire né che “è così”, né che “è non così”; né che “è ambedue”; né che “non è ambedue”. Giacché tutto ciò che esiste o non esiste ha la caratteristica di esistere o di non esistere in base alle relazioni con qualcos’altro diverso da sé, tutte le cose sono prive di natura propria, per cui, a seconda del punto di vista, sono una cosa o un'altra. E soprattutto, panta rei, tutto scorre, in un flusso d’impermanenza che porta via tutto, anche la paura di vivere, la paura di morire, e la pretesa di capire... ma solo se sappiamo stare nel flusso, altrimenti sarà soltanto dolore.

(21 agosto 2022)

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