Perché la tecnica ci piace più della natura?

L'essere umano, creatura fragile e consapevole della propria finitezza, sviluppa un'attrazione profonda per i propri manufatti tecnologici. Essi sono visti come esempi di perfezione, bellezza e desiderabilità, tanto che, spesso, vorremmo essere come loro, cioè immutabili, esenti dal dolore e dalle imperfezioni che caratterizzano la nostra condizione. Come specie vivente siamo particolarmente inclini, rispetto alle altre creature, a cercare rifugio nell'artificiale e a preferirlo al naturale. Anzi, siamo l'unica forma di vita terrestre ad avere questa tendenza. Indubbiamente questo fenomeno è alimentato dalla natura della nostra mente, che rispetto agli altri primati è l'unica ad avere interesse per il pensiero simbolico, che è alla base del linguaggio e del pensiero astratto. Ma dietro questo comportamento così innaturale di prendere rifugio nell'artificiale c'è molto altro.

Il problema risiede nella natura stessa della nostra esistenza, che ci appare fondamentalmente misera e imperfetta. Siamo esseri nati senza saperne il perché, tra sangue, urina e talvolta feci, come qualsiasi altro mammifero. O meglio, a questo "perché" diamo tante risposte più o meno consolatorie, che hanno a che fare con il karma, con Dio, con il caso, con il caos, con l'amore, con la reincarnazione, con la necessità o con la scelta volontaria, con la sola biologia o con il nulla cosmico, ma, a prescindere dalle tante possibili spiegazioni tra loro alternative, la nostra venuta al mondo è sporca e dolorosa, e così è la nostra fine, destinati a tornare alla terra, a decomporci nel putridume. Tra l'inizio e la fine, siamo soggetti a innumerevoli malattie, sofferenze e problemi, e nessuno di noi, che sia re o suddito, può sfuggire a questa realtà. Siamo tutti ugualmente esposti alla crudezza della vita.

La tecnologia, in questo senso, diventa un rifugio. La sua presenza ci circonda e ci rassicura, offrendoci l'illusione di poter sfuggire, almeno temporaneamente, alla brutalità della nostra condizione. Il prodotto tecnologico, essendo non-vivo, è un ideale, una perfezione cristallizzata, esente dalle degenerazioni che affliggono la carne. Non nasce, non invecchia, non si ammala, non muore, permane così com'è, sfuggendo al tempo e alla decadenza. E in questa sua imperturbabilità, troviamo una rassicurazione quasi religiosa.

Non è forse vero che, fin dall'alba dei tempi, abbiamo cercato di proiettare nell'ideale divino queste stesse caratteristiche? L'eternità, l'incorruttibilità, l'infallibilità sono attributi che, nella nostra immaginazione, abbiamo sempre attribuito alle divinità, e in fondo, la tecnologia non è che una nuova forma di divinità laica. In un mondo sempre più secolarizzato, ciò che un tempo cercavamo nel cielo oggi lo troviamo nei nostri dispositivi, nei nostri sistemi intelligenti, nelle nostre macchine.

Un esempio evidente è l'intelligenza artificiale. La sua (apparente?) capacità di elaborare informazioni, risolvere problemi e migliorare costantemente se stessa senza mai invecchiare o ammalarsi, esistendo in un non-luogo (quello delle idee) e in un non-tempo (come qualsiasi altro software), la rende simile a un ideale platonico: pura forma, pura funzionalità. Il nostro pensiero simbolico, precedentemente accennato e unico fra le creature terrestri, ci suggerisce, se non addirittura ci "obbliga a credere", che il mondo materiale non sia la vera realtà, ma solo una copia imperfetta di una realtà superiore.

Una volta questa realtà superiore era proiettata solo nella vita ultraterrena, come esemplificato da questo passo del Corano: «Questa vita terrena non è altro che gioco e trastullo. La dimora ultima è la [vera] vita, se solo lo sapessero!» (Sura 29, Versetto 64). Pensieri simili si trovano in tutte le religioni e filosofie antiche. Tutti i mistici cercano di fondersi con questa realtà superiore e molte forme di meditazione fanno altrettanto. Oggi, tuttavia, noi esseri comuni, confusi e immersi nei problemi, siamo persuasi e illusi di vedere un riflesso di questa realtà superiore nella tecnologia.

Ma non è solo una questione di intelligenza artificiale. La stessa fascinazione vale per le opere d'arte, le costruzioni architettoniche, i macchinari, le poesie. Ogni creazione umana, che sia una macchina, un dipinto, un romanzo, una musica o una voce registrata è una sfida lanciata all'impermanenza e alla morte. Ciò vale persino per i primi disegni (scarabocchi?) di un bambino, che chi li osserverà con amore vedrà pari a capolavori. Con ogni nostro prodotto creativo cerchiamo di fissare un istante, di fermare il tempo, di catturare un momento di bellezza che non sfugga alla corruzione e alla dissoluzione.

In questo senso, la tecnica e l'arte si uniscono in un medesimo progetto: offrirci un'illusione di eternità. Ma c'è una sottile ironia in tutto questo. Pur creando oggetti che sembrano liberarci dalle catene della nostra mortalità, in realtà non facciamo altro che riaffermare la nostra condizione. La nostra adorazione per la tecnologia e l'arte rivela, alla fine, una profonda nostalgia, ovvero il desiderio di un mondo che non sia soggetto alle leggi della biologia, un mondo dove non si nasca e non si muoia, dove il dolore e la sofferenza siano assenti. È un sogno di eternità, di permanenza, di astrazione e di purezza che (per fortuna?) resterà sempre confinato al regno delle idee e delle speculazioni fantasiose di altri mondi, mentre la realtà, quella della carne e della natura, continuerà a mostrarci la sua indifferenza alle nostre illusioni, con la sua durezza, con il suo corso ineluttabile di piccole gioie e grandi tragedie. E' possibile che l'attrazione per mondi e creature a noi sconosciuti e alieni, o per enti puramente spirituali, nasca proprio dalla speranza, cioè dall'illusione, che altrove tutta questa sofferenza non ci sia o che sia stata risolta.

A ben vedere, però, se anche dessimo per certo l'Aldilà, popolato dalle anime dei nostri cari defunti, da angeli, da demoni, e da innumerevoli tipi di creature che neanche immaginiamo e che potrebbero provenire da altri mondi o creazioni, perché mai dovremmo pensare che non soffrano come noi o più di noi? Giusto per fare un esempio e non parlare solo di teorie, basterebbe notare che chi pratica i cosidetti "viaggi astrali", detti anche "Out of Body Experience" (OBE), riferisce scene e situazioni che sono simili a quelle della vita quotidiana terrestre, incluso il mangiare, socializzare, lavorare o esplorare ambienti familiari. C'è anche chi riferisce di aggressioni, violenze e di eventi terrificanti. Quindi sembrerebbe che l'Aldilà non sia così diverso dall'Aldiqua. Potrebbe non esserci nessun rifugio dalla sofferenza, né di qua, né di là.

E così, nel frattempo, in attesa di morire, ci aggrappiamo ai nostri manufatti, sperando di trovare in essi una risposta, un conforto, un modo per trascendere la nostra condizione. Ma forse, nel farlo, stiamo solo scambiando la verità per un'illusione di eternità, senza mai affrontare davvero la nostra finitudine.

A questi motivi di fascinazione della tecnologia, possiamo aggiungere la sua incorruttibilità morale, in quanto non soggetta alle debolezze, tentazioni e perversioni di chi, avendo coscienza, anima e carne, può scivolare nelle peggiori bassezze di cui l'essere umano ha grande e impareggiabile esperienza. In questo senso, un'intelligenza artificiale non aggredibile dalle suggestioni del diavolo sembra più divina e più suggestiva della resistenza di Gesù alle tentazioni di Satana durante i quaranta giorni di digiuno nel deserto. Anzi, a dirla tutta, mentre è raro che qualcuno prenda il digiuno e la resistenza alle tentazioni come modello di vita, e ancor meno probabile che ambisca a finire in croce, è molto più verosimile che tante anime sofferenti sognino di potersi anche solo un po' avvicinare alla "grandezza" (?) dei nostri artefatti tecnologici, come ChatGPT e altri. Da qui nasce l'ideale del transumanesimo e la sua ambizione di trasformare radicalmente la natura umana per il tramite dell'ibridazione con la macchina. L'impianto di dispositivi elettronici nel cervello umano (BCI, Brain-Computer Interface), come già stanno facendo Neuralink, Synchron, Blackrock Neurotech, CereGate, Kernel, Paradromics, BrainCo e altre aziende è solo l'inizio.

Forse l'unica via per superare questo grande inganno, questa nostra autodistruzione motivata dalla preferenza di ciò che è morto (la tecnologia) rispetto a ciò che è vivo (la natura), sta nell'accettare la miseria e lo schifo delle nostre vite per quello che è, con la consapevolezza che quello che c'è di bello è proprio all'interno dei limiti delle nostre deboli esistenze e dei nostri deboli sentimenti. Oltre quei limiti, non c'è nulla, se non la seduzione di ciò che non c'è e che mai potrà esserci.

Anche la ricerca della felicità, ammesso che essa possa avere qualche significato nel piano infernale dell'esistenza in cui, come genere umano, ci ritroviamo, ha senso soltanto entro tali limiti, oltre i quali ci saranno soltanto disperazione e stridore di denti, a causa della nostra non-volontà di accettare la vita per quello che è. Se ponessimo fine alla nostra cruenta e inutile guerra contro la natura e i suoi limiti, forse saremmo già felici.

Oserei dire che la felicità inizia con l'accettazione della sofferenza e delle sue molteplici forme, malattie e morte comprese. Del resto, i saggi e i santi non hanno mai rifiutato i dolori fisici ed emotivi. Ne abbiamo un'infinità di esempi, per chi li vuol vedere. Le loro vite sembrano creare una sovrapposizione tra le parole "felicità" e "fede", ma le parole sono troppo limitate e solo l'esperienza vissuta è maestra.

Stiamo attenti alle nostre illusioni e alle sofferenze inutili che ne derivano.

(10 ottobre 2024)

Manifestazioni per la pace

Chiedi la pace,
e ricevi percosse.

Alzi la voce,
ti menano più forte.

Alzi le mani,
la prigione t'attende.

Dici la verità,
fai la fine d'Assange.

(5 ottobre 2024, www.galgani.it)

 

Manifestazione nazionale a sostegno della Palestina e del Libano contro la guerra d'Israele.
Roma, sabato 5 ottobre 2024

foto originale di Mauro Scrobogna (LaPresse), fotoritocco di Francesco Galgani

Manifestazione nazionale a sostegno della Palestina e del Libano contro la guerra d'Israele. Roma, sabato 5 Ottobre 2024. Foto originale di Mauro Scrobogna (LaPresse), fotoritocco di Francesco Galgani

Il concetto di Sé nel buddismo e di Anima nella filosofia occidentale

L'idea di un "Sé" o di un'"Anima" è centrale nelle riflessioni filosofiche e spirituali sia dell'Oriente che dell'Occidente. Nel Buddismo, il concetto di Anatta (Pali) o Anatman (Sanscrito), traducibile come "non-sé", sfida l'idea di un'entità permanente, mentre la filosofia occidentale ha spesso sostenuto l'esistenza di un'anima immortale e individuale.

Il Sé nel Buddismo

Secondo gli insegnamenti buddisti, ciò che percepiamo come "sé" è in realtà un insieme di fenomeni in continua evoluzione.

Il Budda disse: “Ho insegnato una cosa e una sola: la sofferenza e la fine della sofferenza”. I suoi insegnamenti sull'anātman sono improntati su questa linea. Nel "Anattalakkhaṇa Sutta" (secondo discorso pubblico del Budda dopo la sua illuminazione), egli affermò:

"Tutti i fenomeni sono privi di un sé; quando ciò viene compreso con saggezza, allora si abbandona la sofferenza."

All'epoca del Budda, la ricerca spirituale era in gran parte vista come la ricerca dell'identificazione e della liberazione del vero Sé di una persona. Tale entità era considerata la natura interiore permanente di una persona, la fonte della vera felicità e il “controllore interiore” autonomo delle azioni, degli elementi interiori e delle facoltà di una persona. Dovrebbe anche avere il pieno controllo di se stesso. Nel brahmanesimo, questo ātman era visto come un Sé universale identico a Brahman, mentre nel giainismo, ad esempio, era visto come il “principio-vita” individuale (jīva). Il Budda sosteneva che tutto ciò che è soggetto al cambiamento, tutto ciò che è coinvolto nella disarmonia del dolore mentale, tutto ciò che non è autonomo e totalmente controllabile dalla volontà propria o del proprietario, non può essere un vero Sé perfetto o ciò che in qualche modo gli appartiene. Inoltre, considerare qualsiasi cosa come tale significa porre le basi per molte sofferenze; infatti, ciò che si considera con affetto il proprio Sé permanente ed essenziale, o il suo possesso sicuro, in realtà cambia in modi indesiderati.

Sebbene le Upaniṣad (testi filosofici e spirituali dell'antica tradizione indiana che esplorano la natura della realtà ultima "Brahman", del sé "Ātman" e della liberazione spirituale "mokṣa") riconoscessero molte cose come non-Sé, ritenevano che si potesse trovare un vero e proprio Sé. Ritenevano che, una volta trovato e riconosciuto come identico a Brahman, la base di tutto, questo avrebbe portato alla liberazione. Nei Sutra buddisti, invece, tutto è visto come non-Sé, persino il Nirvana. Quando questo viene conosciuto, la liberazione - il Nirvana - viene raggiunta attraverso il totale non-attaccamento. Quindi sia le Upaniṣad che i Sutra buddisti vedono molte cose come non-Sé, ma i Sutra lo applicano a tutto.

L'insegnamento sui fenomeni come non-Sé non intende solo minare i concetti brahmanici o giainisti di Sé, ma anche concezioni molto più diffuse e sentimenti radicati di Io. Sentire che, per quanto si cambi nella vita dall'infanzia in poi, una parte essenziale rimane costante e immutata come il “vero io”, significa credere in un Sé permanente. Agire come se solo gli altri morissero e ignorare l'inevitabilità della propria morte significa agire come se si avesse un Sé permanente. Mettere in relazione i fenomeni mentali mutevoli con un Sé sostanziale che li “possiede” - “sono preoccupato ... felice ... arrabbiato” - significa avere un tale concetto di Sé. Costruire un'identità basata sul proprio aspetto corporeo o sulle proprie capacità, o sulle proprie sensibilità, idee e credenze, azioni o intelligenza, ecc., è considerarle parte di un “Io”.

Il Budda accettava molti usi convenzionali della parola “sé”, come “te stesso” e “me stesso”. Questi li considerava semplicemente dei modi convenienti per riferirsi a un particolare insieme di stati mentali e fisici. Ma all'interno di questo sé convenzionale ed empirico, egli insegnava che non si poteva trovare un Sé metafisico permanente, sostanziale e indipendente. Questo è ben spiegato da una delle prime monache, Vajirā: come la parola “carro” è usata per indicare un insieme di oggetti in relazione funzionale, ma non una parte speciale di un carro, così il termine convenzionale “un essere” è propriamente usato per riferirsi ai "pañca skandha" (cinque aggregati) in relazione tra loro. Nessuno di tali skandha è un “essere” o un “Sé”, ma questi sono semplicemente etichette convenzionali usate per indicare l'insieme dei skandha funzionanti.

I cinque skandha, o cinque cumuli o cinque aggregati, sono cinque aggregati psicofisici che, secondo la filosofia buddista, sono alla base dell'affermazione del sé. Essi sono:

- rupa-skandha - aggregato della forma
- vedana-skandha - aggregato delle sensazioni
- saṃjñā-skandha - aggregato di riconoscimento, etichette o idee (percezione, cognizione)
- saṃskāra-skandha - aggregato di formazioni volitive (desideri, volontà e tendenze)
- vijñāna-skandha - aggregato della coscienza

I cinque skandha sono essenzialmente un metodo per comprendere che ogni aspetto della nostra vita è un insieme di esperienze in continua evoluzione. Non esiste un aspetto veramente solido, permanente o unico. Tutto è in movimento. Tutto dipende da molteplici cause e condizioni.

L'insegnamento del non-Sé non nega la continuità del carattere nella vita e, in una certa misura, da una vita all'altra. Ma i tratti persistenti del carattere sono semplicemente dovuti al ripetersi di certi citta, o “atteggiamenti mentali”. Il citta nel suo complesso viene talvolta definito un “sé” (empirico), ma mentre questi tratti caratteriali possono essere duraturi, possono comunque cambiare e cambiano, e quindi sono impermanenti, e quindi “non-Sé”, insostanziali.

Una “persona” è un insieme di processi mentali e fisici in rapida evoluzione e interazione, con modelli caratteriali che si ripresentano nel tempo. Su questi processi si può esercitare un controllo solo parziale: quindi spesso cambiano in modi indesiderati, portando alla sofferenza. Essendo impermanenti (e dolorosi), non possono essere un Sé permanente.

Le diverse scuole buddiste hanno interpretato l'Anatta, cioè il non-Sé, in modi vari. Il Theravada sottolinea la pratica della meditazione e l'analisi dei fenomeni per realizzare l'assenza di un sé. Il Mahayana, invece, attraverso testi come i "Prajñāpāramitā Sutra" (è una raccolta di circa quaranta testi composti in India tra il 100 a.C. e il 600 d.C. circa), introduce il concetto di vacuità (śūnyatā), estendendo l'assenza di essenza intrinseca a tutti i fenomeni. Su questo tema, rimando i miei lettori ad un approfondimento su Nagarjuna, che ho già estesamente trattato in questo blog.

Vale comunque la pena di notare che una parte del buddismo contemporaneo, che potremmo definire "occidentalizzato" e "iper-semplificato", sembra ignorare del tutto questi concetti fondanti del pensiero buddista, aderendo più all'idea dell'Anima, come storicamente intesa in Occidente, che al non-Sé come insegnato dal Budda.

L'Anima nella filosofia Occidentale

In Occidente, l'idea di un'anima immortale ha radici profonde nella filosofia greca e nella tradizione giudaico-cristiana. Platone (428-348 a.C.) sosteneva che l'anima è eterna e preesiste al corpo. Nel dialogo "Fedone", discute l'immortalità dell'anima e la sua capacità di accedere al mondo delle idee pure.

Aristotele (384-322 a.C.), allievo di Platone, offre una visione diversa. Nel suo trattato "De Anima", definisce l'anima come la forma del corpo, il principio che dà vita e funzionalità all'organismo. Per Aristotele, l'anima non può esistere separatamente dal corpo, differenziandosi così dal dualismo platonico.

Con l'avvento del Cristianesimo, l'anima assume una dimensione morale e trascendente. Sant'Agostino (354-430) combina la filosofia platonica con la teologia cristiana, enfatizzando la natura immateriale e immortale dell'anima, destinata al giudizio divino. Nelle "Confessioni", esplora la relazione tra l'anima e Dio.

Nel Medioevo, San Tommaso d'Aquino (1225-1274) integra il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana. Nella "Summa Theologiae", argomenta che l'anima razionale è la forma sostanziale del corpo umano, immortale e capace di esistere indipendentemente dopo la morte.

In epoca moderna, René Descartes (1596-1650) propone il dualismo cartesiano, separando nettamente mente e corpo. Nel "Meditazioni Metafisiche", afferma: «Io penso, dunque sono». Per Descartes, l'anima (mente) è una sostanza distinta dal corpo fisico, capace di esistere indipendentemente.

Confronto tra le due prospettive

Il Buddismo e la filosofia occidentale offrono visioni contrastanti sulla natura del sé o dell'anima. Nel Buddismo, l'assenza di un sé permanente è fondamentale per liberarsi dalla sofferenza. L'attaccamento all'idea di un sé immutabile è visto come illusorio e fonte di dolore.

Al contrario, la filosofia occidentale tradizionale considera l'anima come essenza dell'identità personale, fondamentale per questioni etiche, morali e metafisiche. L'idea di un'anima immortale ha influenzato profondamente concetti come responsabilità morale, vita dopo la morte e salvezza.

Comprendere queste differenze arricchisce il dialogo interculturale e offre strumenti per riflettere sulla nostra identità, sul significato della vita e sul percorso verso la saggezza.

(2 ottobre 2024)

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