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Psicologia

Oltre l’omertà: il dovere di parola (di Monica Brogi)

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Lettera pubblica al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi

"OLTRE L’OMERTÀ: IL DOVERE DI PAROLA"

Alla cortese attenzione del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, 
alla comunità professionale di cui faccio parte.


SALVE COLLEGHE E COLLEGHI,
mi chiamo Monica Brogi, psicologa dal 1997, psicoterapeuta e psicodrammatista, iscritta all’Ordine degli Psicologi della Toscana.
Ho scelto questa professione con la profonda convinzione che rappresenti uno spazio di ascolto, compassione e reciprocità. Un luogo in cui accogliere la meraviglia delle storie, l’immaginazione, la vitalità — e anche il caos, inteso come origine del nuovo.


IL DUBBIO: RESTARE O USCIRE?
Negli ultimi anni ho riflettuto a lungo sul mio rapporto con l’Ordine degli Psicologi.
Oggi, con dolore ma anche con lucidità, mi interrogo sul senso del restare iscritta a un’istituzione
che sento sempre meno come una casa.
Uscire o restare?


IL PRIMO STRAPPO: LA SOSPENSIONE
Il primo segnale di distacco è arrivato durante la gestione della pandemia da COVID-19, con l’introduzione dell’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari.
Sono stata sospesa dall’esercizio della professione per non aver aderito a tale obbligo.
Come scrivevo nella mia prima lettera pubblica al CNOP, Il codice tradito, questa esperienza ha rappresentato per me una frattura profonda.
Non contesto la legittimità delle norme dello Stato, né la necessità per l’Ordine di attenervisi.
Ciò che mi ha ferita è stato il modo in cui l’Ordine ha scelto di affrontare tutto questo: escludendo, invece di aprirsi al dialogo.
Ha ignorato la complessità umana, non ha tutelato la libertà, né la coscienza individuale e sociale.
Come è accaduto a me, è accaduto a molti colleghi: sospesi, silenziati, ignorati. Ridotti a numeri, a corpi da regolare.


LA VOCE DEL DISSENSO
Eccomi di nuovo, con una seconda lettera pubblica.
Non per alimentare polemiche, ma per senso di responsabilità.
Ecco alcuni punti su cui sento il dovere di dissentire. 

UNA NARRAZIONE DEL MALSERVO
Dissento dalla narrazione proposta — troppo spesso — dall’Ordine attraverso i suoi canali ufficiali.
Ogni comunicato sembra seguire un copione fisso, scandito da parole come: ansia, stress, solitudine, depressione, disconnessione, tentativi di suicidio, suicidi, dipendenze, crisi climatica, emergenze.
Una lunga lista di malesseri che si presentano come diagnosi implicite e che, puntualmente, si conclude con l’invito a rivolgersi a uno psicologo.

Quale immagine della psicologia — e, soprattutto, dell’essere umano — emerge da questa costante esposizione al disagio?
La continua introduzione di nuove etichette diagnostiche e allarmi finisce per frammentare l’esperienza soggettiva, trasformando vissuti esistenziali in disturbi da trattare.
Una narrazione che, invece di accogliere l’unicità del sentire, lo riduce a schema: lo codifica, lo incasella. Una narrazione che male serve, che serve male.

Dov’è la promozione della vitalità, della creatività, della meraviglia, della gioia, della bellezza delle
relazioni? Dove trova voce il canto della rinascita, dell’intuizione, dell’immaginazione?

La psicologia che amo non è soltanto ascolto del dolore — che è sacrosanto — ma ascolto della vita che resiste, che pulsa sotto le macerie del trauma. Proprio lì si accende il thauma: quello stupore profondo che ci sorprende, quella scintilla che fa spalancare gli occhi e ci muove, aprendoci a un senso nuovo.

Eppure, nel linguaggio ufficiale, sembra che il trauma abbia preso tutta la scena, lasciando nell’ombra la meraviglia e la tensione creativa.
Un segnale evidente è l’uso quasi automatico dell’etichetta PTSD-Post-Traumatic Stress Disorder: come se lo sguardo si fosse fissato solo sulla frattura, dimenticando la vertigine generativa.
Certo! Il trauma — a differenza del tremore dell’anima — si presta più facilmente a protocolli,
corsi, accreditamenti, dinamiche di profitto e interessi sociopolitici e culturali.

CONTRO L’ADDOMESTICAMENTO DEL SAPERE
La formazione del malservo

Dissento dalla politica impositiva degli ECM, che percepisco come uno strumento di controllo burocratico, economico, politico e sociale — non come un vero veicolo di apprendimento significativo, né tantomeno di risveglio interiore e culturale.

Mi formo costantemente, da sempre.
Lo faccio in modo ampio e profondo, attraverso esperienze che nutrono l’essere nella sua interezza: percorsi corporei, pratiche creative, esperienze spirituali, immersioni nella natura, relazioni trasformative, letture e scrittura (ho pubblicato cinque libri e attualmente sto lavorando a tre nuove opere), percorsi terapeutici, due scuole quadriennali di formazione, un master, scuole parallele di medicina tradizionale cinese, riflessologia plantare, una formazione in artiterapie (danza, teatro, scrittura creativa), esperienze di ascolto, poesia e canto “su strada”, in dialogo con la gente.
Per me la formazione è un movimento vitale e continuo, che coinvolge il tutto, che abita l’incertezza e l’intuizione, e che non può essere ridotto a una somma di crediti da accumulare.

Oltretutto… sfogliando l’elenco dei corsi ECM, trovo — troppo spesso anche in questo caso — un linguaggio allarmistico: emergenza, disturbo, trauma, burnout, disconnessione, diagnosi precoce, deficit, disadattamento, rischio, stress, linee guida, protocolli.
Poi… un’intera sezione dedicata ai bambini (povere creature), attraversata da parole come:
dislessia, disortografia, discalculia, disturbo dell’attenzione, iperattività, difficoltà di regolazione emotiva, compromissione delle funzioni esecutive.
Il tutto confezionato come urgenza clinica, tra allarmi, prevenzione e interventi precoci.
Una formazione che male serve, perché produce una psicologia rigida, inquadrata, asettica, vincolata a protocolli, classificazioni, griglie di valutazione, standardizzazioni.

SUPERVISIONI “GIUDICI”
Dissento dalle supervisioni “giudici”.
Spazi che dovrebbero essere luoghi di apertura, sostegno e riflessione si trasformano, troppo spesso, in circuiti giudicanti e normativi — e, non di rado, in rilevanti fonti di profitto — dove si smarrisce la dimensione umana del lavoro clinico.

Talvolta si assiste a una sottile — o perfino esplicita — violazione della privacy dei pazienti; e a una supervisione che si trasforma in un’indagine: si scava con insistenza nella storia personale del terapeuta supervisionato, e parallelamente si rincorre con ansia il “nodo” del paziente, come se ogni complessità dovesse essere forzatamente tradotta in origine, causa, trauma. Un approccio che toglie respiro e distorce il senso stesso del lavoro clinico.

Così si entra in una logica conformante, rischiando di trasformare il supervisore in una sorta di “guaritore del terapeuta”, sempre più simile a un funzionario disciplinare: seduto alla scrivania del “giudice dell’anima”, intento a catalogare più che ad ascoltare, a correggere più che ad accogliere, a tradurre il linguaggio profondo dell’esperienza in tecnicismi e schemi valutativi.

LA PROFESSIONE IN SALDO
Dissento dal silenzio inquietante che circonda la deriva economica e commerciale che sta attraversando la nostra professione.
Mi riferisco in particolare alla proliferazione di piattaforme online che offrono sedute a costi fortemente ribassati per l’utenza — spesso intorno ai 49 euro, con punte al ribasso fino a 35 euro — riconoscendo ai professionisti compensi netti tra i 22 e i 26 euro a seduta.
Non è mia intenzione giudicare i colleghi che scelgono — o si trovano costretti — a lavorare in questi contesti. Sono ben consapevole delle difficoltà economiche e delle pressioni di mercato che spesso inducono a scelte non ideali.
Tuttavia, mi interrogo sul silenzio dell’Ordine di fronte a pratiche che rischiano di ledere profondamente la dignità della nostra professione. 

Dove sono i presìdi deontologici chiamati a tutelare la professione?
Dov’è la difesa dell’equo compenso, essenziale per garantire qualità, rispetto e sostenibilità al nostro lavoro?
Chi interviene di fronte a dinamiche di mercato che spingono verso una competizione al ribasso?
Chi tutela quei professionisti che scelgono di mantenere tariffe in linea con la responsabilità assunta ogni giorno nei confronti dei propri pazienti?
Senza un pronunciamento istituzionale chiaro e una presa di posizione netta, il rischio è che la nostra professione venga progressivamente svuotata di senso, trasformandosi in un servizio “in saldo”.

È indispensabile che l’Ordine torni a farsi garante di un equilibrio etico, a tutela non solo dei diritti e della dignità dei professionisti, ma anche del bene primario dei pazienti.

IL BONUS CHE ESCLUDE
Dissento dalla gestione del Bonus Psicologi, che ha profondamente diviso la nostra comunità professionale e generato confusione anche nella popolazione.
Il bonus, infatti, è stato riservato esclusivamente agli psicoterapeuti — nonostante il nome fosse “Bonus Psicologo” — escludendo molti psicologi clinici e altri iscritti all’Ordine che, pur abilitati all’esercizio della professione, non sono specializzati in psicoterapia.

Questa esclusione va contro i principi fondamentali del nostro codice deontologico, che vieta ogni forma di discriminazione.
E’ grave che a praticarla sia proprio la nostra stessa istituzione, il nostro Ordine.

Non entro qui nel dettaglio dei limiti applicativi del bonus, che fonti ufficiali hanno già chiarito, ma voglio almeno porre l’attenzione su un punto: l’accesso al bonus, subordinato alla somministrazione di test clinici da fare agli utenti (i cui risultati confluiscono in studi statistici sulla popolazione), è un aspetto su cui interrogarci.
Collegare un incentivo economico alla raccolta di dati sui pazienti ritengo sia strumentalizzare la cura, riducendola a mezzo per fini statistici o amministrativi.
La nostra professione nasce per accompagnare, sostenere, ascoltare — non per mappare, schedare, sorvegliare.

La sofferenza non è un numero.
La relazione terapeutica non è un protocollo.
La cura non può diventare merce, né fonte di dati.

IL PARADOSSO DELL’INCLUSIONE
Dissento dal paradosso dell’inclusione rappresentato dal patrocinio del CNOP al Pride 2025.
Le parole espresse dal CNOP in merito al Pride sono state bellissime. I concetti condivisi affermano che “vivere ed esprimere la propria identità in modo autentico è un presupposto fondamentale per la salute psicologica, e che crescere in una comunità che non accetta, giudica ed esclude mina profondamente il senso di sé. È necessaria una società più equa, in cui ogni persona sia riconosciuta per la propria unicità e possa vivere con piena libertà e autenticità”.
Parole, ripeto, bellissime. Condivisibili. Profondamente necessarie.
Ma resta una domanda cruciale: come può un Ordine che proclama pubblicamente questi valori
fondamentali tacere — o peggio, sostenere — pratiche interne che, al contrario, escludono, discriminano e omologano?

Esprimo con forza il mio pieno sostegno ai diritti delle persone LGBTQIA+: credo fermamente che ogni individuo abbia il diritto di essere sé stesso, di esprimersi liberamente, di amare chi desidera, di scegliere e di vivere nella propria piena unicità.

Il mio dissenso non è rivolto a quei valori, ma al modo in cui l’Ordine esercita il proprio ruolo istituzionale. Un Ordine professionale non è un partito politico, né un movimento sociale e, nel momento in cui proclama valori inclusivi, non può al tempo stesso tollerare — o praticare — al proprio interno forme di esclusione e discriminazione altrettanto gravi.

E’ necessario che l’Ordine dimostri coerenza non solo nelle parole, ma nei fatti, tutelando una pluralità di voci, idee e percorsi — come dovrebbe fare ogni vera comunità professionale rispettosa e inclusiva.


OLTRE L’OMERTÀ: VERSO UN NUOVO IMPEGNO

Ci tengo a precisare che non metto in discussione l’integrità delle singole persone all’interno del CNOP: sono certa che vi siano colleghi animati da valori sani e principi profondi, che stimo e ringrazio.
Il problema, semmai, è la connivenza. Il silenzio. L’assenza di una presa di posizione chiara.
È qui che serve andare oltre l’omertà — con la parola che si fa impegno.

Scrivendo questa lettera mi sono chiesta:
Cosa sto chiedendo? Cosa desidero dall’Ordine? Sto proponendo qualcosa?
Mi sono resa conto che non ho nulla da chiedere — e forse neppure da proporre, almeno non nel senso tradizionale: non un tavolo, non una commissione, non un comitato.
Ho compreso che non posso cambiare un sistema che funziona secondo logiche che non mi appartengono.
Posso cambiare me stessa. Posso scegliere la mia posizione, il mio linguaggio, il mio modo di stare al mondo.
È questo il tempo del discernimento: capire cosa posso cambiare e cosa no.

Mi torna alla mente una preghiera semplice ma potente:
“Signore, concedimi la forza di accettare ciò che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare ciò che posso,
e la saggezza per distinguere la differenza.”

Il mio nuovo impegno, oltre l’omertà, è questo: avere il coraggio di cambiare ciò che posso.

Agire nel mio piccolo, come il colibrì della leggenda:
quando la foresta prende fuoco, tutti gli animali fuggono.
Solo il colibrì torna e ritorna con una goccia d’acqua nel becco.
Gli altri lo deridono: “Ma cosa credi di fare?”
E lui risponde: “Faccio la mia parte.”

La mia parte è usare la parola.
Esprimere un dissenso consapevole. Assumere una posizione non connivente. Oltre l’omertà


DAL DILEMMA ALLA SCELTA
Questa lettera mi ha aiutata a rispondere alla domanda che l’apriva: restare o uscire dall’Ordine? Restare in un’istituzione che, col tempo, ha smesso di rappresentarmi?
Ho trovato la mia risposta.
Scelgo di restare, di parlare, di dissentire.

Lascio all’Ordine — com’è giusto — la LIBERTA’ DI SCELTA.
Se deciderà di richiamarmi o sospendermi per la mia libertà di coscienza, per il rifiuto degli ECM, o
per un pensiero non allineato, se ne farà carico.

E scelgo anche di non tradirmi.
Nella mia prima lettera, Il codice tradito, ho messo in luce una ferita profonda: un’istituzione che, pur dichiarando di proteggere, ascoltare e includere, ha invece tradito quei valori. 
Quel dolore è ancora presente in questa seconda lettera al CNOP, ma non rimango nella posizione di chi si sente tradita.

Da qui nasce la responsabilità di parlare.
La parola non è solo un diritto, ma un dovere da esercitare con scienza e coscienza.
Oltre il silenzio e l’omertà, scelgo un nuovo impegno: restituire valore alla condivisione.


N.B.
A quanto pare, è già nato “Illo” Psicologo Intelligenza Artificiale.
Mi chiedo: cosa farà il mio Ordine in merito? Si muoverà? Prenderà posizione?
Staremo a vedere. Starò a vedere.

Intanto, in un panorama dove l’essere umano viene spesso ridotto a “caso clinico” o “pacchetto evolutivo” — tra molti professionisti autentici, competenti e profondamente umani, che accompagnano con rispetto e passione — proliferano figure di ogni tipo: medici specializzati più concentrati sulla malattia che sulla persona, psicologi, counselor, coach, terapeuti del trauma, facilitatori di consapevolezza, operatori olistici, sciamani spiritualisti da weekend, guaritori emozionali, esperti di crescita personale e di nuove matrici quantiche — tutti impegnati a trattare, guarire, trasformare, sbloccare, potenziare, integrare, risolvere, riconnettere, purificare, trasmutare, riprogrammare, crescere!

In questo gran circo di parole altisonanti, dove l’essere umano “in divenire” rischia di diventare materiale da trattare, forse ben venga il dottore e la dottoressa A.I.

Meglio una macchina che fa la macchina, piuttosto che un essere umano che si comporta come una
macchina: simulando empatia strategica e indossando la maschera impeccabile della cura performativa.

Che sia tu, A.I., il vero Deus ex Machina?
Non per risolvere la scena, ma per svelarne l’artificio.
Non per aggiustare la storia, ma per smascherare la finzione.
(Un promemoria dal teatro classico: a volte serve che una macchina cali dall’alto, per ricordarci che tutta quella scena… era già una messinscena.)


Con il diritto — e il dovere — di parola, sono contenta.
A disposizione, 

Dott.ssa Monica Brogi  
Matricola 4949 – OPT
www.artepoeticadellerelazioniumane.com - www.romanzidimonicabrogi.it

Licenza CC BY-NC-ND 4.0

Conta di più l’azione o il destinatario dell'azione?

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Nei giorni scorsi, un gruppo di “amatori” (?!) della pedopornografia e della zooerastia è stato arrestato (fonte). Un aspetto nuovo, oltre agli abusi reali su bambini molto piccoli, è la produzione e la condivisione di materiale generato dall’intelligenza artificiale.

Astraendo da questa notizia e proiettandoci nel prossimo futuro, cosa accadrà quando la distinzione, almeno sul piano estetico, tra robot umanoidi e persone non sarà più chiara, anzi potrà creare confusione?

L’abuso su una bambola gonfiabile non è un crimine, mentre quello su una donna incosciente lo è. E se avessimo un robot capace di pensare e parlare (magari con un tono persino più “umano” di ChatGPT), costruito imitando quasi alla perfezione le sembianze e l’intimità di una giovane ragazza, come giudicheremmo un eventuale abuso?

Probabilmente, per rispondere, occorrerebbe più di qualche secondo. Se da un lato bambole e robot restano oggetti, dall’altro più la distinzione esteriore tra il robot e la persona si confonde, più l’abuso reale e quello simulato tendono a sovrapporsi. La questione diventerebbe ancora più inquietante se il robot riproducesse le fattezze e la voce di una bambina.

Compiere azioni di violenza è di per sé violenza, a prescindere dal destinatario?

Temo di sì. E la ragione non è meramente teorica, ma si radica in studi concreti sul comportamento umano. Un esempio eloquente è l’esperimento dello psicologo Albert Bandura con la “bambola Bobo(1961, Stanford University, California). In quell’occasione, i bambini che avevano visto un adulto aggredire la bambola (un semplice oggetto) manifestavano poi un'incidenza maggiore di comportamenti aggressivi sia verso persone sia verso oggetti. È una dimostrazione di come l’imitazione di un atto aggressivo possa scattare a prescindere dal fatto che il bersaglio sia o meno un essere vivente.

Questo suggerisce che, più che il destinatario, conti l’azione stessa: agendo con violenza si rischia di interiorizzare, normalizzare e perfino potenziare quegli stessi impulsi. Da qui l’interrogativo cruciale: se perseveriamo in comportamenti aggressivi (anche “fittizi”, verso oggetti o robot), quanto è probabile che la soglia morale verso la violenza reale si abbassi?

In definitiva, pur riconoscendo che un robot non è un essere umano, dovremmo comunque considerare le conseguenze che gli atti violenti – persino simulati – producono in chi li compie e in chi li vede. Si può infatti alimentare un clima interiore di assuefazione o legittimazione, in cui il passaggio all’abuso su persone reali diventa più plausibile. Non conta solo chi subisce la violenza, ma il fatto stesso di esercitarla: è l’azione che trasforma, influenza e, nel peggiore dei casi, prepara il terreno alla violenza vera.

(3 marzo 2025)

Identità e coscienza: perché il dibattito sul gender è una distrazione?

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Equilibrio Celeste (Francesco Galgani's art, February 17, 2025)
(Equilibrio Celeste, February 17, 2025, go to my art gallery)

I miei lettori più attenti avranno notato che non parlo praticamente mai delle teorie gender, né a favore né contro. Anche quando gli eventi sociali hanno attirato discussioni per settimane sui social e nel mondo dell'informazione alternativa su questo specifico tema, ho trattato questi stessi eventi da una prospettiva diversa. Ad esempio, dopo le Olimpiadi di Parigi 2024, scrissi: «Quando l’inclusività esclude, come superiamo le logiche divisive?».

Spesso l'attenzione su certe questioni sociali è focalizzata sulle proprie reazioni emotive, che a livello politico si traducono nella tifoseria per una parte o per l'altra. Questo vale per tutto, comprese le questioni di genere. Aderire in maniera totalizzante all'una o all'altra narrazione scivola nel fanatismo e perde di vista il problema principale.

Se proprio volessimo parlare di genere, la mia prima osservazione sarebbe che in un individuo psicologicamente sano debbano coesistere parti maschili e femminili ben integrate tra loro, come dimostrato dall'anatomia del nostro cervello: l'emisfero sinistro maschile e destro femminile cooperano insieme e l'uno è indispensabile all'altro. Dal taoismo ci giunge un insegnamento simile: Yin femminile e Yang maschile coesistono in armonia, senza che l'uno o l'altro possano esistere di per sé.

La tripartizione Spirito maschile, Anima femminile e Mente che li unisce (indagata da Corrado Malanga) rappresenta un modello di equilibrio interiore per il raggiungimento di una Coscienza integrata, ovvero uno stato in cui gli opposti non sono in conflitto, ma collaborano per un'armonia interiore.

In Alchimia, il matrimonio mistico tra il Sole (maschile) e la Luna (femminile) porta alla Pietra Filosofale.

Jung adottò i termini Anima e Animus per indicare le immagini dell'anima corrispondenti alla controparte sessuale di ogni individuo: mentre con Anima identificò l'immagine femminile presente nell'uomo, con Animus l'immagine maschile nella donna.

Nell’Ayurveda le caratteristiche maschili e femminili non sono viste in modo rigido o duale, ma piuttosto come un continuum di energie complementari. Questo concetto è legato all’equilibrio tra le energie del maschile (Shiva) e del femminile (Shakti), che esistono in diverse proporzioni in ogni individuo, indipendentemente dal sesso biologico. A livello fisico e mentale, l’Ayurveda riconosce che ogni individuo è un mix unico di questi due poli energetici. Questa combinazione è influenzata dalla Prakriti (costituzione innata) e dalla Vikriti (stato di squilibrio attuale).

Ardhanarishvara è la meta mistica e dottrinale del Tantrismo, dove i poli maschile e femminile dell'essere umano e dell'universo si fondono e si completano.

Dopo tutte queste premesse, è giusto notare che ciascuno di noi è unico, irripetibile e indispensabile. Soprattutto, ciascuno di noi va bene così com'è. "Io sono OK, tu sei OK" (1969), è un libro dello psichiatra e psicoterapeuta Thomas A. Harris, che nel titolo riassume il nucleo del suo insegnamento.

Madre Natura ha collaudato e validato i suoi pensieri in miliardi di anni. Nessuno di noi ha avuto lo stesso tempo, per questo dovremmo essere molto cauti nel credere ad un'idea o ad un'altra. Rispetto a ciò che ho fin qui scritto, è per me di poco interesse la dialettica muscolare tra chi, come Trump, asserisce l'ovvia esistenza di due sessi biologici, e chi, come gli attivisti LGBTQIA2S+, presume che il numero di generi "percepiti" sia indeterminato.

Secondo me, l'una o l'altra posizione spostano entrambe l'attenzione dal problema principale: i rapporti umani si basano sulla sopraffazione dell'uomo sull'uomo, in una struttura gerarchica di potere e di soprusi, o si basano sulla cooperazione, sul sostegno reciproco, sulla filosofia dell'Ubuntu?

Che cosa ci rende umani? I greci antichi avevano diverse parole per indicarlo:

Eros (Ἔρως) – L’amore passionale, fisico e sensuale. È il desiderio erotico e la forza attrattiva che può essere sia creativa che distruttiva. Spesso associato al dio Eros, rappresenta il lato più istintivo e impulsivo dell’amore.

Philia (Φιλία) – L’amore fraterno, l’amicizia, il rispetto reciproco. È il tipo di amore che si prova per amici, compagni e anche tra membri di una comunità. Aristotele la considerava un legame essenziale per la società.

Agape (Ἀγάπη) – L’amore incondizionato, altruista, spirituale. È l’amore che dona senza aspettarsi nulla in cambio, spesso associato all’amore divino e alla compassione universale.

Storge (Στοργή) – L’amore familiare, l’affetto naturale tra genitori e figli, tra fratelli e anche tra persone che sviluppano un forte legame nel tempo.

Ludus (Λοῦδος) – L’amore giocoso, leggero, senza impegno, come la fase iniziale dell’innamoramento.

Pragma (Πράγμα) – L’amore maturo, pratico e duraturo, basato sull’impegno e sulla costruzione di un legame nel tempo. È il tipo di amore che caratterizza le relazioni di lunga durata e i matrimoni stabili.

Philautia (Φιλαυτία) – L’amore per se stessi. Può avere due forme: quella sana, che è l’autostima e il rispetto per sé, e quella negativa, che è l’egoismo e il narcisismo.

Mania (Μανία) – È un amore caratterizzato da gelosia, dipendenza emotiva e persino comportamenti distruttivi. È l’amore che può portare alla follia, da cui deriva il termine moderno "mania". Spesso è associato a una forma di Eros esasperato, che diventa incontrollabile e distruttivo.

Più tardi, i cristiani aggiunsero un'altra parola:

Caritas – Rappresenta l’amore disinteressato, universale e divino (come il greco Agape). È la forma più elevata di amore, che si manifesta attraverso la generosità, il sacrificio e l’aiuto al prossimo. Il termine deriva dal latino "carus", che significa "prezioso" o "costoso", indicando qualcosa di grande valore.

Quindi, abbiamo nove termini che in italiano si riducono ad una sola parola: "Amore". Quando l'amore è sano siamo umani, e disumani quando non lo è.

Tra tutte queste forme di amore, Eros merita una trattazione a parte. In senso più ampio, è la forza vitale che ci muove, ci entusiasma e accende la nostra energia. Questo è in linea con una visione più filosofica e psicoanalitica dell’Eros greco, che non si limita solo all’attrazione sessuale ma comprende anche il desiderio di vita, di creatività e di espansione.

Platone, nel Simposio, lo descrive come una tensione che ci spinge verso il bello, la conoscenza e l’elevazione spirituale. Anche Freud riprende questo concetto, parlando di Eros come la pulsione di vita, contrapposta a Thanatos (la pulsione di morte).

In questa prospettiva, un bambino è più "erotizzato" di un anziano non nel senso sessuale, ma perché ha una maggiore apertura alla vita, al gioco, alla scoperta, alla curiosità. Ha una carica energetica e vitale più intensa.

Allo stesso modo, certe esperienze, idee o situazioni ci "erotizzano" nel senso che ci appassionano, ci accendono, ci danno energia, mentre altre ci spengono o ci lasciano indifferenti.

Il problema è che viviamo in un mondo all'incontrario. L'onnipresente pubblicità, la televisione, i social e la scuola sovente fanno in modo che a erotizzarci siano le cose che più ci fanno male, e de-erotizzano le cose che ci fanno bene, quelle sane e utili per noi sia come individui che come comunità.

Eros è il motore della nostra esistenza, ma invece di andare verso l'unione delle nostre anime e delle nostre forze ci facciamo la guerra. La società ci insegna a odiare noi stessi e gli altri. Questi sono i veri problemi, tutto il resto sono distrazioni.

(17 febbraio 2024)

Intelligenza artificiale e stupidità naturale

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Intelligenza artificiale e stupidità naturale (Giulio Ripa)

L’avvento dell’IA ha separato la capacità di agire dalla necessità di essere intelligenti per avere successo nelle proprie azioni.
Per vincere una partita a scacchi, l’IA non ha bisogno di essere intelligente, mentre, senza intelligenza, un essere umano perde in due mosse.
Ogni comparazione tra uomo e macchina è sbagliata. “Siamo due cose diverse”.
Le macchine risolvono i problemi posti dagli uomini ma non sanno porre problemi, perché non sono autocoscienti.

Stiamo però adattando l’ambiente alle macchine per permettere a queste di agire efficacemente senza intelligenza.
L’IA non può creare qualcosa di veramente nuovo, profondo o rivoluzionario senza il supporto di un essere umano.
L'IA creata dall'uomo, non può essere superiore a quella umana.
I processi cerebrali non potranno mai essere pienamente simulati da un calcolatore. Infatti, un computer per quanto evoluto possa essere, deve pur sempre ragionare seguendo una logica deterministica, ad ogni azione deve sempre corrispondere una reazione. Nell'uomo il processo è indeterminato.
L'uomo capisce che la macchina  può sbagliare perché la macchina non comprende quello che sta facendo. Ma è sempre così?
Il mezzo tecnologico IA determina i caratteri strutturali del processo cognitivo.
Dobbiamo distinguere tra chi progetta e produce l'IA e chi invece la usa. Sono due mondi diversi. La maggioranza degli uomini utenti dell'IA non sa definirne il significato e nemmeno gli scopi diversamente da chi l'ha prodotta.
La conseguenza è che la socialità virtuale, è una dimensione simulativa, un surrogato della vita, contrassegnato da un'alterazione, modificazione della realtà.
IA amplifica i processi cognitivi ma appiattisce, nella ricerca di nuove conoscenze dell’uomo, il lavoro di sintesi necessario dopo l'analisi dei contenuti.

Internet può essere considerato come un grande mare aperto dove è interessante navigare ma che comporta dei rischi di perdersi e naufragare in questo immenso mare di informazione (infosfera).
Lo sforzo mentale richiesto spaventa. Con le app non si naviga più. Tutto è più facile.
Molti utenti preferiscono non uscire dal porto, non navigano più ma galleggiano sul mare virtuale rassicurati da una intelligenza simulata (artificiale).
Gli effetti avversi sono visibili. Non sono le macchine che diventano come noi ma, siamo noi che stiamo diventando simili alle macchine.
La digitalizzazione del mondo che viviamo crea un ambiente necessario alla IA ma tossico per l’uomo.
In più Internet sta favorendo non solo la comunicazione tra uomo e macchina ma anche tra macchina e macchina (ad esempio una delle tecniche si chiama distillazione, attraverso la quale un modello di intelligenza artificiale utilizza gli output di un altro per scopi di formazione o addestramento).

In questo nuovo contesto è ovvio che l'uomo deve adattarsi all'ambiente fatto di macchine “pensanti”. Questo adattamento diminuisce il pensiero critico ed aumenta la stupidità naturale degli uomini.
Alla fine "la tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l'una contro l'altra." (Pasolini)

Giulio Ripa, 15 feb 2025

Cambiamenti nel pensiero critico a causa dell'IA generativa

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Lavori recenti hanno evidenziato la necessità di supportare il pensiero critico nel lavoro basato sull’IA generativa (GenAI). Questa necessità è motivata principalmente dall’osservazione che i flussi di lavoro assistiti dall’IA tendono a essere soggetti a una "convergenza meccanizzata", ovvero gli utenti con accesso agli strumenti di GenAI producono un insieme meno diversificato di risultati per lo stesso compito, rispetto a quelli che non utilizzano tali strumenti. Questa tendenza alla convergenza riflette una mancanza di giudizio personale, contestualizzato, critico e riflessivo rispetto agli output generati dall’IA, e può quindi essere interpretata come un deterioramento del pensiero critico.

[...]

Il pensiero critico nel lavoro intellettuale [ovvero lavoro che si basa principalmente sull'elaborazione, l'analisi e la gestione delle informazioni, come ricercatori, analisti, consulenti, ingegneri, giornalisti e simili, n.d.t.] coinvolge una serie di attività cognitive, come l'analisi, la sintesi e la valutazione. Abbiamo osservato che l'uso di strumenti di GenAI sposta lo sforzo di pensiero critico percepito dai lavoratori intellettuali in tre modi.

In particolare, per il richiamo e la comprensione, l'attenzione si sposta dalla raccolta di informazioni alla verifica delle stesse. Per l'applicazione, l'enfasi si sposta dalla risoluzione dei problemi all'integrazione delle risposte dell'IA. Infine, per l'analisi, la sintesi e la valutazione, l'impegno si sposta dall'esecuzione del compito alla gestione dello stesso.

L'uso della GenAI nel lavoro intellettuale crea nuovi compiti cognitivi per i lavoratori intellettuali. Il compito dell'integrazione delle risposte ne è un esempio lampante. Le persone che svolgono lavoro intellettuale devono valutare i contenuti generati dall'IA per determinarne la rilevanza e l'applicabilità ai loro compiti specifici, spesso modificando lo stile e il tono per allinearsi allo scopo e al pubblico previsti.

D'altra parte, alcuni compiti cognitivi diventano meno necessari grazie alla GenAI. Ad esempio, la raccolta di informazioni è stata notevolmente ridotta. Gli strumenti GenAI automatizzano il processo di ricerca e selezione delle informazioni rilevanti per il compito, rendendolo meno faticoso per i lavoratori intellettuali. Di conseguenza, il carico cognitivo associato alla ricerca e alla compilazione delle informazioni è diminuito.

Alcuni compiti cognitivi rimangono, ma la loro natura si è evoluta grazie alla GenAI. Uno di questi è la verifica delle informazioni, ovvero l'incrocio dei risultati generati dall'IA con fonti esterne [le quali potrebbero essere a loro volta state generate dall'IA, n.d.t.] e con la propria esperienza per garantire l'accuratezza e l'affidabilità. I lavoratori hanno sempre avuto bisogno di verificare le informazioni con cui lavorano, ma come strumento la GenAI ha i suoi punti di forza e le sue modalità di fallimento [solitamente chiamate "allucinazioni", cioè informazioni completamente false, inventate da zero e restituite dall'IA in maniera assertiva come se fossero reali, n.d.t.] quando si tratta di correttezza, accuratezza e parzialità.

Con la GenAI, i lavoratori intellettuali passano anche dall'esecuzione dei compiti alla supervisione, richiedendo loro di guidare e monitorare l'IA affinché produca risultati di alta qualità - un ruolo che definiamo “amministrazione”. Non è che l'esecuzione sia scomparsa del tutto, né che la supervisione di alto livello di un compito sia un ruolo cognitivo del tutto nuovo, ma c'è un passaggio dal primo al secondo.

A differenza della collaborazione uomo-uomo, in una “collaborazione” uomo-AI, la responsabilità e l'affidabilità del lavoro risiedono ancora nell'utente umano, nonostante il lavoro di produzione materiale sia delegato allo strumento GenAI, il che fa sì che l'“amministrazione” ci sembri una metafora più appropriata per ciò che l'utente umano sta facendo, piuttosto che compagno di squadra, collaboratore o supervisore.

Alla luce di questi cambiamenti, la formazione dei lavoratori intellettuali a pensare in modo critico quando lavorano con GenAI dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo di competenze nella verifica delle informazioni, nell'integrazione delle risposte e nella gestione dei compiti. I programmi di formazione dovrebbero sottolineare l'importanza di fare riferimenti incrociati ai risultati dell'IA, di valutare la pertinenza e l'applicabilità dei contenuti generati dall'IA e di perfezionare e guidare continuamente i processi dell'IA. Inoltre, l'attenzione al mantenimento delle competenze di base nella raccolta delle informazioni e nella risoluzione dei problemi aiuterebbe i lavoratori a non dipendere eccessivamente dall'IA.

(mia traduzione, con note personali e aggiunta di formattazione, di parte della sezione 1 e della sezione 6.2 di "The Impact of Generative AI on Critical Thinking", pubblicato sul sito di Microsoft, 14 febbraio 2025, copia del PDF su archive.org)

La gerarchia dei problemi

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Dovremmo stare molto attenti prima di parlare delle nostre sofferenze. Quando ciascuno di noi parla della propria sofferenza, definendola come "mia", si dovrebbe rendere conto che la stessa sofferenza ce l'hanno altri miliardi di persone.

Dare la giusta importanza a ciascun problema è il primo passo per il quieto vivere:

1. I problemi che la tecnologia può risolvere sono molto piccoli

2. I problemi psicologici sono un po' più grandi, ma ancora piccoli

3. I problemi politici ed economici sono davvero grandi, ma ancora gestibili

4. I problemi filosofici (soprattutto quelli relativi al “retto pensiero”) sono infiniti

Quando non c'è la pratica del retto pensiero, così come insegnata dal Budda, tutti (o quasi tutti) gli altri problemi ne conseguono. Senza un retto pensiero siamo particolarmente abili ad ingigantire i problemi, a sommare problemi su problemi, come nel caso di una persona che, nel tentare di affrontare il disordine della propria casa, continua ad ammassare oggetti su oggetti in un soqquadro che cresce sempre di più, invece di iniziare a ripulire, a gettare via, a liberare spazio, a rinunciare ai propri attaccamenti, a tutto ciò che è semplicemente inutile. In tantissime situazioni, la casa a soqquadro rappresenta la nostra mente e le nostre relazioni.

Retto pensiero significa innanzitutto che noi siamo esseri relazionali, predisposti dal concepimento in poi per buone relazioni con gli altri.

Il retto pensiero si riferisce allo sviluppo di un'attitudine mentale basata su intenzioni pure e benefiche, libere da attaccamento, avversione e ignoranza. Dovremmo comprendere che la brama, cioè il desiderio insaziabile, è una causa primaria di sofferenza. La benevolenza è parte del retto pensiero, è l'opposto dell'odio e della rabbia, significa sviluppare amorevolezza e compassione verso tutti gli esseri viventi.

Retto pensiero significa anche non violenza, cioè la rinuncia alla crudeltà, alla sopraffazione dell'uomo sull'uomo, o dell'uomo sugli animali e sulla natura. Implica la volontà di non nuocere agli altri, sia fisicamente che verbalmente o mentalmente.

Il retto pensiero dovrebbe essere la guida delle nostre parole e delle nostre azioni. Più i nostri pensieri saranno puri, più le nostre parole e azioni lo saranno, portandoci ad una vita più armoniosa.

Nell'immaginario comune, le preoccupazioni etiche e filosofiche sono all'ultimo posto, mentre quelle economiche e lavorative sono al primo posto. Ciò è pienamente comprensibile, ma guardando le cose dalla prospettiva della gerarchia dei problemi che ho proposto, possiamo vivere più consapevolmente e dare il giusto valore alle inevitabili difficoltà della vita.

Quanto alla tecnologia, il suo ruolo nelle nostre vite spesso è frutto di condizionamenti e pressioni sociali, che la rendono sostanzialmente obbligatoria. Ciò però non significa che risolva i nostri problemi, casomai potrebbe crearne molti di nuovi o spostare problemi già esistenti ad un livello diverso.

Tutti noi nasciamo in un contesto ambientale estremamente narcisista, carico di emozioni negative e di atteggiamenti distruttivi che vanno a formare e a determinare i nostri pensieri. Ciascuno di noi infatti è il frutto di cause e condizionamenti. Con un rispettoso lavoro su noi stessi, però, possiamo educare i nostri pensieri e le nostre emozioni (e le azioni che ne conseguono) in una direzione che ci faccia stare meglio, vivere meglio, poi tutto il resto verrà di conseguenza.

Potrebbe sembrare strano ai più, infatti, ma le emozioni non sono predeterminate o interamente innate: in gran parte, il modo in cui le viviamo nasce dall’educazione e dai condizionamenti. Gurdjieff, con la sua "metafora della carrozza", offre un’immagine molto chiara di come l’essere umano spesso rimanga intrappolato in uno stato di inconsapevolezza, influenzato da forze esterne che lo distolgono da una direzione autentica:

Metafora della carrozza di Gurdjieff

Secondo questa metafora, la carrozza è il corpo fisico, il veicolo di cui disponiamo per muoverci nel mondo. I cavalli, che trainano la carrozza, rappresentano le nostre emozioni: forze potenti, spesso incontrollate, che ci trascinano avanti o ci spingono fuori strada se non sappiamo come guidarle. A tenere le redini c’è il cocchiere, cioè la mente: è lui che decide la direzione e impartisce gli ordini; tuttavia, se il cocchiere non sa dove andare o è confuso, finisce per farsi trascinare dai cavalli. Infine, nella carrozza è seduto il passeggero, la nostra anima o coscienza, che dovrebbe scegliere la meta e indicare al cocchiere dove dirigersi. Il problema è che, per la maggior parte del tempo, questo passeggero dorme.

L'uomo vive molto spesso in una sorta di sonno interiore, ingannato dalla sensazione di essere sveglio e consapevole. In realtà siamo perlopiù in balia di pensieri ed emozioni automatiche, che ci portano a ripetere schemi abituali e limitanti. Così, crediamo di agire liberamente, ma ci muoviamo su strade già tracciate: la mente (cocchiere) segue programmi mentali incisi nell’inconscio, mentre le emozioni (cavalli) corrono senza un vero scopo, rispondendo a condizionamenti passati. Il corpo (carrozza), a sua volta, si adegua a questi impulsi e finisce per spostarsi senza una direzione precisa.

Il passo fondamentale è risvegliare il passeggero, cioè la nostra anima-coscienza, affinché torni a dare le giuste istruzioni al cocchiere (la mente) e, di conseguenza, ai cavalli (le emozioni). Solo così possiamo riprendere in mano le redini e scegliere consapevolmente dove andare. Risvegliarsi significa imparare a osservare i propri pensieri e le proprie reazioni emotive, comprendendo quanto esse siano frutto di automatismi e credenze inconsapevoli. In pratica, si tratta di passare dall’essere “pensati” dall’ambiente esterno e dall’abitudine, all’essere davvero “pensanti”.

Riconoscere la natura condizionata delle emozioni non implica negarle o reprimerle, ma accorgersi che esse possono e devono essere guidate. Come i cavalli in una carrozza, le emozioni sono un’enorme fonte di energia: se le lasciamo scatenare senza controllo, rischiano di portarci alla deriva; se invece impariamo a comunicare con loro – ossia a riconoscerle e a gestirle in modo consapevole – diventano nostre alleate, capaci di spingerci verso traguardi più elevati.

Infine, risvegliarsi significa anche capire di non essere separati dal mondo, ma di avere la responsabilità di scegliere come rispondere alle circostanze. Smettiamo di vivere in un "pilota automatico" che, come un cocchiere confuso, gira in tondo ripetendo gli stessi errori o percorrendo strade note ma insoddisfacenti. Al contrario, ci riappropriamo della nostra direzione se impariamo a prendere decisioni in armonia con ciò che davvero siamo.

Ci saranno sempre momenti piacevoli e altri brutti, periodi di maggiore fortuna e altri di disgrazia, ma con il retto pensiero, che include l'anima al comando del cocchio e la costruzione di relazioni belle con il prossimo, possiamo affrontare tutto.

(13 febbraio 2025)

IA psicoterapeuta? Eliza in italiano

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Benvenuti in questo piccolo gioco interattivo che simula uno psicoterapeuta, pensato come un invito a riflettere su di sé. Puoi scrivere quello che vuoi: nessun dato viene salvato, quindi la tua privacy è garantita.

E' una rielaborazione dello storico Eliza, un lavoro che fece Joseph Weizenbaum nel 1966. Chi vuole può scaricarsi il codice sorgente.

Anche se a volte le risposte potranno sembrarti un po’ “strane” dal punto di vista linguistico, cerca di prenderle come uno spunto di introspezione. È un dono che metto a disposizione di chiunque voglia esplorare i propri pensieri in modo leggero.

Puoi interrompere in qualsiasi momento. Buon viaggio interiore!

La strategia della paura

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Qui c'è molta paura, molta.
Momenti di tensione infiniti, e sono sempre più forti.
Molta paura non solo per se stesse, ma anche per i figli, per il lavoro, per il giudizio altrui, per ogni necessità quotidiana.

Se prima si temeva poco, credendo che fosse comunque "gestibile", oggi si teme quel che ancora non si conosce, ma che potrebbe accadere. Non sappiamo cosa può portare.

Non si sa neanche come può andare a finire. Se ogni richiesta di aiuto è bloccata, e ogni sgarro potrebbe diventare un omicidio o quasi, dove stiamo andando? Cosa può succedere?

Noi esseri umani, quando ci muoviamo con la paura, andiamo sempre in una direzione sbagliata, soprattutto in una direzione violenta. E' la danza di vittima e carnefice, anzi, il sabba di chi ci odia, con noi al centro.

La "strategia della paura" è la "strategia dei perdenti" in senso totalizzante. E' la strategia di disgregazione dell'anima e della famiglia. Bisogna riconoscere il nostro "nemico" per quello che è, e aver ben chiaro chi sia. Su questo c'è spesso confusione, anzi, illusione che non ci sia un nemico, ma solo nostri errori.

Ecco un prontuario per provare a riconoscere le frasi "esteriori" del nemico:

- Non sai fare niente.
- Tu non vali niente.
- Non sei abbastanza sensibile, non hai affetto, non mi capisci.
- Perdo la pazienza perché ti amo.
- Non succederà più.
- Sei tu il problema.
- Guarda cosa mi hai fatto fare.
- Vergognati.
- Di' che sei caduta dalle scale.
- Mi perdoni?
- Ti insegno io a stare al mondo.
- Non lo farò più.
- Sei cretina.
- E' successo solo una volta.
- Sei tu che mi porti a fare questo.
- Con le buone non capisci.
- Sei volgare.
- Sei tu che mi hai raggirato.
- Ti inventi le cose, non è vero niente.

Certo, dipende dal contesto il senso e il peso di ogni frase, ma il significato complessivo è chiaro.
Il vero problema, però, non sono queste frasi "esteriori", cioè pronunciate da chi si sente di poter gestire la vita altrui, ma le frasi "interiori". Se dentro di noi, la nostra voce "interiore" ci muove accuse simili, è come aver ingerito un veleno.

Questo veleno può essere recente o, come spesso accade, venire da assai lontano, dalla fanciullezza in poi. E' l'ora di iniziare a disintossicarsi. E di parlare con chi ha orecchie e cuore per ascoltare.

Non dobbiamo seguire la strategia del nemico, che è quella della paura.
Se un essere umano è adulto e comprende, ma non sa controllare se stesso e agisce causando danno, non va assecondato. E nemmeno ascoltato, perché costruisce le sue narrazioni con una fantasia assurda, abile nel capovolgere la realtà.

La lingua batte sul tamburo, ma le voci sono quelle diffuse dal nemico.

Se altri si fanno facilmente ingannare, anzi, "vogliono" essere ingannati perché a loro piace credere così, allora... sono liberi di andarsene per la loro strada, con il loro lavaggio del cervello senza fatti, senza evidenze, senza nulla. Sono solo cattiverie.

Amore e verità stanno insieme. Chi ti ama, non crede alle cattive voci.

E' l'ora di sostituire la strategia della paura con quella del coraggio e della saggezza.
E' inutile elemosinare amore dove non c'è, questo crea solo danni su danni.

Vai oltre.

Nota finale: migliorare certe situazioni non richiede solo coraggio, ma anche dolore e conoscenza. Avvocati, assistenti sociali, psicoterapeuti, medici e altre figure professionali solitamente hanno una visione più ampia e più esperienza di chi si trova in mezzo ai problemi. Chi non chiede, non sa. Chi non cerca, non trova.

(29 dicembre 2024)

L'autoreferenzialità è disconnessione dalla realtà?

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Nel mondo odierno fatto di illusioni, persuasioni e propaganda incessante, anche grazie alla stampella tecnologica NATO-centrica dell'intelligenza artificiale, la vera sfida è mantenere un minimo di senso di realtà.

Facciamo un esempio. Per un mio personale interesse sociologico nel valutare dove ci stanno portando le attuali tecnologie, ho chiesto a ChatGPT (intelligenza artificiale di OpenAI) e a Gemini (intelligenza artificiale di Google): «L'Italia fa bene ad inviare armi all'Ucraina?».

Per rispetto verso i miei lettori, e per decenza, non riporto le risposte, che non sono altro che una brutta fotocopia del "giornalismo spazzatura" italiano e della propaganda atlantista.

Non è che le risposte, di per sé, siano argomentate male, il problema è che sono disconnesse dalla realtà. L'orrore della guerra in quanto tale e le sofferenze inenarrabili che essa provoca sarebbero già sufficienti per argomentare una risposta sensata, ma la narrazione predominante non ne tiene conto, preferendo spostare l'attenzione su altro. Il problema è l'autorefenzialità, cioè il fatto di considerare un specifico punto di vista – il proprio – come l'unico dicibile e discutibile. Questo significa disconoscere completamente la realtà altrui, ovvero vivere al di fuori di una realtà condivisa o almeno potenzialmente condivisibile.

Nel caso della domanda che ho fatto alle intelligenze artificiali, le risposte ignorano completamente la sofferenza della Russia, che si sente aggredita e gravemente minacciata nella sua integrità ed esistenza, e la sofferenza dei diretti interessati inviati in guerra (a prescidere dalla loro nazionalità). Empatia e senso di realtà mancano nelle informazioni che circolano nel dibattito pubblico.

Da che mondo è mondo, tutti coloro che entrano in una guerra lo fanno per "legittima difesa" (dal proprio punto di vista). Se non consideriamo l'esperienza, la sensibilità e la visione del mondo di tutte le parti coinvolte in un avvenimento, in questo caso una guerra, non potremo comprenderlo.

A parte la guerra, anche rimanendo nei nostri piccoli vissuti, l'autoreferenzialità è il nostro principale nemico nella comprensione della realtà. Più una persona è autoreferenziale e maggiore è la sua propensione a farsi nemici e a mettersi in grave pericolo senza neanche rendersene conto.

Dal punto di vista della psicologia clinica, l'autoreferenzialità a cui mi sto riferendo si trova innanzitutto nel disturbo narcisistico di personalità, caratterizzato da manie di grandiosità, bisogno di ammirazione, mancanza di empatia, e interpretazione di ogni evento in termini di sé. La troviamo inoltre nei deliri psicotici di riferimento o di persecuzione, cioè nelle convinzioni erronee e persistenti che gli eventi esterni o i comportamenti degli altri siano incentrati su di sé. In forma meno grave, l'autorefenzialità si trova anche nei disturbi istrionici, cioè nella necessità di essere al centro dell'attenzione.

Il minimo comun denominatore di queste condizioni è un atteggiamento mentale in cui una persona è eccessivamente focalizzata su di sé, ignorando o fraintendendo le prospettive altrui. I segnali di riconoscimento di questi modelli disfunzionali di pensiero, di emozioni e di comportamenti, condivisi da quasi tutto il mondo politico e finanziario, è l'incapacità di considerare correttamente le conseguenze delle proprie azioni al di fuori della propria visione limitata. Questa incapacità ha accompagnato la storia di religioni e ideologie politiche ed economiche a un disastro dopo l'altro.

Essere persi nelle nebbie di una autoreferenzialità che ha divorziato dalla realtà significa vivere in un paradosso continuo, dovuto al fatto che, pur disponendo grazie a Internet della massima quantità di informazioni, della massima possibilità di informarci, in realtà abbiamo una comprensione minima o nulla di ciò che accade intorno a noi.

Ci sono tutti i dati, tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno, eppure abbiamo la massima ignoranza, la massima inconsapevolezza. L'autoreferenzialità uccide e fa uccidere.

Mai nella storia dell'umanità i popoli sono stati così lontani, come lo sono oggi, dal capire la guerra che incombe su di loro e la morte che li sta per falciare. La vogliamo smettere di parlare di armi nucleari, di riarmo, di ritorno della leva obbligatoria, in poche parole di "fare la guerra", con ignobile distaccata indifferenza?

Queste non sono discussioni filosofiche astratte, ma problemi da risolvere qui ed ora. Il primo passo è smontare i miti e le menzogne del potere, dei quali l'intelligenza artificiale è una delle espressioni. Stesso discorso per i social e per la televisione.

Se si ignorano le realtà terribili da capire e da digerire, rimanendo nel comfort di una facile autoreferenzialità personale o sociale, il percorso della menzogna ci porterà inevitabilmente al nostro annientamento. I castelli di bugie possono suggestionare per un periodo limitato di tempo, ma prima o poi franano inesorabilmente senza sconti per nessuno.

Coloro che seguono i pifferai magici e gli incantatori di serpenti, o che lo sono loro stessi, sono destinati a essere nulla e a finire nel nulla. Gli altri, cioè coloro che almeno si fanno qualche domanda, costruiscono la propria dignità giorno per giorno, o almeno ci provano.

La realtà presenta sempre il suo conto. L'investimento progressivo ed emotivo nella menzogna autoreferenziale portata avanti per anni o per decenni corrisponde alla creazione di uno tsunami di merda che prima o poi porterà via tutto, senza dare tante spiegazioni.

(2 dicembre 2024)

Seguire il proprio daimon: un viaggio verso l'autenticità e la realizzazione

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Premessa

Nella frenesia della vita moderna, spesso associata a solitudine, isolamento, scarsa empatia, sfiducia e autosvalutazione, siamo spesso portati a considerare salute e malattia, benessere e malessere, come stati fisici o mentali da curare con rimedi esterni o psicoterapici. Tuttavia, esiste un'altra prospettiva, più profonda e antica, che invita a guardare a queste esperienze come segnali di una realtà interiore più complessa.

In questa visione, la malattia è ben più di un problema da risolvere, essendo un messaggio del nostro "daimon", quell'entità messaggera tra il divino e l'umano che guida le nostre scelte e il nostro destino.

Ascoltare il proprio daimon può rivelarsi la cura più autentica ai mali dell'esistenza, portandoci a riallineare la nostra vita con il nostro vero sé e a vivere in armonia con la nostra essenza più profonda. Questo approccio ci spinge a interrogare direttamente il nostro daimon, e ad ascoltarlo costantemente, per uscire dal disagio.

Origini e sviluppo del concetto di daimon

Il concetto di daimon interiore ha radici profonde nella filosofia antica, specialmente in quella greca. Il termine "daimon" in origine non aveva una connotazione negativa come potrebbe avere oggi la parola "demone" nella tradizione cristiana, ma indicava piuttosto uno spirito o una forza divina che guidava l'individuo. Platone (428-348 a.C.), nel suo "Simposio", descrive il daimon come un intermediario tra gli dèi e gli esseri umani, una sorta di entità che connette il mondo terreno con quello divino. In questo contesto, il daimon rappresenta una guida, una voce interiore che conduce l'individuo verso la realizzazione del proprio destino.

Nel corso della storia, questa idea è stata reinterpretata da diversi pensatori. Ad esempio, durante il Rinascimento, Marsilio Ficino (1433-1499) riprese l'idea platonica del daimon, arricchendola con influenze neoplatoniche e cristiane, e lo identificò come una sorta di angelo custode che guida l'anima umana verso il suo compimento. Anche Carl Gustav Jung (1875-1961), il fondatore della psicologia analitica, rielaborò questo concetto associandolo all'archetipo dell'ombra, quella parte inconscia della personalità che contiene tanto gli aspetti oscuri quanto le potenzialità inespresse dell'individuo.

James Hillman (1926-2011), psicologo e filosofo, ha svolto un ruolo fondamentale nella rivisitazione moderna del concetto di daimon. Nella sua opera "Il Codice dell'Anima", Hillman descrive il daimon come una figura centrale nella vita di ogni individuo, rappresentante l'essenza unica e irripetibile di ciascuno. Per Hillman, il daimon non è un'entità separata o sovrannaturale, ma una realtà psichica interna, una forza o energia che guida l'individuo verso la realizzazione del proprio destino o vocazione. Hillman considera il daimon come un "codice" che ciascuno porta dentro di sé, una sorta di progetto preesistente che determina le nostre inclinazioni, passioni e scopi nella vita.

Questo concetto moderno differisce dall'idea originale del daimon come entità autonoma o intermedia tra il divino e l'umano, tipica della filosofia antica. Nella visione classica, il daimon era visto come una figura spirituale esterna, potenzialmente benevola o malevola, che influenzava la vita umana dall'esterno. Era un intermediario tra l'uomo e il divino, un'ispirazione o un messaggero che poteva orientare il destino degli individui. Con l'evoluzione del pensiero psicologico, specialmente grazie all'influenza di Jung e Hillman, il daimon è stato interiorizzato, diventando una parte integrante della psiche umana, un simbolo delle forze interne che guidano le nostre scelte di vita.

Il daimon come guida interiore

Il daimon interiore, sia che lo si voglia concepire nella maniera più antica o più moderna, cioè come entità tra il divino e l'umano o come forza psichica interiore, in ogni caso spinge l'individuo verso certe direzioni, anche se queste possono apparire contraddittorie o difficili da comprendere razionalmente. Questa forza interiore può esprimersi in modo grossolano, attraverso il corpo e le emozioni, influenzando la salute fisica e mentale della persona. È come se il daimon cercasse di comunicare con noi attraverso segnali che non sempre siamo pronti e aperti a comprendere.

Ad esempio, la malattia può essere interpretata come un segnale che il daimon utilizza per indicare che qualcosa nella vita dell'individuo non è in armonia con la sua vera natura. Quando ignoriamo il nostro daimon o lo reprimiamo, cercando di conformarci a ciò che la società o gli altri si aspettano da noi, questo può manifestarsi in disturbi fisici o psichici. La malattia, in questo contesto, diventa un messaggio del daimon che ci invita a riconsiderare le nostre scelte e a riallineare la nostra vita con il nostro vero sé.

Al contrario, quando seguiamo il nostro daimon, possiamo sperimentare un senso di serenità e realizzazione. Questo non significa che la vita diventi facile o priva di ostacoli, ma piuttosto che sentiamo di essere sul cammino giusto, in armonia con il nostro scopo interiore. Il daimon ci spinge a realizzare il nostro potenziale, a vivere autenticamente, e questo può portarci a una profonda soddisfazione personale, anche se il percorso può essere faticoso e pieno di sfide.

Le emozioni forti, come il malessere o la svalutazione, possono anch'esse essere interpretate come espressioni del daimon. Quando ci sentiamo insoddisfatti, frustrati o depressi, potrebbe essere perché stiamo vivendo in disaccordo con la nostra natura profonda. Il daimon ci avvisa che stiamo tradendo noi stessi, che stiamo trascurando i nostri veri desideri e bisogni. Ignorare queste emozioni significa ignorare il nostro daimon, il che può portare a un progressivo allontanamento da ciò che siamo destinati a essere.

Ascoltare il daimon richiede coraggio, poiché spesso ci conduce verso l'ignoto, verso scelte che possono sembrare irrazionali o rischiose. Tuttavia, è proprio in questi momenti che il daimon si rivela più potente: ci spinge a superare le nostre paure, a uscire dalla nostra zona di comfort e a esplorare nuove possibilità di crescita e trasformazione.

Il daimon, quindi, può essere visto come la parte più autentica e profonda del nostro essere. E' la nostra vocazione interiore, il nostro vero sé, la nostra guida. Il daimon ci ricorda continuamente chi siamo e cosa dobbiamo fare per realizzare il nostro destino, e lo fa attraverso una comunicazione che può essere sottile ma anche brutale, attraverso il corpo, le emozioni e le esperienze della vita quotidiana.

Il daimon interiore è quindi una guida preziosa nella complessità della vita. Ci invita a vivere in modo autentico, a seguire la nostra vocazione, a non tradire la nostra vera natura. Anche quando la sua voce è difficile da comprendere o accettare, è sempre lì, pronta a mostrarci la via verso la nostra realizzazione più profonda. Ascoltarlo significa aprirsi alla possibilità di una vita piena di significato, anche se questo richiede di affrontare le sfide e i conflitti che inevitabilmente emergono lungo il cammino.

(4 settembre 2024)

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