Seguire il proprio daimon: un viaggio verso l'autenticità e la realizzazione
Premessa
Nella frenesia della vita moderna, spesso associata a solitudine, isolamento, scarsa empatia, sfiducia e autosvalutazione, siamo spesso portati a considerare salute e malattia, benessere e malessere, come stati fisici o mentali da curare con rimedi esterni o psicoterapici. Tuttavia, esiste un'altra prospettiva, più profonda e antica, che invita a guardare a queste esperienze come segnali di una realtà interiore più complessa.
In questa visione, la malattia è ben più di un problema da risolvere, essendo un messaggio del nostro "daimon", quell'entità messaggera tra il divino e l'umano che guida le nostre scelte e il nostro destino.
Ascoltare il proprio daimon può rivelarsi la cura più autentica ai mali dell'esistenza, portandoci a riallineare la nostra vita con il nostro vero sé e a vivere in armonia con la nostra essenza più profonda. Questo approccio ci spinge a interrogare direttamente il nostro daimon, e ad ascoltarlo costantemente, per uscire dal disagio.
Origini e sviluppo del concetto di daimon
Il concetto di daimon interiore ha radici profonde nella filosofia antica, specialmente in quella greca. Il termine "daimon" in origine non aveva una connotazione negativa come potrebbe avere oggi la parola "demone" nella tradizione cristiana, ma indicava piuttosto uno spirito o una forza divina che guidava l'individuo. Platone (428-348 a.C.), nel suo "Simposio", descrive il daimon come un intermediario tra gli dèi e gli esseri umani, una sorta di entità che connette il mondo terreno con quello divino. In questo contesto, il daimon rappresenta una guida, una voce interiore che conduce l'individuo verso la realizzazione del proprio destino.
Nel corso della storia, questa idea è stata reinterpretata da diversi pensatori. Ad esempio, durante il Rinascimento, Marsilio Ficino (1433-1499) riprese l'idea platonica del daimon, arricchendola con influenze neoplatoniche e cristiane, e lo identificò come una sorta di angelo custode che guida l'anima umana verso il suo compimento. Anche Carl Gustav Jung (1875-1961), il fondatore della psicologia analitica, rielaborò questo concetto associandolo all'archetipo dell'ombra, quella parte inconscia della personalità che contiene tanto gli aspetti oscuri quanto le potenzialità inespresse dell'individuo.
James Hillman (1926-2011), psicologo e filosofo, ha svolto un ruolo fondamentale nella rivisitazione moderna del concetto di daimon. Nella sua opera "Il Codice dell'Anima", Hillman descrive il daimon come una figura centrale nella vita di ogni individuo, rappresentante l'essenza unica e irripetibile di ciascuno. Per Hillman, il daimon non è un'entità separata o sovrannaturale, ma una realtà psichica interna, una forza o energia che guida l'individuo verso la realizzazione del proprio destino o vocazione. Hillman considera il daimon come un "codice" che ciascuno porta dentro di sé, una sorta di progetto preesistente che determina le nostre inclinazioni, passioni e scopi nella vita.
Questo concetto moderno differisce dall'idea originale del daimon come entità autonoma o intermedia tra il divino e l'umano, tipica della filosofia antica. Nella visione classica, il daimon era visto come una figura spirituale esterna, potenzialmente benevola o malevola, che influenzava la vita umana dall'esterno. Era un intermediario tra l'uomo e il divino, un'ispirazione o un messaggero che poteva orientare il destino degli individui. Con l'evoluzione del pensiero psicologico, specialmente grazie all'influenza di Jung e Hillman, il daimon è stato interiorizzato, diventando una parte integrante della psiche umana, un simbolo delle forze interne che guidano le nostre scelte di vita.
Il daimon come guida interiore
Il daimon interiore, sia che lo si voglia concepire nella maniera più antica o più moderna, cioè come entità tra il divino e l'umano o come forza psichica interiore, in ogni caso spinge l'individuo verso certe direzioni, anche se queste possono apparire contraddittorie o difficili da comprendere razionalmente. Questa forza interiore può esprimersi in modo grossolano, attraverso il corpo e le emozioni, influenzando la salute fisica e mentale della persona. È come se il daimon cercasse di comunicare con noi attraverso segnali che non sempre siamo pronti e aperti a comprendere.
Ad esempio, la malattia può essere interpretata come un segnale che il daimon utilizza per indicare che qualcosa nella vita dell'individuo non è in armonia con la sua vera natura. Quando ignoriamo il nostro daimon o lo reprimiamo, cercando di conformarci a ciò che la società o gli altri si aspettano da noi, questo può manifestarsi in disturbi fisici o psichici. La malattia, in questo contesto, diventa un messaggio del daimon che ci invita a riconsiderare le nostre scelte e a riallineare la nostra vita con il nostro vero sé.
Al contrario, quando seguiamo il nostro daimon, possiamo sperimentare un senso di serenità e realizzazione. Questo non significa che la vita diventi facile o priva di ostacoli, ma piuttosto che sentiamo di essere sul cammino giusto, in armonia con il nostro scopo interiore. Il daimon ci spinge a realizzare il nostro potenziale, a vivere autenticamente, e questo può portarci a una profonda soddisfazione personale, anche se il percorso può essere faticoso e pieno di sfide.
Le emozioni forti, come il malessere o la svalutazione, possono anch'esse essere interpretate come espressioni del daimon. Quando ci sentiamo insoddisfatti, frustrati o depressi, potrebbe essere perché stiamo vivendo in disaccordo con la nostra natura profonda. Il daimon ci avvisa che stiamo tradendo noi stessi, che stiamo trascurando i nostri veri desideri e bisogni. Ignorare queste emozioni significa ignorare il nostro daimon, il che può portare a un progressivo allontanamento da ciò che siamo destinati a essere.
Ascoltare il daimon richiede coraggio, poiché spesso ci conduce verso l'ignoto, verso scelte che possono sembrare irrazionali o rischiose. Tuttavia, è proprio in questi momenti che il daimon si rivela più potente: ci spinge a superare le nostre paure, a uscire dalla nostra zona di comfort e a esplorare nuove possibilità di crescita e trasformazione.
Il daimon, quindi, può essere visto come la parte più autentica e profonda del nostro essere. E' la nostra vocazione interiore, il nostro vero sé, la nostra guida. Il daimon ci ricorda continuamente chi siamo e cosa dobbiamo fare per realizzare il nostro destino, e lo fa attraverso una comunicazione che può essere sottile ma anche brutale, attraverso il corpo, le emozioni e le esperienze della vita quotidiana.
Il daimon interiore è quindi una guida preziosa nella complessità della vita. Ci invita a vivere in modo autentico, a seguire la nostra vocazione, a non tradire la nostra vera natura. Anche quando la sua voce è difficile da comprendere o accettare, è sempre lì, pronta a mostrarci la via verso la nostra realizzazione più profonda. Ascoltarlo significa aprirsi alla possibilità di una vita piena di significato, anche se questo richiede di affrontare le sfide e i conflitti che inevitabilmente emergono lungo il cammino.
(4 settembre 2024)
Esame di realtà e realtà immaginata: manipolazione e disconnessione dalla realtà
Questo è un articolo di psicologia, che prende le mosse da una notizia del 16 agosto 2024:
L'OMS e l'UNICEF hanno richiesto una tregua umanitaria nella Striscia di Gaza tra fine agosto e inizio settembre 2024, con l'obiettivo di vaccinare 640.000 bambini sotto i dieci anni contro la poliomielite. Questa notizia, riportata da fonti autorevoli come il sito dell'UNICEF (fonte) e l'ANSA (fonte), sottolinea l'importanza della campagna vaccinale per prevenire la diffusione della polio in una zona martoriata da conflitti devastanti. Secondo l'UNICEF, la vaccinazione verrà effettuata da 708 squadre mediche, supportate da circa 2700 operatori sanitari.
Il problema di questa notizia è che solleva interrogativi profondi su cosa significhi veramente comprendere la realtà e le priorità in un contesto di emergenza estrema come quello di Gaza, che potremmo paragonare a un cataclisma.
Da un punto di vista razionale, questa notizia è surreale, come se fosse frutto di un'analisi di realtà gravemente compromessa. In una situazione dove la sopravvivenza quotidiana è quasi impossibile, con un popolo che soffre la fame, la sete, la distruzione delle infrastrutture e gli orrori di una violenza incessante, l'idea di concentrarsi su una campagna di vaccinazione, per quanto possa apparire (falsamente) sensata in condizioni normali, è completamente disconnessa dalla realtà immediata.
Chiunque di noi si trovi in uno scenario del genere, non avrebbe dubbi che le priorità sarebbero l'accesso a cibo, acqua, cure mediche di base, un alloggio decente e soprattutto sicurezza, senza il rischio costante di essere uccisi, mutilati, invalidati e di perdere da un momento all'altro familiari e amici. Invece, è grottesco e offensivo che l'attenzione venga deviata su una campagna vaccinale in un contesto dove la morte e la distruzione sono all'ordine del giorno, e in cui i prigionieri vengono rinchiusi in lager con trattamenti brutali sovrapponibili a quelli del nazismo storico.
Questa inverosimile narrativa dell'OMS e dell'UNICEF è probabilmente costruita non tanto sulla base di un'analisi di realtà, ma piuttosto sulla manipolazione della realtà immaginata, al fine di creare una determinata percezione (non reale) nel grande pubblico. E' come se si volesse indurre un senso di urgenza che, per quanto (falsamente) legittimo possa essere in altri contesti, qui appare come un tentativo di distogliere l'attenzione dai veri problemi.
L'implicazione sottostante è che i vaccini siano sempre e comunque salvifici, nonostante le crescenti e vistose controevidenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni, e non solo quelli. Questo tipo di narrazione negazionista, che finge l'assenza di dubbi sull'utilità dei vaccini, l'assenza di prove certe dei loro gravi danni (morte compresa) e, nel caso specifico, l'assenza di opposizione da parte dei bambini in questione o di chi ne esercita la tutela, ci ricorda le distopie orwelliane, nelle quali la realtà viene continuamente riscritta per conformarsi alle esigenze del potere.
In psicologia, l'analisi di realtà è un concetto cruciale che fa riferimento alla capacità di una persona di percepire e interpretare correttamente il mondo esterno e le sue circostanze. Freud e altri psicoanalisti hanno descritto l'analisi di realtà come una funzione essenziale della mente, che ci permette di distinguere tra ciò che è reale e ciò che è frutto della fantasia o della distorsione. Quando questa funzione è compromessa, come nel caso di alcune psicopatologie, si possono manifestare sintomi quali deliri o allucinazioni. Nell'odierno panorama mediatico, c'è l'intento deliberato di invalidare drammaticamente l'analisi di realtà delle masse, creando una percezione del mondo funzionale ai deliri delle guerre, della finanza, dei padroni delle Big Tech e di Big Pharma.
Ciò che stiamo osservando potrebbe essere come una forma indotta di psicopatia, dove la capacità collettiva di distinguere tra realtà e finzione viene manipolata. Questa manipolazione non solo confonde il grande pubblico, ma può anche portare a scelte politiche e sociali che sono gravemente disfunzionali e pericolose.
In un mondo dove la verità è costantemente capovolta, diventa sempre più difficile e faticoso per tutti noi mantenere una visione chiara e sana della realtà. Tutti noi siamo vulnerabili alle distorsioni e alle manipolazioni orchestrate da coloro che detengono il potere. Dobbiamo stare molto attenti, perché le tecnologie che usiamo quotidianamente ci erodono dentro e compromettono la nostra capacità di comprendere e di relazionarci.
Vediamo più in dettaglio come le tecnologie che usiamo quotidianamente influenzano la nostra analisi di realtà, in particolare a livello di auto-riflessione, empatia e compassione:
L'auto-riflessione è la capacità di analizzare e comprendere i propri pensieri, emozioni e comportamenti. L'uso costante di tecnologie come smartphone, social media e altre forme di intrattenimento digitale riduce il tempo che dedichiamo all'auto-riflessione. La continua "distrazione" fornita da queste tecnologie ostacola lo sviluppo di una profonda comprensione di sé stessi e delle proprie azioni, portando a una diminuzione della consapevolezza personale e del benessere mentale.
L'empatia è la capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri. L'interazione mediata dalla tecnologia, rispetto alla comunicazione a tu per tu, manca del necessario nutrimento affettivo e riduce la nostra capacità di empatizzare con gli altri. Le tecnologie digitali creano una distanza emotiva tra di noi, nascondendo o alterando i segnali emotivi sottili che sono fondamentali per costruire connessioni empatiche. Per di più, possiamo tranquillamente dire che i social media sono deliberatamente costruiti per "far litigare".
Questa distanza emotiva negli ultimi anni è stata esacerbata anche dall'uso diffuso delle mascherine, che ha creato gravi danni nello sviluppo emotivo e relazionale dei bambini più piccoli. Tutto ciò ci sta conducendo sempre di più in un agglomerato di individui emotivamente isolati, di monadi senza comunità. Ne seguono il non-senso dell'esistenza e l'insoddisfazione costante, che possono scivolare facilmente in dipendenze e depressione, perché l'essere umano trova senso della propria esistenza all'interno di comunità empatiche, del riconoscimento reciproco e di relazioni sicure.
La compassione, strettamente legata all'empatia, è la capacità di provare preoccupazione per le sofferenze degli altri e il desiderio di alleviarle. La tecnologia ci sta desensibilizzando sempre di più ai bisogni degli altri, compromettendo la nostra capacità di provare compassione e di agire sulla base della compassione. Non è solo una questione di distacco e di intermediazione tecnologica tra le persone. L'esposizione costante a immagini e notizie di grave sofferenza, simulata o reale, tramite i media digitali (cinema, televisione e social) causa una sorta di "esaurimento empatico", che ci conduce verso l'insensibilità.
Inoltre, tendiamo a mettere sullo stesso piano la simulazione del cinema, e dei contenuti falsi generati con l'IA, con gli accadimenti reali, come ben esemplificato dal finale del film "The Truman Show". Dopo che Truman esce dal set e si chiude la porta dietro di lui, ci sono delle scene che mostrano le reazioni del pubblico che ha seguito il suo "show" per anni. In una di queste scene, due guardiani notturni che stavano guardando lo spettacolo su un monitor esclamano qualcosa come "Che altro c'è in TV?" o "Cambiamo canale?", quasi immediatamente dopo che Truman ha lasciato il suo mondo fittizio. Questa breve scena serve a sottolineare come, nonostante la vita di Truman fosse una realtà per lui, per il pubblico era solo un programma televisivo, facilmente sostituibile con qualcos'altro. È un commento sottile ma potente sulla natura della televisione (e oggi dei social) e sulla disumanizzazione che può derivare dal consumo passivo di contenuti.
Senza auto-riflessione, empatia e compassione, non può esserci una sana analisi di realtà.
La storia ci insegna che la realtà, per quanto brutale, deve essere affrontata con chiarezza e onestà. Non possiamo permettere che la nostra capacità di giudizio venga offuscata da narrazioni superficiali o distorte, che spingono agende specifiche a scapito di una comprensione autentica dei fatti. E' fondamentale per ciascuno di noi sviluppare una capacità critica che ci permetta di analizzare e interpretare gli eventi.
E' nostro dovere, come individui e come collettività, resistere alle facili manipolazioni e rimanere vigili di fronte alle strategie che cercano di ridefinire la nostra percezione del mondo.
(19 agosto 2024)
Quando l’inclusività esclude, come superiamo le logiche divisive?
È ormai ampiamente noto il fervente dibattito che ha inondato il web e i social media riguardo alle Olimpiadi del 2024. Le critiche all’organizzazione e all’ideologia sottostante sono state numerose e spesso intrise di polemiche e tensioni. Potrei approfondire queste discussioni, talvolta avvelenate dall’odio, ma non lo farò. Tutto ciò che di negativo poteva essere detto è già stato espresso. Preferisco invece astenermi dalle polemiche specifiche e offrire una riflessione più ampia, guardando la questione da una prospettiva più metacomunicativa.
Invito i miei (pochi) lettori a rasserenarsi prima di proseguire. Mettiamo da parte tutto ciò che può averci turbato e di cui i social continuano a parlare. Mettiamo da parte le nostre idee, e andiamo oltre, altrimenti rimarremo impigliati in una ragnatela mortale. Ricordiamoci che i social alimentano le divisioni e le ideologie estreme, e che ci fanno vedere nemici anche dove non ci sono. Stesso discorso per i giornali e la televisione.
Ciò premesso, le Olimpiadi del 2024 ci offrono uno spunto per analizzare la complessità delle dinamiche sociali e psicologiche che possono derivare da una narrazione pubblica mal calibrata. Quando parliamo di inclusività, ci riferiamo all'idea di abbracciare e valorizzare la diversità, creando un ambiente in cui tutte le persone si sentano accettate e rappresentate. Tuttavia, se la comunicazione che accompagna questi sforzi è gestita male, il risultato può essere esattamente opposto, generando divisione e alienazione sociale.
Il paradosso dell'inclusività
Uno dei paradossi più significativi emersi da eventi come le Olimpiadi è la contraddizione tra il messaggio dichiarato di inclusività e gli effetti reali di tale messaggio. L’intento di creare un ambiente inclusivo e accogliente per tutti, attraverso simboli, rappresentazioni o dichiarazioni di principio, può involontariamente escludere o offendere segmenti della popolazione che non si riconoscono in quella narrazione. Questo fenomeno non è solo una questione di comunicazione fallita, ma rappresenta una sorta di “follia cognitiva” in cui dichiariamo di voler ottenere un certo effetto (inclusione), ma otteniamo l’effetto contrario (esclusione).
Questo paradosso è alimentato da una tensione tra l'intenzione dei comunicatori scelti dalle istituzioni o da società o enti di grande rilevanza e la percezione del pubblico. In un contesto sociale frammentato e diversificato, è inevitabile che non tutti condividano gli stessi valori, simboli e narrazioni. Quando un evento globale si propone di rappresentare valori universali, c’è il rischio che quei valori, per quanto ben intenzionati, non riescano a risuonare con tutti. In questi casi, coloro che si sentono esclusi dalla rappresentazione possono percepire il messaggio come imposto, provocando reazioni di resistenza, rabbia, offesa, sdegno o alienazione sociale.
La soggettività dell’offesa e l'incoerenza sociale
Il concetto di soggettività dell’offesa gioca un ruolo centrale in questo scenario. Nella società moderna, abbiamo sviluppato un crescente interesse verso il riconoscimento delle percezioni individuali. Secondo questa logica, ciò che conta non è l'intenzione di chi comunica, ma la percezione di chi riceve il messaggio. Se qualcuno si sente offeso o escluso, quella sensazione è legittima a prescindere dall’intenzione iniziale. Ciò è in linea con la saggezza dei principi della Programmazione Neuro Linguistica (PNL):
LA MAPPA NON È IL TERRITORIO
1. Le persone agiscono in funzione della propria percezione della realtà.
2. Ogni persona ha una propria mappa del mondo. Nessuna mappa del mondo è più ‘reale’ o ‘vera’ di altre.
3. Il significato della propria comunicazione è nella risposta che si riceve, indipendentemente dall’intenzione di chi comunica.
4. Le mappe più ‘sagge’ e più ‘compassionevoli’ non sono quelle più ‘reali’ o più ‘accurate’, ma quelle che mettono a disposizione il più ampio ed il più ricco numero di scelte.
5. Le persone possiedono (o hanno potenzialmente) tutte le risorse necessarie per agire in modo efficace.
6. Le persone operano le migliori scelte possibili fra le possibilità che vengono loro date e le capacità che percepiscono disponibili dal loro modello del mondo. Qualsiasi comportamento, non importa quanto malvagio, pazzo o bizzarro sia, è la scelta migliore a disposizione della persona in quel momento – se alla persona viene data la possibilità di una scelta più appropriata (nel contesto del suo modello del mondo) essa sarà propensa ad usarla.
7. Il cambiamento avviene quando si libera una risorsa appropriata per il contesto che si sta vivendo, o quando si attiva una potenziale risorsa, all’interno di un contesto particolare. In entrambi i casi la mappa del mondo di una persona si arricchisce.
tratto da: I presupposti della PNL
Ciò è in netto contrasto con l'idea diffusa che ciascuno sia responsabile di ciò che dice e che fa, e non di ciò che viene compreso dagli altri delle proprie parole o azioni. Lascio che ciascuno di noi rifletta su questo contrasto, usando gli accadimenti delle Olimpiadi 2024 come caso di studio.
Inoltre, c'è un ulteriore incoerenza o contrasto. L'approccio di legittimare completamente la soggettività e le esperienze individuali può portare a incoerenze quando applicato in modo selettivo. Se da un lato difendiamo la sensibilità di gruppi specifici, dall'altro possiamo ignorare o minimizzare la legittimità delle reazioni di coloro che si sentono esclusi o offesi dalle stesse manifestazioni che dichiarano di promuovere l'inclusività. Dovremmo quindi stare molto attenti.
Il ruolo della metacomunicazione
La metacomunicazione, ovvero il messaggio che va oltre il contenuto esplicito della comunicazione, gioca un ruolo cruciale in queste dinamiche. La metacomunicazione riguarda il “come” qualcosa viene comunicato e quale impatto sociale e psicologico questo ha su chi lo riceve. Nel caso delle Olimpiadi 2024, la metacomunicazione ha creato una significativa divisione a livello globale. Il modo in cui l’inclusività è stata rappresentata, invece di unire, ha finito per polarizzare l’opinione pubblica. Questo avviene perché la metacomunicazione spesso opera a un livello subconscio, attivando reazioni emotive che possono essere in conflitto con l’intenzione dichiarata del messaggio.
La polarizzazione è amplificata dalla natura moderna dei media e della comunicazione, dove le narrazioni vengono rapidamente amplificate e frammentate attraverso i social media e le piattaforme digitali. In questo ambiente, qualsiasi messaggio, anche quello più benigno, può essere interpretato e reinterpretato in mille modi diversi, a seconda delle esperienze e delle convinzioni personali degli individui.
Inclusività come strumento di esclusione
Questo processo ci porta a riflettere sul fatto che l’inclusività, quando applicata in modo non critico, può trasformarsi in uno strumento di esclusione. Un messaggio che si propone di includere tutti può diventare escludente se non tiene conto delle varie sfumature culturali, sociali e individuali delle persone a cui si rivolge. Questo fenomeno è indicativo di una più ampia tendenza nella società contemporanea: l’imposizione di un pensiero unico sotto il pretesto dell’inclusività. Tale imposizione può alienare socialmente coloro che non si riconoscono in essa, portando a un aumento della divisione sociale.
Suggerimenti per superare le logiche divisive nella comunicazione pubblica
Per affrontare e superare queste dinamiche divisive, dobbiamo agire su due livelli: promuovere politiche pubbliche più inclusive e critiche, e lavorare a livello individuale e psico-relazionale. Mentre il cambiamento nelle politiche mediatiche e pubbliche potrebbe richiedere tempo e, nel breve periodo, continuare a proseguire sul binario morto dell'inclusività escludente, ciascuno di noi può intraprendere azioni concrete per contribuire a un ambiente sociale più armonioso.
Cominciamo a tracciare il "possibile" cambiamento di direzione della comunicazione pubblica. Quando dico "possibile", intendo che è realmente possibile, perché tutto ciò che esiste è in continuo cambiamento. Se invece non lo riteniamo "possibile", allora non abbiamo comprenso la legge dell'impermanenza (anitya). La storia è fatta di continui cambiamenti, anche improvvisi e imprevedibili.
1. Riconoscere la complessità del pubblico
Riconosciamo che il pubblico non è un blocco monolitico, ma una moltitudine di individui con esperienze, valori e percezioni differenti. Ogni iniziativa che punta all'inclusività dovrebbe partire dall’ascolto delle diverse voci presenti nella società, senza presupporre che un solo messaggio possa andare bene per tutti. Dovremmo sempre ricordarci che le opinioni contrastanti sono comunque legittime, e che non esiste "una" verità, ma "tante" verità che si completano a vicenda nella loro interdipendenza e contrapposizione.
2. Promuovere una comunicazione autentica e aperta
Cerchiamo di promuovere un dialogo aperto e autentico, in cui tutte le voci possano essere ascoltate. Questo include il riconoscimento delle critiche e delle preoccupazioni di coloro che si sentono esclusi, cercando di integrare queste prospettive nella narrazione complessiva.
3. Valorizzare la pluralità di opinioni
Valorizziamo la pluralità di opinioni, vedendola come una risorsa e non una minaccia. Un ambiente davvero inclusivo è quello in cui tutte le opinioni possono coesistere, anche quelle che sono in disaccordo con la narrazione dominante. Questa pluralità dovrebbe essere coltivata e rispettata.
4. Evitare la polarizzazione mediatica
Contrastiamo attivamente la tendenza alla polarizzazione amplificata dai media. Le piattaforme digitali e i media tradizionali hanno il potere di amplificare le divisioni, quindi promuoviamo contenuti che incoraggino la comprensione reciproca piuttosto che la conflittualità.
5. Educare alla comprensione e alla riflessione critica
Promuoviamo un'educazione alla comprensione reciproca e alla riflessione critica, preparando le nuove generazioni a gestire la complessità delle dinamiche sociali. Dobbiamo incoraggiare le persone a comprendere non solo i propri sentimenti, ma anche quelli degli altri, sviluppando la capacità di vedere le cose da diverse prospettive.
Azioni a livello individuale e psico-relazionale
Mentre lavoriamo per un cambiamento nelle politiche pubbliche e nella comunicazione collettiva, possiamo anche agire a livello individuale per contrastare le logiche divisive e promuovere relazioni più sane e inclusive. Ecco alcuni suggerimenti pratici:
1. Coltivare la consapevolezza di sé
Iniziamo con la consapevolezza di sé, che è la base di qualsiasi cambiamento personale. Riflettiamo su come reagiamo ai messaggi di inclusività ed esclusività che riceviamo dai media e dalla società. Chiediamoci se le nostre reazioni sono basate su paure, pregiudizi o esperienze passate, e lavoriamo per comprendere le radici di queste emozioni. La pratica della riflessione su noi stessi può aiutarci a riconoscere le nostre tendenze e a rispondere in modo più equilibrato.
2. Praticare l'empatia attiva
L’empatia non è solo una qualità innata, ma è anche una competenza che possiamo coltivare attraverso la pratica attiva. Cerchiamo di metterci nei panni degli altri, soprattutto di coloro con cui non siamo d'accordo. Ascoltiamo attentamente le loro esperienze e opinioni, cercando di capire da dove provengono. Questa pratica ci aiuta a ridurre la polarizzazione nelle nostre interazioni quotidiane e a creare connessioni più profonde e significative.
3. Costruire la capacità di gestire le emozioni
Nel mondo moderno, siamo costantemente esposti a messaggi contrastanti e potenzialmente divisivi. Costruiamo la nostra capacità di gestire le emozioni imparando a non reagire impulsivamente a tutto ciò che vediamo o sentiamo. Possiamo sviluppare questa capacità attraverso attività come la meditazione, l'esercizio fisico regolare e il mantenimento di relazioni sane. Essere emotivamente stabili ci permette di mantenere la calma e la chiarezza di pensiero anche di fronte a situazioni polarizzanti.
4. Sviluppare una mentalità aperta
Una mentalità aperta ci permette di accogliere la diversità di pensiero senza sentirci minacciati. Invece di cercare conferme alle nostre convinzioni, pratichiamo l'apertura verso nuove idee e prospettive. Possiamo farlo leggendo libri e articoli di autori che hanno opinioni diverse dalle nostre, partecipando a discussioni con persone di diverso background e mantenendo una curiosità attiva verso il mondo che ci circonda.
5. Promuovere la comunicazione non violenta
La comunicazione non violenta (CNV) è un metodo che ci aiuta a esprimere le nostre esigenze e sentimenti senza accusare o ferire gli altri. Quando ci troviamo in disaccordo, cerchiamo di usare un linguaggio che sia rispettoso e aperto al dialogo. Invece di concentrarci su ciò che ci divide, poniamo l'accento su ciò che abbiamo in comune e lavoriamo insieme per trovare soluzioni.
6. Agire come modelli positivi
Una conseguenza indiretta e inevitabile della nostra presenza nel mondo è che le nostre azioni quotidiane possono avere un impatto significativo su chi ci circonda, sia in una direzione che nell'altra. Da questo punto di vista, il nostro miglioramento interiore è anche una responsabilità sociale.
Conclusione
Superare le logiche divisive richiede un impegno sia collettivo che individuale. A livello pubblico, possiamo promuovere politiche che incoraggino una comunicazione autentica e rispettosa della pluralità. A livello individuale, possiamo coltivare l'auto-consapevolezza, l'empatia e la stabilità emotiva, adottando comportamenti che favoriscono la comprensione e l'inclusione. Anche se il cambiamento a livello di politiche pubbliche potrebbe richiedere tempo, le nostre azioni quotidiane possono fare una differenza immediata nel creare un mondo più armonioso e coeso.
(9 agosto 2024)
(Olimpiadi 2024, go to my art gallery)
Le nostre ombre
Certi uomini sono impermeabili alla ragione e al dialogo.
Questi individui desiderano solo vedere il mondo bruciare.
Sono maestri nel raccogliere consensi, nell'essere amati e serviti, nel dominare e illudere senza pietà.
Raccontano ciò che è più conveniente per suscitare emozioni, sentimenti, pensieri, suggestioni in chi li ascolta, senza conoscere né curarsi della verità.
Amano il potere, gestire denaro e persone, ma mai si mostrano per ciò che realmente sono, né lo ammettono a se stessi. Solo quando sono davvero spaventati e si sentono in trappola, le maschere cadono e il loro falso perbenismo si dissolve.
Il mondo è sempre andato avanti così. Tuttavia, ciò che possiamo vedere in questi uomini malati risiede anche dentro ciascuno di noi, nascosto nella nostra ombra.
L'ombra è un concetto introdotto da Carl Gustav Jung e rappresenta l'insieme degli aspetti della personalità che l'individuo non riconosce o rifiuta di ammettere in sé stesso. Questi aspetti possono includere desideri repressi, emozioni nascoste, e impulsi che contrastano con l'immagine ideale che la persona ha di sé stessa. L'ombra è una parte integrante della psiche umana e si manifesta in vari modi, a volte in forma di sogni, fantasie, o comportamenti inconsci.
L'ombra contiene anche Thanatos, l'istinto di morte, che si nasconde nelle profondità della psiche di ogni individuo. Anche nelle persone apparentemente sane di mente, esiste una parte oscura che può essere attratta dalla distruzione e dalla negatività. Questo istinto può emergere in situazioni di stress estremo, frustrazione, o quando l'individuo si sente minacciato. Thanatos rappresenta il desiderio di annullamento, di fine, e di ritorno a uno stato di non esistenza, che può manifestarsi attraverso comportamenti autodistruttivi o aggressivi.
La presenza di Thanatos nell'ombra non implica necessariamente che tutti agiscano in modo distruttivo, ma riconoscere la sua esistenza è cruciale per comprendere la complessità della natura umana. Solo affrontando e integrando l'ombra si può raggiungere una maggiore consapevolezza di sé stessi e, di conseguenza, un equilibrio interiore. Questo processo di integrazione richiede coraggio, poiché implica guardare dentro di sé e accettare aspetti che si preferirebbe ignorare o negare.
Infine, è importante riconoscere che l'ombra non è solo negativa. Anche Eros, l'istinto di vita, risiede nell'ombra. Aspetti positivi della personalità, come la creatività e la capacità di amare, possono essere repressi e diventare parte dell'ombra se non sono accettati o valorizzati. La chiave sta nel riconoscere e integrare entrambi gli istinti, Eros e Thanatos, per vivere in modo più autentico e equilibrato.
Pertanto, anche se possiamo vedere in certi uomini una manifestazione estrema di Thanatos, dobbiamo ricordare che questi impulsi esistono in misura diversa in tutti noi. La differenza sta nella nostra capacità di riconoscerli, accettarli e gestirli in modo costruttivo, piuttosto che lasciarli prendere il controllo della nostra vita.
(10 giugno 2024)
La paura come radice del conflitto umano
Gran parte dell'agire umano è mosso dalla paura, anche se di solito tale paura non viene mai dichiarata come tale.
Ad esempio, le attuali guerre che sembrano voler infiammare il mondo intero nascono dalla paura, che in questo caso è paura dell'altro, della sua esistenza, del suo agire, del fatto che l'altro possa distruggere la propria identità. Con questa chiave di lettura, tutte le guerre, dal punto di vista di chi le vive e di tutte le parti coinvolte, sono sempre guerre difensive, anche quando un'osservatore esterno leggerebbe quello che accade in modo molto diverso. Anche lo sterminio di un popolo è, dal punto di vista di chi lo fa, un'azione difensiva mossa dalla paura, anche se tale paura non solo non è dichiarata, ma è ben nascosta sotto il macigno della mostrificazione dell'altro e della finta dualità di buoni e cattivi.
Se ascoltiamo le dichiarazioni, nessuno dice "io faccio questo perché sono cattivo", bensì la narrazione è "io faccio questo perché l'altro mi mette in pericolo".
E' solo una lettura psicologica, non sto giustificando alcuna barbarie. Il male non si combatte con i mezzi del male, cioè con odio, distruzione, guerra o, come vediamo in questi giorni, con i carri armati che passano sopra le persone schiacciandole come mosche. No, si combatte perseverando nel bene, resistendo nel bene, e di conseguenza essendo disposti a portare la propria croce.
Paura è sinonimo di separazione, e separazione è sinonimo di mancanza di amore, o appunto di unione. Al tempo stesso, il significato etimologico di cattivo è captivus, che indica il prigioniero di guerra ridotto in schiavitù, con riferimento alle sue lacrime, alla sua disperazione, che poi egli trasforma ed esterna in rabbia e ferocia. Questa etimologia dovrebbe metterci in guardia sulle vere origini della cattiveria. Captivus è "colui che viene catturato, fatto prigioniero". Potrei aggiungere, come deduzione, che "captivus", e quindi la cattiveria, indica una separazione dolorosa e importante, e che la prigionia è una prigionia dell'anima.
Riassumendo, parole come "paura", "separazione" e "cattiveria" indicano condizioni simili e sovrapponibili. A volte la paura è semplicemente quella di perdere il proprio "potere", e dove c'è potere inteso come "dominazione" c'è l'esatto opposto dell'amore, cioè dell'unione. Quindi anche la parola "potere" indica una "separazione", e quindi "paura" e "cattiveria".
Questi collegamenti semantici non sono immediatamente evidenti, ma scavando nelle proprie ombre troviamo questo e altro. Così, possiamo scoprire che crearsi dei "nemici" non è altro che un modo con cui estroiettiamo le nostre ombre attribuendole ad altri. E nelle nostre ombre c'è tutto, sia il carro armato, sia chi lo guida, sia chi soccombe sotto di esso.
(31 dicembre 2023)
L'Era della Persuasione Bellica > Dinamiche comunicative e psico-sociali per giustificare la guerra
Mentre il mondo si schiera e il conflitto si espande, sorge una domanda pressante: «Perché ci infliggiamo simili sofferenze?». È una questione che sfida ogni tentativo di spiegazione esaustiva, poiché la guerra, nella sua brutale semplicità, è un antico modo di affrontare i problemi, radicato nelle profondità della storia umana.
Diverse chiavi di lettura cercano di dare senso a questo fenomeno ancestrale. Alcuni individui, ad esempio, evocano l'intervento di entità aliene, in una cosmica contrapposizione che si ripercuote sulla Terra, mentre altri scrutano le configurazioni astrali, attribuendo a Marte, il dio della guerra, un'influenza diretta sui nostri comportamenti bellicosi.
Tuttavia, preferisco ancorare la riflessione a noi stessi, ad una "introspezione collettiva". È nostro, infatti, il talento nel creare illusori giustificativi, nel raggirarci con argomentazioni che dipingono la violenza come un percorso necessario o addirittura giusto.
Ma quali meccanismi ci portano a sostenere la guerra? La risposta può risiedere in una serie di sofisticate trappole comunicative e psicologiche, che vanno ben oltre la propaganda superficiale:
1. Polarizzazione: dividere nettamente la popolazione in due gruppi contrapposti.
2. Mostrificazione: raffigurare uno dei due gruppi come intrinsecamente malvagio e mostruoso.
3. Morale binaria: assegnare etichette di "bene" e "male" ai due gruppi, stabilendo una dicotomia morale assoluta.
4. Legittimazione e delegittimazione: celebrare le azioni di un gruppo come giuste e legali, mentre si denunciano le azioni dell'altro come criminali.
5. Dissenso come eresia: etichettare come "traditori" o "simpatizzanti del nemico" coloro che mettono in dubbio la guerra o le sue giustificazioni.
6. Esaltazione del martirio: glorificare chi va in guerra e chi supporta la causa bellica come eroi.
7. Ostruzione al dialogo: commettere atti volti a rendere il dialogo tra i gruppi impossibile.
8. Rabbia indotta: sostituire il pensiero critico con emozioni negative attraverso l'uso di immagini e narrazioni che provocano indignazione.
9. Costruzione del conflitto: adottare la sequenza "(1) creare un problema, (2) creare un nemico additandolo come causa del problema, (3) proporre l'annientamento del nemico come soluzione".
10. Revisionismo storico: inventare una narrativa storica che giustifichi la guerra, ignorando o distorcendo le vere cause e la storia recente o passata.
11. Propaganda: diffondere sistematicamente messaggi che rafforzino la narrazione di guerra, utilizzando i media per escludere prospettive alternative.
12. Censura informativa: controllare l'informazione disponibile per sopprimere punti di vista contrastanti e rinforzare il messaggio ufficiale.
13. Simbolismo: creare e utilizzare simboli e slogan per rafforzare l'unità interna e l'opposizione al nemico.
14. Autoritarismo: sfruttare l'autorità e la tradizione per legittimare l'azione bellica.
15. Manipolazione degli eventi: utilizzare o inventare incidenti e attacchi per giustificare il rinnovato fervore bellico.
Queste tattiche ingannevoli tendono ad essere speculari e parallelamente impiegate da entrambe le parti in conflitto, portando a crimini e giustificazioni simili sotto la bandiera di presunti beni supremi.
Stiamo attenti. Cerchiamo di rimanere vigili contro ogni manipolazione.
Finché rimarremo in contatto con la nostra Coscienza, avremo ben chiaro che l'unico bene supremo è la Vita stessa, intrinsecamente opposta agli orrori della guerra. Ogni filosofia di pace, ogni religione e ogni sistema etico degno di considerazione pone al centro i diritti umani, sostenendo la loro inalienabilità e sacralità. È dovere di ciascuno di noi proteggere e valorizzare la vita di ogni persona, a cominciare dalla propria.
Coloro che onorano e curano ogni vita umana con rispetto incarnano le qualità di un'umanità profondamente evoluta, che è ciò di cui oggi, più che mai, abbiamo bisogno.
(3 novembre 2023)
Pillole di Psicologia - Profilo comportamentale del manipolatore e della manipolatrice
Riporto i seguenti due audio a cura dell’anonima autrice del canale Deabendata. La descrizione del modello comportamentale di chi ha l’abitudine di tenere sotto scacco familiari, colleghi o altre persone vicine mi sembra molto verosimile.
Il miracolo della pace nella gioia dell’essere (Mauro Scardovelli)
(video del 25 febbraio 2023 - fonte - archivio video di Mauro Scardovelli)
L'attaccamento alle proprie idee come causa psicologica delle guerre
La guerra è un fenomeno complesso che ha molte cause, tra cui fattori sociali, economici, politici, morali e psicologici. Tra questi ultimi, rientra l'attaccamento alle proprie idee, inteso come l'identificazione di sé con le proprie convinzioni morali e politiche.
La teoria dei fondamenti morali
Uno dei principali studiosi che hanno sviluppato la teoria dell'attaccamento alle proprie idee è lo psicologo sociale Jonathan Haidt. Nella sua opera "The Righteous Mind: Why Good People Are Divided by Politics and Religion" (2012), Haidt sostiene che le persone siano attaccate alle proprie convinzioni morali e politiche in virtù di sei fondamenti morali universali:
- cura / danni: apprezzamento e protezione degli altri;
- giustizia / inganno: giustizia rappresentata da un accordo con norme condivise (nome alternativo: proporzionalità);
- lealtà / tradimento: stai con il tuo gruppo, famiglia o nazione (nome alternativo: endogruppalità);
- autorità / sovversione: obbedire alla tradizione e alla legittima autorità (nome alternativo: rispetto);
- santità / degrado: antipatia per cose, cibi o azioni spiacevoli (nome alternativo: purezza);
- libertà / oppressione: ci spinge alla ribellione quando ci sentiamo umiliati.
Secondo Haidt, le persone differiscono tra loro nella loro attenzione a questi fondamenti morali e questo può portare a conflitti intergruppi. Ad esempio, se due gruppi hanno un'attenzione diversa ai fondamenti morali della cura e della giustizia, potrebbero trovarsi in conflitto sui diritti sociali, come l'aborto o le questioni LGBTQ+ (approfondimento).
L'identificazione con le proprie idee
Un altro aspetto dell'attaccamento alle proprie idee è l'identificazione di sé con queste. L'attaccamento alle proprie idee può portare alla demonizzazione dell'altro e alla sua esclusione dalla comunità (come nel caso dell'attaccamento all'idea della mascherina, del vaccino e del green pass). L'identificazione con le nostre idee e con i nostri valori, infatti, può facilmente diventare un'ideologia, un insieme di credenze tanto solide da escludere gli altri. L'ideologia non permette di considerare le sfumature e le complessità del mondo, e può portarci alla demonizzazione di chi vediamo come un ostacolo alla realizzazione dei nostri obiettivi.
Un'ideologia rigida e dogmatica esclude la possibilità di considerare i punti di vista degli altri e di trovare un terreno comune per risolvere i conflitti.
L'identificazione con le proprie idee può essere accentuata dall'effetto delle camere d'eco, che si verifica quando ci circondiamo di informazioni e opinioni che confermano le nostre idee pregresse e tendono a ignorare o respingere informazioni e opinioni che le contraddicono.
Come l'attaccamento alle proprie idee può portare alla guerra
L'attaccamento alle proprie idee può portare alla guerra in diversi modi. In generale, le persone possono percepire le opinioni e le azioni degli altri come minacciose per i propri valori e quindi agire in modo aggressivo e violento. In secondo luogo, possiamo dividerci in gruppi contrapposti sulla base delle nostre convinzioni morali e politiche, con conseguenti conflitti intergruppi. Infine, l'identificazione con le proprie idee può portare alla demonizzazione dell'altro e al rifiuto di negoziare o di trovare un compromesso.
Un esempio di come l'attaccamento alle proprie idee possa portare alla guerra è l'attuale conflitto tra il cosidetto "blocco occidentale" a trazione statunitense e il blocco asiatico (Russia e Cina, quest'ultima non ancora direttamente coinvolta, ma poco ci manca). Questo conflitto ha radici storiche, politiche ed economiche complesse, probabilmente anche non-umane (mi riferisco alla contrapposizione tra Asura, cioè Stati Uniti, e Deva, cioè Russia), ma l'umano attaccamento alle proprie idee e l'identificazione di sé con esse sono fattori che ci stanno conducendo verso l'Apocalisse. Le due parti del conflitto hanno fondamenti morali e identità politiche forti e differenti, che si escludono reciprocamente. Ciascuna di esse considera se stessa come il Bene e l'altra come il Male. Da questo punto di vista, l'attuale guerra è percepita e dichiarata da molti come lo scontro tra il Bene e il Male, tra Dio e Lucifero, tra la Luce e le Tenebre, o come qualsiasi altra coppia di opposti che fanno riferimento a valori morali supremi. Non a caso molti politici invitano a stare dalla "parte giusta" della storia. Già, ma "giusta" in base a un criterio fideistico?
Dopo un conflitto mondiale che a breve potrebbe distruggere il mondo così come lo conosciamo, dalle sue ceneri nascerà un mondo migliore? Non lo so. Alcuni dicono di sì. Io ho seri dubbi al riguardo se non ci sarà anche un serio cambiamento nel modo di relazionarsi tra tutti noi, rinunciando all'attaccamento alle nostre idee e a identificarci con esse.
Possibili strade alternative
In questo conflitto finale, così come in tanti altri storici, le divisioni religiose hanno spesso portato a una forte identificazione con le proprie credenze e a un rifiuto degli altri. Non sto dicendo di diventare più ecumenici o più "inclusivi" (termine abusato e sovente capovolto nel significato), perché finché rimarremo solo nel mondo delle idee non potremo creare alcuna convivenza armoniosa.
E' più utile, invece, portare la nostra attenzione sul fatto che siamo tutti interdipendenti, ovvero ciascuno di noi esiste perché esiste l'altro diverso da sé. Come scrisse Daisaku Ikeda: «Nessun essere umano viene al mondo solo, o diviene adulto senza interagire con altre persone. In generale tutti nasciamo e cresciamo in un contesto familiare, fino a raggiungere la maturità. Marito e moglie, genitori e figli, fratelli e sorelle, siamo tutti uniti da un’invisibile legge naturale. Questi legami del cuore esprimono l’essenza di una vera famiglia».
Appunto, è il cuore che è importante.
(14 febbraio 2023)
Spinte e Ingiunzioni: motivazioni nascoste dei nostri comportamenti
Osserviamo un modello della psiche umana, in cui ciascuno di noi potrà riconoscere qualcosa di sé, tratto dal libro "Dentro l'AT. Fondamenti e sviluppi dell'Analisi Transazionale". In alto osserviamo le spinte (sforzati, sbrigati, ecc.), in basso le ingiunzioni (non sentire, non esistere, ecc.).
Le spinte sono obblighi. Le ingiunzioni sono divieti più o meno letali, che funzionano come comandi interni che disturbano e contaminano il corretto funzionamento psicologico e alterano l'integrità e l'efficienza di un individuo.
Le spinte sono un modo per non entrare in contatto con il dolore provocato dalle ingiunzioni. In altre parole, ci aiutano a rimanere a galla, come mostra il disegno, e a non affogare in sentimenti molto dolorosi. Ma non è un aiuto sano, tutt'altro, e la qualità della vita ne risente negativamente.
Vediamo le principali ingiunzioni interiorizzate da piccoli e che possono influenzare tutta la vita, prendendo come riferimento il libro "Il cambiamento di vita nella terapia ridecisionale" e l'articolo "Comandi e proibizioni interiori: le ingiunzioni come spinte negative":
- Non - Questa ingiunzione è data da genitori che hanno paura. A causa della loro paura, essi non permettono al bambino di fare molte cose normali: non avvicinarti alle scale (al bambino che trotterella appena); non arrampicarti sugli alberi; non pattinare; ecc. A volte questi genitori non volevano il bambino, riconoscono il loro desiderio primitivo che il bambino non esista e, sentendosi in colpa e terrorizzati dai loro stessi pensieri, diventano iperprotettivi. Altre volte il genitore diventa fobico, psicotico o iperprotettivo dopo aver perduto altri bambini a causa di una malattia o di un incidente. Man mano che il bambino cresce, il genitore si preoccuperà di qualsiasi azione il bambino proponga e dirà: "Ma forse sarebbe meglio se tu ci pensassi ancora un po’". Il bambino crede che niente di quel che lui fa sia giusto o sicuro, non sa che fare, e cerca qualcuno che glielo dica. Un bambino del genere avrà molta difficoltà a prendere decisioni, più avanti nella vita.
- Non essere - Questo è il messaggio più letale e il primo da affrontare in una terapia. Può essere trasmesso in maniera sottile, come: "Se non fosse per voi bambini, divorzierei da vostro padre”. In modo meno sottile: "Vorrei che tu non fossi mai nato... così non avrei dovuto sposare tuo padre”. Il messaggio può essere trasmesso non verbalmente, attraverso il modo in cui il genitore tiene in braccio il bambino, senza cullarlo, si abbuia e brontola durante il bagnetto e i pasti, urla quando il bambino vuole qualcosa o è fisicamente violento. Ci sono un'infinità di maniere in cui si trasmette questo messaggio.
Questa ingiunzione può esser data da madre, padre, bambinaie e governanti e da fratelli e/o sorelle.
Un genitore può essere depresso perché il bambino è stato concepito prima del matrimonio o quando i genitori non volevano più bambini. La gravidanza può essersi conclusa con la morte della madre e il padre o i nonni danno al bambino la colpa di quella morte. Il parto può essere stato difficile e il bambino incolpato perché era troppo grande quando è nato: "Mi hai squarciato quando sei nato”. Questi messaggi, ripetuti molte volte in presenza del bambino, diventano il "mito della nascita”, che dice: "Se tu non fossi esistito, le nostre vite sarebbero migliori”.
Il comando interiore "non essere" porta a un sentimento in cui la svalutazione di sé è talmente massima che la persona tende a non dedicarsi alla cura di sé come essere senziente e pensante. È una condizione che può facilmente spingere ad uccidersi.
- Non entrare in intimità - Se un genitore scoraggia il bambino dall'avvicinarsi, il bambino interpreterà ciò come un messaggio: "Non entrare in intimità”. La mancanza di contatto fisico e la mancanza di carezze positive inducono il bambino a questa interpretazione. Inoltre, se il bambino perde un genitore a cui si sentiva vicino, per morte o per divorzio, può darsi da solo questa ingiunzione, dicendosi cose come: "Che scopo c'è ad entrare in intimità, tanto poi muoiono” e decidere di non entrare mai più in intimità con nessuno.
- Non essere importante - Se, per esempio, un bambino non ha il permesso di parlare a tavola, gli si dice: "I bambini si devono vedere, ma non si devono sentire”, o lo si svaluta in qualche altro modo, lui può recepire questi messaggi come un: "Non essere importante”. Può ricevere questo messaggio anche a scuola.
Questo è l'ordine interno che raccomanda alla persona di non sentirsi di valore. Quello che fa, sente, dice, pensa o percepisce, non ha molto valore ai suoi stessi occhi, e tutti i rimandi che tendono invece a potenziare o riconoscere le sue qualità sono minimizzati o deprezzati. È il tipico comportamento, molto usuale, di chi non fa caso, sminuisce, o devia un complimento, magari mettendo subito in evidenza una sua parte manchevole o deficitaria.
- Non essere un bambino - Questo è il messaggio mandato da genitori che chiedono agli altri figli di occuparsi del più piccolo. È mandato anche da genitori che cercano di educare troppo presto alla pulizia, giudicano i bambini "ometti” o "donnine” dal momento in cui muovono i primi incerti passi, gli danno carezze perché siano educati prima che i bambini sappiano che cos'è l'educazione, e gli dicono, quando sono ancora in fasce, che solo i bambini in fasce piangono.
- Non crescere - Questa ingiunzione è spesso data dalla madre al suo ultimo bambino, che sia il secondo o il decimo. E anche data spesso dal padre a una ragazza nel periodo pre-puberale o in piena pubescenza, quando egli comincia a sentire stimoli sessuali e se ne spaventa. Può allora proibire alla ragazza di fare le cose che tutte le sue amiche fanno come truccarsi, mettersi vestiti adatti alla sua età, uscire con ragazzi. Inoltre, il padre può interrompere le carezze fisiche appena la ragazza diventa troppo matura e lei interpreta ciò come: "Non crescere o non ti amerò più”.
- Non avere successo - Se prima il padre batteva sempre il figlio a tennis ma quando il figlio comincia a vincere il padre smette di giocare con lui, ciò può essere interpretato dal figlio come: "Non vincere o non mi piacerai più”, che si trasforma in: "Non avere successo”. Le critiche costanti da parte di un genitore perfezionista danno il messaggio: "Non fai niente nel modo giusto”, che si traduce in: "Non avere successo”.
Questo è il tipico comando interiore di chi, per sentirsi realizzato, paradossalmente, deve fallire, perché è in questo modo che si può riconoscere e giustificare alla vita. Se non riesce, conferma a se stesso di essere incapace, e tale abito, anche se lo invalida nelle sue competenze, lo rassicura circa l’idea di sé, che anche se squalificante gli dà il diritto di esserci.
- Non essere te stesso - Questo messaggio è dato soprattutto al bambino che nasce del sesso "sbagliato”. Se la madre ha tre maschi, e ne nasce un quarto, essa può fare di questo bambino la sua "figlia”. Se un maschio vede che le femmine ricevono un trattamento di favore, può interpretare ciò come: "Non essere un maschio o non avrai mai niente” e avere problemi di identificazione sessuale. Un padre può non farcela più dopo quattro femmine, e insegnare alla quinta cose da "maschio” e da "uomo”, come giocare a calcio.
Questo è il comando interiore di chi deve continuamente confrontarsi mediante la maschera, simulando emozioni che non ha, esprimendo pensieri ed identità che non gli appartengono; forse perché percepisce tutto questo come protettivo e cautelativo, rinunciando di fatto alla manifestazione autentica di sé, quindi anche in termini di bisogni, pagando alto il prezzo della mancanza di assertività; costruendo presumibilmente rapporti fittizi ed inconcludenti.
- Non essere sano di mente e Non stare bene - Se i genitori fanno carezze ai bambini quando stanno male, e non gliene fanno affatto quando stanno bene, ciò è equivalente a dir loro: "Non stare bene”. Se comportamenti da matto sono ricompensati, o se si dà l'esempio di comportamenti folli e non li si corregge, l'esempio stesso si trasforma nel messaggio: "Non essere sano di mente”. Molti figli di schizofrenici hanno difficoltà nell'effettuare un esame di realtà, anche se non sono veramente psicotici. Si comportano da matti, e vengono spesso trattati come se fossero psicotici.
Questo comando spinge a rendere precaria o compromessa la propria condizione psicofisica. Ciò porta a ricoprire il ruolo di vittima.
- Non far parte - Se i genitori si comportano continuamente come se dovessero trovarsi da qualche altra parte, è difficile per il bambino sapere di che cosa fa parte. Egli potrebbe sentire sempre che anche lui non appartiene a nessun posto – anche se è nato in Italia, in Svezia o in America.
Questo comando a non “sentirsi parte di” ha come conseguenza una sorta di fobia nel confronto sociale e nel condividere esperienza di gruppo, negandosi anche la possibilità di aiutare ed essere aiutato, negoziare o sottoscrivere patti, alleanze e valori comuni.
- Non sentire - Questo comando giunge a chi, facendolo proprio, rinuncia ad abbandonarsi a percezioni emotive ed all’intuito, evitando di avvertire il mondo secondo le proprie percezioni sensoriali ed interne. La persona si difende attraverso una corazza fino a, in certi casi, deprivarsi sensorialmente, scollarsi dalla realtà per evitare di rimanere coinvolto o ferito. Come atteggiamento congiunto si potrebbe maturare una radicale attitudine a razionalizzare tutto (disconoscendo le proprie emozioni).
Vediamo adesso le spinte, ognuna delle quali rispecchia il messaggio interiore: "Io vado bene, se..." (mi sforzo, mi sbrigo, compiaccio, sono forte, sono perfetto). Ognuno di noi può esibire, in determinate circostanze, una o più spinte:
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Chi si trova sotto l’influenza del “Sii Perfetto”, cercherà di essere sempre preciso e attento a non commettere alcun errore. Generalizzerà questo comportamento a più situazioni (relazioni, lavoro, famiglia, ecc.) pretendendo molto da sé e, spesso, dagli altri. Stabilirà standard elevati e irrealistici con il rischio di rimanere sempre insoddisfatto.
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Chi è spinto dal “Sii Forte” è convinto che non bisogna mai mostrare fragilità, emozioni, debolezze, perché pericoloso o sconveniente. Il problema è l’assolutizzazione dell’ordine che ci porterà a non chiedere aiuto neanche quando necessario. In questo modo, svaluteremo importanti segnali del nostro corpo e messaggi nascosti dietro le nostre emozioni, perdendo un pezzo importante di autoconsapevolezza.
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“Sforzati” è il comando di chi è convinto che l’unico modo per raggiungere un obiettivo sia impegnarsi fino allo sfinimento. La vita va presa con sacrificio e impegno. Quello che è raggiunto senza “tentare disperatamente” non ha valore. I rischi possono essere il non avere tempo per altro (relazioni, interessi), senso di fatica e insoddisfazione. In genere la meta raggiunta non è mai abbastanza. Spesso “Sforzati” va a braccetto con “Sii Perfetto”.
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“Sbrigati” è il comando interno di chi non si dà mai tempo. Il tempo non è mai sufficiente: ”Devo sbrigarmi perché altrimenti perdo tempo!”. Ma è proprio correndo che si rischia di perdere tempo. Come capire di cosa si ha bisogno se non ci si ferma e ci si ascolta? E’ tipico avere attiva questa spinta quando siamo in ansia. Sbrigandoci, non ci diamo il tempo per pensare e scoprire le nostre risorse per affrontare i problemi.
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La spinta “Compiaci” ci porta ad iper-adattarci a bisogni e desideri dell’altro, svalutando i nostri. Di conseguenza, non sappiamo cosa realmente vogliamo e desideriamo, trovandoci spiazzati quando, ad esempio, una relazione finisce. Cerchiamo negli altri qualcuno che ci indichi cosa fare, perché non sappiamo in che direzione andare. A fatica, riusciamo a dire la nostra. “Disubbidire” diventa difficile.
Riconoscere le nostre spinte, capire dove abbiamo imparato ad usarle e perché: una tale consapevolezza può aiutarci a scoprire modi più equilibrati e sani di vivere.
(11 agosto 2022)