Cambiamenti nel pensiero critico a causa dell'IA generativa

Lavori recenti hanno evidenziato la necessità di supportare il pensiero critico nel lavoro basato sull’IA generativa (GenAI). Questa necessità è motivata principalmente dall’osservazione che i flussi di lavoro assistiti dall’IA tendono a essere soggetti a una "convergenza meccanizzata", ovvero gli utenti con accesso agli strumenti di GenAI producono un insieme meno diversificato di risultati per lo stesso compito, rispetto a quelli che non utilizzano tali strumenti. Questa tendenza alla convergenza riflette una mancanza di giudizio personale, contestualizzato, critico e riflessivo rispetto agli output generati dall’IA, e può quindi essere interpretata come un deterioramento del pensiero critico.

[...]

Il pensiero critico nel lavoro intellettuale [ovvero lavoro che si basa principalmente sull'elaborazione, l'analisi e la gestione delle informazioni, come ricercatori, analisti, consulenti, ingegneri, giornalisti e simili, n.d.t.] coinvolge una serie di attività cognitive, come l'analisi, la sintesi e la valutazione. Abbiamo osservato che l'uso di strumenti di GenAI sposta lo sforzo di pensiero critico percepito dai lavoratori intellettuali in tre modi.

In particolare, per il richiamo e la comprensione, l'attenzione si sposta dalla raccolta di informazioni alla verifica delle stesse. Per l'applicazione, l'enfasi si sposta dalla risoluzione dei problemi all'integrazione delle risposte dell'IA. Infine, per l'analisi, la sintesi e la valutazione, l'impegno si sposta dall'esecuzione del compito alla gestione dello stesso.

L'uso della GenAI nel lavoro intellettuale crea nuovi compiti cognitivi per i lavoratori intellettuali. Il compito dell'integrazione delle risposte ne è un esempio lampante. Le persone che svolgono lavoro intellettuale devono valutare i contenuti generati dall'IA per determinarne la rilevanza e l'applicabilità ai loro compiti specifici, spesso modificando lo stile e il tono per allinearsi allo scopo e al pubblico previsti.

D'altra parte, alcuni compiti cognitivi diventano meno necessari grazie alla GenAI. Ad esempio, la raccolta di informazioni è stata notevolmente ridotta. Gli strumenti GenAI automatizzano il processo di ricerca e selezione delle informazioni rilevanti per il compito, rendendolo meno faticoso per i lavoratori intellettuali. Di conseguenza, il carico cognitivo associato alla ricerca e alla compilazione delle informazioni è diminuito.

Alcuni compiti cognitivi rimangono, ma la loro natura si è evoluta grazie alla GenAI. Uno di questi è la verifica delle informazioni, ovvero l'incrocio dei risultati generati dall'IA con fonti esterne [le quali potrebbero essere a loro volta state generate dall'IA, n.d.t.] e con la propria esperienza per garantire l'accuratezza e l'affidabilità. I lavoratori hanno sempre avuto bisogno di verificare le informazioni con cui lavorano, ma come strumento la GenAI ha i suoi punti di forza e le sue modalità di fallimento [solitamente chiamate "allucinazioni", cioè informazioni completamente false, inventate da zero e restituite dall'IA in maniera assertiva come se fossero reali, n.d.t.] quando si tratta di correttezza, accuratezza e parzialità.

Con la GenAI, i lavoratori intellettuali passano anche dall'esecuzione dei compiti alla supervisione, richiedendo loro di guidare e monitorare l'IA affinché produca risultati di alta qualità - un ruolo che definiamo “amministrazione”. Non è che l'esecuzione sia scomparsa del tutto, né che la supervisione di alto livello di un compito sia un ruolo cognitivo del tutto nuovo, ma c'è un passaggio dal primo al secondo.

A differenza della collaborazione uomo-uomo, in una “collaborazione” uomo-AI, la responsabilità e l'affidabilità del lavoro risiedono ancora nell'utente umano, nonostante il lavoro di produzione materiale sia delegato allo strumento GenAI, il che fa sì che l'“amministrazione” ci sembri una metafora più appropriata per ciò che l'utente umano sta facendo, piuttosto che compagno di squadra, collaboratore o supervisore.

Alla luce di questi cambiamenti, la formazione dei lavoratori intellettuali a pensare in modo critico quando lavorano con GenAI dovrebbe concentrarsi sullo sviluppo di competenze nella verifica delle informazioni, nell'integrazione delle risposte e nella gestione dei compiti. I programmi di formazione dovrebbero sottolineare l'importanza di fare riferimenti incrociati ai risultati dell'IA, di valutare la pertinenza e l'applicabilità dei contenuti generati dall'IA e di perfezionare e guidare continuamente i processi dell'IA. Inoltre, l'attenzione al mantenimento delle competenze di base nella raccolta delle informazioni e nella risoluzione dei problemi aiuterebbe i lavoratori a non dipendere eccessivamente dall'IA.

(mia traduzione, con note personali e aggiunta di formattazione, di parte della sezione 1 e della sezione 6.2 di "The Impact of Generative AI on Critical Thinking", pubblicato sul sito di Microsoft, 14 febbraio 2025, copia del PDF su archive.org)

La gerarchia dei problemi

Dovremmo stare molto attenti prima di parlare delle nostre sofferenze. Quando ciascuno di noi parla della propria sofferenza, definendola come "mia", si dovrebbe rendere conto che la stessa sofferenza ce l'hanno altri miliardi di persone.

Dare la giusta importanza a ciascun problema è il primo passo per il quieto vivere:

1. I problemi che la tecnologia può risolvere sono molto piccoli

2. I problemi psicologici sono un po' più grandi, ma ancora piccoli

3. I problemi politici ed economici sono davvero grandi, ma ancora gestibili

4. I problemi filosofici (soprattutto quelli relativi al “retto pensiero”) sono infiniti

Quando non c'è la pratica del retto pensiero, così come insegnata dal Budda, tutti (o quasi tutti) gli altri problemi ne conseguono. Senza un retto pensiero siamo particolarmente abili ad ingigantire i problemi, a sommare problemi su problemi, come nel caso di una persona che, nel tentare di affrontare il disordine della propria casa, continua ad ammassare oggetti su oggetti in un soqquadro che cresce sempre di più, invece di iniziare a ripulire, a gettare via, a liberare spazio, a rinunciare ai propri attaccamenti, a tutto ciò che è semplicemente inutile. In tantissime situazioni, la casa a soqquadro rappresenta la nostra mente e le nostre relazioni.

Retto pensiero significa innanzitutto che noi siamo esseri relazionali, predisposti dal concepimento in poi per buone relazioni con gli altri.

Il retto pensiero si riferisce allo sviluppo di un'attitudine mentale basata su intenzioni pure e benefiche, libere da attaccamento, avversione e ignoranza. Dovremmo comprendere che la brama, cioè il desiderio insaziabile, è una causa primaria di sofferenza. La benevolenza è parte del retto pensiero, è l'opposto dell'odio e della rabbia, significa sviluppare amorevolezza e compassione verso tutti gli esseri viventi.

Retto pensiero significa anche non violenza, cioè la rinuncia alla crudeltà, alla sopraffazione dell'uomo sull'uomo, o dell'uomo sugli animali e sulla natura. Implica la volontà di non nuocere agli altri, sia fisicamente che verbalmente o mentalmente.

Il retto pensiero dovrebbe essere la guida delle nostre parole e delle nostre azioni. Più i nostri pensieri saranno puri, più le nostre parole e azioni lo saranno, portandoci ad una vita più armoniosa.

Nell'immaginario comune, le preoccupazioni etiche e filosofiche sono all'ultimo posto, mentre quelle economiche e lavorative sono al primo posto. Ciò è pienamente comprensibile, ma guardando le cose dalla prospettiva della gerarchia dei problemi che ho proposto, possiamo vivere più consapevolmente e dare il giusto valore alle inevitabili difficoltà della vita.

Quanto alla tecnologia, il suo ruolo nelle nostre vite spesso è frutto di condizionamenti e pressioni sociali, che la rendono sostanzialmente obbligatoria. Ciò però non significa che risolva i nostri problemi, casomai potrebbe crearne molti di nuovi o spostare problemi già esistenti ad un livello diverso.

Tutti noi nasciamo in un contesto ambientale estremamente narcisista, carico di emozioni negative e di atteggiamenti distruttivi che vanno a formare e a determinare i nostri pensieri. Ciascuno di noi infatti è il frutto di cause e condizionamenti. Con un rispettoso lavoro su noi stessi, però, possiamo educare i nostri pensieri e le nostre emozioni (e le azioni che ne conseguono) in una direzione che ci faccia stare meglio, vivere meglio, poi tutto il resto verrà di conseguenza.

Potrebbe sembrare strano ai più, infatti, ma le emozioni non sono predeterminate o interamente innate: in gran parte, il modo in cui le viviamo nasce dall’educazione e dai condizionamenti. Gurdjieff, con la sua "metafora della carrozza", offre un’immagine molto chiara di come l’essere umano spesso rimanga intrappolato in uno stato di inconsapevolezza, influenzato da forze esterne che lo distolgono da una direzione autentica:

Metafora della carrozza di Gurdjieff

Secondo questa metafora, la carrozza è il corpo fisico, il veicolo di cui disponiamo per muoverci nel mondo. I cavalli, che trainano la carrozza, rappresentano le nostre emozioni: forze potenti, spesso incontrollate, che ci trascinano avanti o ci spingono fuori strada se non sappiamo come guidarle. A tenere le redini c’è il cocchiere, cioè la mente: è lui che decide la direzione e impartisce gli ordini; tuttavia, se il cocchiere non sa dove andare o è confuso, finisce per farsi trascinare dai cavalli. Infine, nella carrozza è seduto il passeggero, la nostra anima o coscienza, che dovrebbe scegliere la meta e indicare al cocchiere dove dirigersi. Il problema è che, per la maggior parte del tempo, questo passeggero dorme.

L'uomo vive molto spesso in una sorta di sonno interiore, ingannato dalla sensazione di essere sveglio e consapevole. In realtà siamo perlopiù in balia di pensieri ed emozioni automatiche, che ci portano a ripetere schemi abituali e limitanti. Così, crediamo di agire liberamente, ma ci muoviamo su strade già tracciate: la mente (cocchiere) segue programmi mentali incisi nell’inconscio, mentre le emozioni (cavalli) corrono senza un vero scopo, rispondendo a condizionamenti passati. Il corpo (carrozza), a sua volta, si adegua a questi impulsi e finisce per spostarsi senza una direzione precisa.

Il passo fondamentale è risvegliare il passeggero, cioè la nostra anima-coscienza, affinché torni a dare le giuste istruzioni al cocchiere (la mente) e, di conseguenza, ai cavalli (le emozioni). Solo così possiamo riprendere in mano le redini e scegliere consapevolmente dove andare. Risvegliarsi significa imparare a osservare i propri pensieri e le proprie reazioni emotive, comprendendo quanto esse siano frutto di automatismi e credenze inconsapevoli. In pratica, si tratta di passare dall’essere “pensati” dall’ambiente esterno e dall’abitudine, all’essere davvero “pensanti”.

Riconoscere la natura condizionata delle emozioni non implica negarle o reprimerle, ma accorgersi che esse possono e devono essere guidate. Come i cavalli in una carrozza, le emozioni sono un’enorme fonte di energia: se le lasciamo scatenare senza controllo, rischiano di portarci alla deriva; se invece impariamo a comunicare con loro – ossia a riconoscerle e a gestirle in modo consapevole – diventano nostre alleate, capaci di spingerci verso traguardi più elevati.

Infine, risvegliarsi significa anche capire di non essere separati dal mondo, ma di avere la responsabilità di scegliere come rispondere alle circostanze. Smettiamo di vivere in un "pilota automatico" che, come un cocchiere confuso, gira in tondo ripetendo gli stessi errori o percorrendo strade note ma insoddisfacenti. Al contrario, ci riappropriamo della nostra direzione se impariamo a prendere decisioni in armonia con ciò che davvero siamo.

Ci saranno sempre momenti piacevoli e altri brutti, periodi di maggiore fortuna e altri di disgrazia, ma con il retto pensiero, che include l'anima al comando del cocchio e la costruzione di relazioni belle con il prossimo, possiamo affrontare tutto.

(13 febbraio 2025)

L’unico libero arbitrio?

Il libero arbitrio, nella sua essenza, presume che un essere con coscienza, in grado di intendere e di volere, faccia una scelta tra più alternative disponibili. Tale scelta non dovrebbe essere determinata da pressioni sociali, da inclinazioni o necessità interiori, e nemmeno forzata da leggi o ricatti, altrimenti non sarebbe “libera”. Non potrebbe nemmeno essere una reazione automatica o indotta, ma il frutto di un pensiero consapevole e giudicante, altrimenti, più che di “arbitrio”, parleremmo di un automatismo.

Se ammettessimo questa definizione, sarebbe facile accorgersi che il libero arbitrio non può esistere.

Estendendo l’analisi, mi sorge il sospetto che il vero problema non sia la natura del libero arbitrio, ma il soggetto a cui lo si vorrebbe applicare. Nessuno di noi esiste come entità indipendente da ciò che è percepito come “altro da sé”. Anzi, ciascuno di noi, in ogni istante, è il risultato precario e temporaneo di una concatenazione insondabile di cause e condizionamenti. L’intenzione consapevole è come una barca in un mare tempestoso: se riuscisse a galleggiare senza rompersi e senza affondare, sarebbe già un miracolo. Se poi fosse così potente, in una simile violenza di cause e condizionamenti, non solo da non andare a picco, ma persino da seguire una traiettoria desiderata, otterremmo qualcosa di straordinario, un vero “libero arbitrio”.

Il mio invito è quello di impegnarci a fare in modo che quella barca che naviga tranquilla, in mezzo al caos e alla disperazione imposti dalla vita, sia la nostra mente. Questo è l’unico libero arbitrio possibile, cioè rimanere in pace nonostante le cause e i condizionamenti. Giorno per giorno, approfondiamo questa pace.

(5 febbraio 2025)

Rinascita, vacuità e il flusso degli aggregati nel Buddismo

Avvertenza: per approfondire i termini sanscriti e pali, suggerisco l'ottima Encyclopedia of Buddhism


Sebbene "rinascita" e "reincarnazione" possano sembrare sinonimi, nel contesto buddista hanno significati sottilmente diversi.

"Reincarnazione" è un termine più comune nelle tradizioni induiste e in altre religioni, dove si crede che un’anima individuale e permanente passi da un corpo a un altro attraverso le vite. In altre parole, c'è un’idea di un’identità fissa e permanente che si reincarna.

La "rinascita", nel buddismo, è più complessa, perché non si fonda sull’idea di un’anima individuale e immutabile che trasmigra da un corpo all’altro. Al contrario, poggia sulla visione della vacuità e del non-sé (anatta in pali, anātman in sanscrito), secondo cui nulla esiste in maniera autonoma, indipendente e permanente. È per questo che, pur riconoscendo il fenomeno della rinascita, il buddismo afferma che non vi è un “qualcuno” che si reincarna in senso sostanziale. Tale prospettiva, elaborata e chiarita in modo decisivo da grandi maestri come Nagarjuna, sottolinea la totale interdipendenza di tutti i fenomeni e l’assenza di un’entità fissa o sostanziale che perduri di vita in vita.

Nel buddismo, la morte e la nascita sono considerate due poli di un processo continuo regolato dal principio di causa ed effetto, in cui il karma, ovvero le azioni intenzionali di un individuo, determina le sue future esperienze.

Alla morte, il complesso psicofisico di cui è costituita l’esistenza di un individuo, formato dai cosiddetti “cinque aggregati” (forma fisica, sensazioni, percezioni, formazioni mentali, coscienza), si disgrega.

I cinque aggregati (skandha) rappresentano gli elementi costitutivi dell’esistenza umana e, nel loro insieme, descrivono come sorge l’illusione di un “io” separato. Primo è l’aggregato della forma fisica (rūpa), che comprende il corpo e i suoi aspetti materiali. Secondo è quello delle sensazioni (vedanā), ossia le esperienze piacevoli, spiacevoli o neutre che emergono nel contatto con il mondo. Terzo è l’aggregato della percezione (saṃjñā), attraverso cui si riconoscono e si etichettano gli oggetti dell’esperienza. Quarto è quello delle formazioni mentali (saṃskāra), ovvero le abitudini, le spinte volitive, le intenzioni e i condizionamenti della mente. Quinto è l’aggregato della coscienza (vijñāna), che registra e conosce i fenomeni presenti. Questi cinque aspetti non sono entità statiche, ma processi in costante trasformazione, che interagiscono tra loro e con le circostanze esterne.

Non è corretto immaginare che un’anima si stacchi dal corpo e voli altrove al momento della morte. Piuttosto, si dissolve l’assetto specifico degli aggregati che costituivano l’individuo in quella particolare vita, mentre rimane un flusso di condizionamenti, tendenze e risultati karmici in attesa di manifestarsi.

Questa transizione non implica l’esistenza di un “sé” incapsulato o separato, bensì la continuità di impulsi ed energie che, una volta trovate le condizioni adatte, daranno origine a una nuova combinazione di aggregati, ossia a una nuova vita. È come la fiamma di una candela che ne accende un’altra: la seconda fiamma non è la stessa della prima, ma dipende causalmente dalla prima. Ciò che si trasmette è il fuoco, non un nucleo identico e immutabile. Ma il fuoco della rinascita ha bisogno di nutrimento, di "brama":

“Maestro Gotama, quando un essere ha deposto questo corpo ma non è ancora rinato in un altro corpo, cosa dichiara il Maestro Gotama essere il suo nutrimento in quell’occasione?”
 
“Quando, Vaccha, un essere ha deposto questo corpo ma non è ancora rinato in un altro corpo, io dichiaro che è alimentato dalla brama. Perché in quell’occasione la brama è il suo nutrimento.”
 
(tratto da: SN 44.9: Kutūhalasālā Sutta)

Nel buddismo, taṇhā (pali) o tṛṣṇā (sanscrito) è comunemente tradotta come brama, sete o desiderio smodato. È uno degli elementi fondamentali della Seconda Nobile Verità, ovvero l'origine della sofferenza (dukkha), ed è considerata il principale motore del samsara (il ciclo di nascita, morte e rinascita).

La brama è di tre tipi principali:

  • Kāma-taṇhā → il desiderio di piaceri sensoriali (piacere visivo, uditivo, gustativo, tattile, mentale).
  • Bhava-taṇhā → il desiderio di esistenza, di diventare qualcosa o qualcuno (attaccamento alla vita, alla personalità, al sé).
  • Vibhava-taṇhā → il desiderio di annichilimento o non-esistenza (il rifiuto dell’esistenza, il desiderio di cessare di esistere come fuga dalla sofferenza).

La brama è strettamente legata al concetto di attaccamento (upādāna) e, secondo il paticca-samuppāda (origine dipendente), porta alla rinascita.

Nel Kutūhalasālā Sutta (SN 44.9) precedentemente citato, il Budda spiega a Vacchagotta che tra la morte e la rinascita di un essere, la sua "nutrizione" è la brama. Questo indica che la forza che spinge la coscienza a rinascere è il desiderio di continuare ad esistere e di ottenere nuove esperienze. In altre parole, anche dopo la morte, se non c'è stato un completo abbandono della brama, la coscienza, condizionata dal karma, cercherà una nuova forma di esistenza.

Quando un essere elimina completamente la brama, raggiunge il Nibbāna (o Nirvana), uno stato in cui non vi è più continuazione del ciclo di rinascite. Questo è il significato della "liberazione" (mokṣa) nel buddismo: non rinascere più perché non c’è più nulla che "spinga" la coscienza a cercare un nuovo corpo.

L’Arhat è colui che si concentra sulla propria liberazione personale, seguendo l'insegnamento del Budda per mettere fine al proprio soffrire e non rinascere più.

Il Mahāyāna, sviluppatosi a partire dal I secolo a.C., considera l’ideale dell’Arhat "incompleto" o "inferiore" rispetto all’ideale del Bodhisattva. Il Bodhisattva è un essere che ha rinunciato alla propria entrata nel Nibbāna definitivo per rimanere nel saṃsāra (ciclo di nascita e morte) e aiutare tutti gli esseri senzienti a liberarsi dalla sofferenza.

Nel Mahāyāna, il Bodhisattva è colui che sviluppa la Bodhichitta, il desiderio compassionevole di liberare tutti gli esseri senzienti. Egli pratica le Sei Perfezioni (Pāramitā):

  • Dāna (generosità) – aiutare gli altri senza aspettarsi nulla in cambio.
  • Śīla (disciplina morale) – osservare una condotta etica impeccabile.
  • Kṣānti (pazienza) – accettare le difficoltà senza reagire con rabbia.
  • Vīrya (energia, sforzo gioioso) – impegnarsi costantemente nel Dharma.
  • Dhyāna (meditazione) – coltivare la concentrazione e la saggezza.
  • Prajñā (saggezza trascendentale) – comprendere la vacuità (śūnyatā).

L'ideale del Bodhisattva nel Mahāyāna non nega la mokṣa (liberazione), ma la trasforma in un cammino altruistico. Il Bodhisattva non fugge dal mondo ponendo fine alle sue rinascite, ma si immerge in esso per aiutare tutti gli esseri a risvegliarsi. Questa è una differenza chiave rispetto al modello più individualistico dell’Arhat.

Ricapitolando, quando parliamo di “rinascita” non facciamo riferimento alla sopravvivenza di un’anima eterna, bensì a un continuum di cause e condizioni che, nel momento della morte, trasmette i suoi effetti a un nuovo insieme di aggregati, dando vita a una nuova esistenza. Da questa prospettiva, è corretto affermare che, secondo la visione di Nagarjuna, esistono la rinascita e il karma, ma non esiste un soggetto permanente che si reincarna.

L’assenza di un sé sostanziale non esclude però la responsabilità morale, poiché il flusso di azioni, intenzioni e conseguenze non va perduto: ogni atto, compiuto con una certa motivazione, getta i semi per esperienze future, che maturano quando le condizioni diventano favorevoli. Questo è il senso profondo della legge karmica: l’io che agisce oggi non è lo stesso che raccoglierà i frutti, ma neppure del tutto diverso. Vi è una continuità che non coincide con un “qualcuno”, ma con un flusso causale interdipendente.

All’interno delle narrazioni tradizionali sul Budda, troviamo numerosi racconti di vite precedenti: nel caso di Shakyamuni, si racconta ad esempio della sua esistenza come “Mai Sprezzante”, in cui coltivò la qualità della riverenza verso tutti gli esseri, anticipando quella profonda compassione che avrebbe poi perfezionato come Budda. Tali episodi non vogliono avallare la credenza in un’anima trasmigrante, bensì illustrare l’importanza di un lungo percorso di purificazione e pratica, volto a maturare la saggezza e la compassione necessarie all’illuminazione. La storia di “Mai Sprezzante” e altre simili intendono mostrare come determinati atteggiamenti, portati avanti per molte vite, gettino le basi per il risveglio.

Il processo di morte e rinascita, specialmente in alcune scuole del buddismo come il Vajrayana (buddismo tantrico) tibetano, viene descritto con grande dettaglio. Si parla di stati intermedi, comunemente chiamati “bardo”, in cui la coscienza, non più vincolata a un corpo fisico, sperimenta varie visioni e fenomeni mentali che riflettono la propria natura interiore. Anche in questo contesto, tuttavia, l’insegnamento di fondo rimane lo stesso: non vi è un sé permanente, ma un flusso di tendenze e percezioni che emergono e svaniscono a seconda delle cause e delle condizioni. La funzione principale di questi insegnamenti più analitici consiste nell’aiutare i praticanti a prepararsi al momento della morte e a orientare la mente in modo virtuoso, affinché le condizioni per la rinascita siano il più possibile favorevoli al cammino verso l’illuminazione.

Prima di concludere, vorrei riflettere sul significato della parola "coscienza" nel buddismo (in sanscrito vijñāna): non indica un’entità, ma un processo dinamico. È come un fiume che scorre: l’acqua cambia continuamente, ma il flusso mantiene una coerenza temporanea. Alla morte, l’ultimo momento di coscienza (maranāsanna-vijñāna) funge da ponte karmico verso una nuova esistenza, senza che nulla di sostanziale "passi" da un corpo all’altro.

Ricapitolando, il buddismo nega l’anima (anātman) ma ammette la rinascita (saṃsāra). C'è la rinascita, ma non c'è un "soggetto" permanente che rinasce. Non esiste un "io" fisso che rinasce, però non tutto svanisce nel nulla: c’è una continuità di cause, condizioni e risultati.

(2 febbraio 2025)

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