Si veda anche: Proposta di Pace 2017 - La solidarietà globale dei giovani annuncia l'alba di un'era di speranza
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(registrazione realizzata da "Buddismo e Società")
Le proposte di pace - http://www.sgi-italia.org/approfondimenti/PropostePace.php
Dal 1983, il 26 gennaio di ogni anno – in commemorazione del giorno della fondazione della Soka Gakkai Internazionale – Daisaku Ikeda invia una “Proposta di Pace” alle Nazioni Unite e a personalità di tutto il mondo.
Al centro del suo pensiero si trovano riflessioni sulla pace, sulla convivenza degli esseri umani nel pianeta, sul rispetto per l’ambiente e per ogni forma di vita, sull’abolizione delle armi nucleari, della guerra e della violenza, sul rafforzamento delle Nazioni Unite.
Ikeda pone una particolare attenzione ai processi educativi: strumenti fondamentali per la formazione di cittadini che sentano il mondo intero come loro casa e siano preparati per quella che Ikeda definisce “la diplomazia della gente comune”.
Gli scritti prendono in esame tutti i problemi che l’umanità si trova ad affrontare e mettono in risalto – oltre alle possibili soluzioni – anche le basi filosofiche che possono sostenere e promuovere un radicale cambiamento.
(Su questo blog è presente anche la Proposta di Pace 2015).
Fonte originale: Buddismo e Società n.176 - maggio giugno 2016 (link all'articolo originale)
Autorizzazione alla ripubblicazione nel presente blog concessa dall'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai
Proposta di pace 2016
di Daisaku Ikeda
Il rispetto universale della dignità umana: la grande strada che porta alla pace
Il mondo attuale è afflitto da crisi che minacciano ferocemente la vita e la dignità di un gran numero di persone. L’obiettivo primario del nostro movimento è costruire una rete di cittadini impegnati a proteggere il diritto di tutti a vivere felici, liberando il mondo da inutili sofferenze
Sono trascorsi ormai trentacinque anni da quando la Soka Gakkai Internazionale (Sgi) ha intrapreso le sue attività a sostegno delle Nazioni Unite come organizzazione non governativa accreditata. Le Nazioni Unite, nate dalla dolorosa esperienza dei due conflitti mondiali, hanno come obiettivo dichiarato la costruzione di un mondo libero dal flagello della guerra nel quale i diritti umani siano rispettati e non esistano discriminazioni e oppressioni. Questa visione è profondamente in sintonia con i valori fondamentali della pace, dell’eguaglianza e della compassione che noi come buddisti abbracciamo.
Tutte le persone hanno il diritto di vivere felici. L’obiettivo primario del nostro movimento è costruire ed espandere un sodalizio di cittadini comuni votati a proteggere tale diritto per liberare il mondo da inutili sofferenze. Le nostre attività a sostegno dell’Onu ne sono l’espressione naturale e necessaria.
Il mondo attuale è afflitto da crisi che rappresentano una feroce minaccia alla vita e alla dignità di un gran numero di persone. Abbiamo assistito a un’esplosione del numero di rifugiati e sfollati interni in tutto il mondo, specialmente in Medio Oriente dove perdura il conflitto siriano. A livello globale qualcosa come sessanta milioni di persone sono state attualmente costrette ad abbandonare le loro abitazioni a causa di conflitti armati e persecuzioni.1
Inoltre, in meno di un anno, più di cento milioni di persone sono state colpite da disastri naturali di cui quasi il novanta per cento legati al clima, come inondazioni e violenti temporali, e ciò suscita preoccupazione riguardo all’impatto crescente del riscaldamento globale.2
In questo scenario si terrà il prossimo maggio a Istanbul, in Turchia, il Summit umanitario mondiale, la prima conferenza di questo genere organizzata dall’Onu. Le consultazioni che si stanno svolgendo in preparazione del summit sono caratterizzate da una sensazione crescente di allarme di fronte alla sfida umanitaria di portata e vastità senza precedenti.
Dunque, oltre all’immediato cessate il fuoco, è cruciale trovare una strada per migliorare le condizioni di vita di così tante persone.
Le crisi umanitarie, come lo sfollamento forzato dovuto ai conflitti e ai disastri naturali, sono da lungo tempo oggetto di preoccupazione e di impegno da parte della Sgi. I nostri rappresentanti parteciperanno al summit di Istanbul dove ci auspichiamo di contribuire al dibattito sul ruolo delle Organizzazioni basate sulla fede (Fbo) nei soccorsi umanitari e su come costruire solidarietà all’interno della società civile.
La Sgi ha iniziato la sua attività di organizzazione non governativa (Ong) con funzione consultiva all’interno del Dipartimento di informazione pubblica (Dpi) dell’Onu nel 1981 ed è stata registrata come Ong appartenente al Consiglio economico e sociale (Ecosoc) nel 1983, l’anno in cui ho pubblicato la prima Proposta di pace. Da allora le nostre attività si sono concentrate sui temi della pace e del disarmo, degli aiuti umanitari, dell’educazione ai diritti umani e dello sviluppo sostenibile.
In questo contesto desidero soffermarmi sugli elementi fondamentali dell’approccio che abbiamo scelto nel sostenere l’operato dell’Onu e offrire alcuni suggerimenti e prospettive sul ruolo che la società civile può svolgere nell’affrontare i grandi problemi globali come le crisi umanitarie.
La corrente profonda dell’umanità
“Non lasciare indietro nessuno” è il tema chiave degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Alla luce del numero crescente di rifugiati nel mondo non possiamo puntare a un futuro migliore senza affrontare direttamente le sfide in cui queste persone vulnerabili sono coinvolte
Nel settembre 2015 le Nazioni Unite hanno elaborato una nuova piattaforma che fa seguito a quella degli Obiettivi di sviluppo del millennio (Mdg) adottata nel 2000 allo scopo di alleviare problemi come la povertà e la fame. Si tratta degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg), stabiliti nel documento Trasformare il nostro mondo: l’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Oltre a proseguire l’opera iniziata con gli Mdg, i nuovi obiettivi cercano di rispondere in maniera esauriente a questioni critiche come il cambiamento climatico e la riduzione del rischio di catastrofi, da ora al 2030. Forse ciò che colpisce maggiormente è la ferma enunciazione della determinazione a non lasciare indietro nessuno, che trova chiara espressione nel primissimo obiettivo: porre fine ovunque alla povertà in tutte le sue forme. È un progresso significativo rispetto agli Mdg, che sono riusciti a dimezzare la povertà estrema dichiarando che nessuno può essere abbandonato al proprio destino.
L’Agenda 2030 pone l’attenzione e l’accento sull’importanza dell’empowerment di gruppi particolarmente vulnerabili come i bambini, gli anziani, le persone con disabilità, i rifugiati e i migranti internazionali. Chiede il rafforzamento di un sostegno mirato specificamente ai bisogni dei più indifesi e al tempo stesso un miglioramento delle condizioni di vita delle persone che si trovano nelle aree colpite da emergenze umanitarie o dal terrorismo.
Apprezzo particolarmente che negli Sdg sia stata attribuita un’importanza centrale al principio di non lasciare indietro nessuno, un desiderio che nutrivo da tempo. Ho anche richiesto che gli Sdg includano la tutela della dignità e dei diritti umani fondamentali degli sfollati e dei migranti internazionali. Alla luce del numero crescente di rifugiati nel mondo non possiamo puntare a un futuro migliore senza affrontare direttamente le sfide in cui queste persone vulnerabili sono coinvolte. In tal senso una delle prime opportunità per incentivare l’applicazione degli Sdg sarà proprio il Summit umanitario mondiale, dove le questioni legate alla crisi dei rifugiati saranno al centro del dibattito.
Nei cinque anni dall’inizio del conflitto in Siria più di duecentomila persone hanno perso la vita e quasi metà della popolazione è stata costretta a lasciare la propria casa e la propria comunità. Niente è stato risparmiato dalle devastazioni causate dalla guerra: case, scuole, aziende e ospedali sono stati distrutti, i centri di accoglienza sono stati attaccati, le autostrade chiuse, con il conseguente aumento delle difficoltà a procurarsi generi alimentari e a far arrivare i soccorsi. Così gran parte dei siriani, che prima della guerra erano stati fra i popoli più accoglienti nei confronti dei rifugiati, ora si trovano costretti a vivere questa condizione personalmente. Un gran numero di loro, in fuga da un conflitto che non dà segni di voler cessare, ha attraversato i confini e ora è nuovamente esposto a un’ulteriore serie di pericoli. Molti bambini sono stati separati dalle famiglie, mentre un clima insolitamente freddo in Medio Oriente e i falliti tentativi di navigare sul Mediterraneo a bordo di fragili imbarcazioni hanno mietuto innumerevoli vite.
«Vivere da rifugiato è come essere imprigionato nelle sabbie mobili: ogni volta che ti muovi, affondi ancora di più».3 L’ex Alto commissario dell’Onu per i rifugiati António Guterres ha citato queste parole di un padre fuggito dalla Siria per illustrare le atroci condizioni in cui si trovano molte famiglie di rifugiati. Per un indicibile numero di persone, costrette a vivere in condizioni di estrema deprivazione e incertezza, la fuga non rappresenta certo una sicurezza.
Sia i paesi africani sia quelli asiatici hanno visto crescere senza sosta il numero dei rifugiati o sfollati interni. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati (Unhcr) è in prima linea nel coordinamento delle attività di soccorso e tuttavia restano tantissime le persone che hanno un disperato bisogno di aiuto per poter sopravvivere.
L’arrivo in Europa di un gran numero di rifugiati e migranti ha suscitato reazioni di vario tipo. Mi hanno commosso le parole di un abitante di una cittadina costiera italiana riferite dall’Inter Press Service (Ips): «Sono persone in carne e ossa, come noi. Non possiamo rimanere a guardarle annegare».4
L’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani afferma: «Ogni individuo ha il diritto di chiedere ad altri paesi asilo dalle persecuzioni e di ottenerlo». Ma ancor più fondamentale è l’empatia che ha dimostrato quel cittadino italiano; questa forma di empatia, che esiste indipendentemente da qualsiasi norma codificata dei diritti umani, è la luce dell’umanità che può risplendere in ogni luogo e in ogni situazione.
Questo è stato il tema centrale della mostra Il coraggio di ricordare: l’Olocausto 1939-1945. L’eroismo di Anna Frank e di Chiune Sugihara, organizzata dalla Soka University e dal centro Simon Wiesenthal in collaborazione con il Comitato per la pace della Soka Gakkai, che si è tenuta a Tokyo nell’ottobre scorso.
L’esposizione racconta la vita e le lotte di Anna Frank (1929-1945), la giovane ebrea che si rifiutò di perdere la speranza anche mentre viveva nascosta dai nazisti ad Amsterdam, e le vicende del diplomatico giapponese Chiune Sugihara (1900-1986), che trasgredì agli ordini del Ministero degli esteri giapponese rilasciando visti di transito per oltre seimila rifugiati ebrei. Come testimoniano i documenti storici, mentre in Europa si intensificavano le persecuzioni contro gli ebrei, molti diplomatici di vari paesi, spesso contravvenendo alla politica ufficiale, obbedirono ai dettami della propria coscienza e aiutarono i rifugiati a salvarsi.
E ci furono anche tanti individui, come le donne che rischiarono la vita per aiutare la famiglia Frank quando era nascosta, che crearono una rete per la protezione dei rifugiati ebrei. Credo che gli sforzi invisibili di queste persone comuni in tanti paesi rappresentino un’altra espressione della vera luce della nostra umanità che persiste intatta in profondità, sotto la superficie degli eventi storici.
Nel mondo attuale ci sono persone che accolgono l’arrivo improvviso dei rifugiati nelle loro comunità con profonda empatia per tutto ciò che questi hanno dovuto sopportare, e tendono spontaneamente una mano per aiutarli e dar loro il benvenuto. Per gente costretta a fuggire dalla propria casa ognuno di questi atti è un’importante fonte di incoraggiamento, un’insostituibile ancora di salvezza.
Anche un gesto apparentemente piccolo può avere un impatto significativo e forse anche decisivo nella vita di una persona. Rispondendo alle voci critiche secondo le quali era impossibile salvare tutti, il Mahatma Gandhi (1896-1948) disse a suo nipote: «In tali occasioni, il punto è toccare la vita di un individuo. Non possiamo prenderci cura di migliaia di persone, ma se riusciamo a toccare la vita di un individuo e a salvarla, quello è il cambiamento più grande che possiamo realizzare».5
Le basi dell’azione altruista
L’altruismo che il Buddismo insegna non ha origine dalla negazione di sé. La consapevolezza del dolore inevitabile nella nostra stessa esistenza può farci aprire all’universalità dell’angoscia umana. Ciò che dà valore alla nostra umanità è il rifiuto di liquidare qualsiasi forma di sofferenza sostenendo che non ha niente a che vedere con noi
Nella convinzione di Gandhi risuona lo stesso spirito che anima non soltanto la pratica religiosa della Sgi ma anche il nostro sostegno all’Onu e le altre nostre attività in campo sociale: la determinazione di dare valore a ogni singola persona. Il fondamento del Buddismo è la fede nella dignità intrinseca di tutte le persone, qualcosa che, come indica il seguente passo degli insegnamenti di Shakyamuni, va risvegliato con un processo di riflessione su se stessi, di presa di coscienza di sé: «Tutti tremano davanti alla violenza, tutti hanno cara la vita. Se ci mettiamo al posto di un altro, non dovremmo uccidere né indurre qualcuno a farlo».6
In altre parole, il Buddismo assume come punti di partenza l’impulso umano universale a evitare la sofferenza e l’innegabile senso del valore unico del nostro stesso essere. Poi ci porta a comprendere che anche gli altri devono sentire nello stesso modo. Nella misura in cui siamo in grado di metterci al posto degli altri possiamo avere una sensazione tangibile della realtà della loro sofferenza. Shakyamuni esorta a vedere il mondo con questi occhi empatici e scegliere così un modo di vivere che protegga tutte le persone dalla violenza e dalla discriminazione.
L’altruismo che il Buddismo insegna non ha origine dalla negazione di sé. È la consapevolezza del dolore inevitabile nella nostra stessa esistenza e dell’attaccamento al percorso di vita che ci ha condotti fino a questo punto che può farci aprire all’universalità dell’angoscia umana, al di là di tutte le differenze di nazionalità e di etnia. È il nostro rifiuto di liquidare qualsiasi forma di sofferenza dicendo che non ha niente a che vedere con noi ciò che dà veramente lustro alla nostra umanità.
Secondo quanto afferma il filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1969) nel suo ritratto di Shakyamuni, quando il Budda dichiarò: «In un mondo sempre più oscuro percuoterò il tamburo immortale»7 era mosso dalla fiducia che il modo per parlare con tutti è parlare con ciascun individuo.8
Come eredi attuali di questo spirito, i membri della Sgi hanno lavorato per condividere empaticamente le sofferenze e le gioie delle persone e per avanzare insieme in una rete sempre più ampia di legami da vita a vita.
Allo spirito buddista di apprezzare profondamente ogni individuo si può aggiungere la convinzione che ogni persona, indipendentemente dal tipo di vita che sta conducendo e dalla sua condizione attuale, ha la capacità di illuminare il luogo in cui si trova proprio adesso. Noi ci impegniamo a non giudicare il valore o il potenziale di una persona sulla base dell’aspetto momentaneo e ci concentriamo piuttosto sulla dignità inerente a ciascun individuo. In tal modo cerchiamo di ispirarci reciprocamente a vivere con speranza guardando avanti, immersi nella luce di questa dignità.
Il Buddismo ci incoraggia a trarre lezioni e forza dalle difficoltà che incontriamo nella vita, in modo da poter realizzare la nostra felicità personale e al tempo stesso infondere coraggio nelle persone intorno a noi e nella società nel suo complesso. Nichiren (1222-1282), il monaco buddista del tredicesimo secolo i cui insegnamenti sono alla base delle attività della Sgi, sottolineava che il principio per cui tutti gli esseri viventi possono conseguire la Buddità – cioè che tutte le persone possiedono una dignità interiore e hanno illimitate possibilità di realizzazione – costituisce l’essenza del Sutra del Loto di Shakyamuni e il cuore stesso della dottrina buddista.
Il Sutra del Loto illustra questo concetto con una serie di scene che raffigurano Shakyamuni e altre persone. Di Shariputra, un discepolo famoso per la sua comprensione intellettuale degli insegnamenti del Budda, si dice che la sua mente «danzò di gioia»9 quando percepì pienamente la dignità della sua vita. Allo stesso modo, vedendo Shariputra che esprimeva con gioia il suo voto e sentendo Shakyamuni che lo incoraggiava con calore, anche altri quattro discepoli provarono una grande gioia ed espressero la loro felicità di aver incontrato questo gioiello inestimabile «senza cercarlo»10 narrando la parabola dell’uomo ricco e del figlio povero.
Via via che queste narrazioni si susseguono, un gran numero di bodhisattva dichiara la sua promessa di adoperarsi per la felicità delle persone superando qualsiasi difficoltà. Infine, man mano che il Sutra del Loto si concentra sempre di più sulla questione di chi avrebbe portato avanti la pratica del Buddismo dopo la morte di Shakyamuni, una vasta assemblea di bodhisattva emerge dalla terra e promette solennemente di farlo in ogni luogo e in ogni tempo.
Queste scene culminano in un coro di promesse solenni mentre sempre più discepoli del Budda, attraverso l’incontro con i suoi insegnamenti, si risvegliano con gioia alla dignità fondamentale della loro vita. E riconoscendo quella stessa dignità negli altri, uno dopo l’altro esprimono il voto di far emergere la luce interiore della propria vita e di quella altrui per illuminare la società umana.
L’esempio più famoso è quello di una fanciulla, la figlia del re drago, che fa voto di salvare gli altri attraverso gli insegnamenti del Sutra del Loto. Le sue azioni, in perfetto accordo con il suo voto, suscitano gioia e lodi piene di stupore nel cuore di tutti gli astanti. E in questo vortice di gioia un numero illimitato di persone si risveglia al valore e alla dignità fondamentale intrinseca della propria vita. Questa bambina, che secondo la concezione popolare dell’epoca era quanto di più lontano potesse esserci dalla possibilità di ottenere l’Illuminazione, mantenendo fede alla sua promessa mette in moto una reazione a catena di gioia, dando così una dimostrazione toccante del principio che tutti gli esseri viventi possono conseguire la Buddità. Con questo esempio in mente Nichiren incoraggiava le sue discepole in lotta con le difficoltà della vita a «seguire le orme della figlia del re drago».11
Il Giappone del tredicesimo secolo era un luogo funestato da disastri naturali e conflitti armati. Nello sforzo di salvare le persone comuni dalla sofferenza, Nichiren fece rimostranze alle autorità, atti che gli procurarono ripetute persecuzioni. Anche in esilio continuò a scrivere lettere di incoraggiamento ai suoi discepoli e ad accogliere calorosamente le persone che percorrevano grandi distanze per visitarlo. Esortava i discepoli a leggere insieme le sue lettere e a sostenersi a vicenda nella lotta per affrontare e superare le avversità.
Questo impegno attivo, questa gioia e questo sostegno reciproco vivono ancora oggi nelle riunioni in piccoli gruppi di discussione che costituiscono una tradizione della Soka Gakkai sin dalla sua fondazione nel 1930. In tali occasioni i partecipanti riescono a comprendere di non essere soli con i loro problemi e a trarre coraggio dall’esempio dei compagni di fede che si sforzano di lottare per superare le proprie difficoltà personali. E la loro determinazione rinnovata può a sua volta accendere la fiamma del coraggio in altri ancora.
Incoraggiare ed essere incoraggiati… Grazie a questo movimento di dare e ricevere, l’impegno di una persona ispira quello di un’altra risvegliando il potere della speranza che permette di rimanere saldi anche di fronte a grandi difficoltà. Questo effetto “catalizzatore” da vita a vita è il nucleo delle riunioni di discussione della Sgi.
Oggi tali incontri si tengono in tutto il mondo. Persone provenienti dai più disparati percorsi di vita, di ogni età, genere e posizione sociale, si riuniscono come membri di una comunità per ascoltare le storie di vita uniche di ciascun individuo e l’espressione dei loro sentimenti più profondi. Insieme i partecipanti rinnovano la loro determinazione e il loro impegno.
Le riunioni di discussione sono al centro dell’impegno della Sgi per l’empowerment delle persone, a opera e per le persone stesse, e incarnano il nostro senso di missione nella società. Attraverso tali incontri cerchiamo di risvegliare in ogni partecipante la consapevolezza delle possibilità illimitate e del peso che può avere la sua vita, qualcosa che troppo spesso rimane in ombra di fronte alla crescente complessità e vastità delle minacce che il nostro mondo deve fronteggiare.
Questa è la fonte di energia che alimenta le nostre attività per la pace e a sostegno dell’Onu, che dà forma alla continuità fra pratica religiosa e impegno sociale. Attraverso tale duplice impegno riaffermiamo continuamente la nostra promessa solenne di non ricercare mai la nostra felicità a spese degli altri e di far sì che le persone che più hanno sofferto possano realizzare il loro diritto alla felicità, dando così origine a un mondo in cui fiorisca veramente la dignità di tutte le persone.
La parabola dell’uomo ricco e del figlio povero
Contenuta nel Sutra del Loto, narra la storia del figlio di un ricco che abbandona la casa paterna e vive in povertà. Cinquant’anni più tardi incontra nuovamente il padre ma non lo riconosce e fugge via. Allora il padre invia un suo servo dal figlio per offrirgli un lavoro umile che questi accetta e svolge per molti anni. Poi gli viene affidata una responsabilità maggiore e infine il padre rivela la sua vera identità e il figlio eredita tutte le sue ricchezze.
Il figlio povero rappresenta le persone comuni che “girovagano” nel triplice mondo e il ricco rappresenta il Budda il cui unico desiderio è permettere a tutte le persone di godere del suo stesso stato illuminato.
Il coraggio di mettere in pratica
Il processo pedagogico proposto da Tsunesaburo Makiguchi, fondatore della Soka Gakkai e pioniere dell’educazione umanistica, era mirato a potenziare negli studenti la capacità di comprendere il peso degli eventi che accadevano nel loro ambiente e di rispondere in maniera attiva, ciò che definiva il “coraggio di mettere in pratica”. Per lui il vero obiettivo dell’educazione era sviluppare l’abitudine a scoprire opportunità per applicare la conoscenza acquisita e ottenere il massimo effetto attraverso l’azione concreta. Tale coraggio è ciò che impedisce di venire sopraffatti dalle circostanze e permette invece di creare il tipo di futuro che si desidera
Nelle nostre attività di sostegno alle Nazioni Unite ci siamo concentrati su un approccio basato sull’apprendimento, che enfatizzi la pratica del dialogo.
Qui vorrei esaminare due funzioni importanti dell’apprendimento. La prima è mettere in grado le persone di valutare accuratamente l’impatto delle loro azioni e di renderle consapevoli del potere che hanno di attuare cambiamenti positivi nella propria vita e in quella di coloro che le circondano.
Il presidente fondatore della Soka Gakkai, Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), fu un pioniere dell’educazione umanistica. Nella sua opera del 1930 Soka kyoikugaku taikei (Il sistema educativo per la creazione di valore), uno dei capisaldi su cui si fonda la Sgi, descrive tre modi differenti di vivere come esseri umani: dipendente, indipendente e contributivo.
Nel modo di vivere dipendente si è incapaci di percepire il proprio potenziale e si abbandona ogni possibilità concreta di trasformare la propria situazione presente, adattandosi invece passivamente agli altri, al proprio ambiente immediato o alle tendenze dominanti nella società. In un modo di vivere indipendente si ha il desiderio di trovare una strada per progredire ma si tende a nutrire scarso interesse per le persone con le quali non si ha un legame diretto. In genere si ritiene che se un’altra persona sta vivendo una situazione difficile, dipende solo da lei trovare una soluzione attraverso i propri sforzi personali.
Makiguchi soleva illustrare la problematicità di questo modo di vivere con l’esempio seguente: supponiamo che qualcuno abbia collocato un grosso masso sui binari ferroviari. Ovviamente questo è di per sé un atto malvagio. Ma se un’altra persona, pur riconoscendo la malvagità dell’atto, non fa nulla per rimuovere l’ostacolo, il treno deraglierà. In altre parole, se si riconosce un pericolo ma non si fa nulla a riguardo perché non ci tocca direttamente, il non agire per il bene produrrà comunque un risultato negativo.
Come afferma Makiguchi: «Tutti parlano di quanto sia sbagliato commettere il male, ma nessuno si ritiene responsabile dell’errore di non commettere il bene. E così i mali fondamentali della società rimangono irrisolti».12
Se immaginiamo noi stessi a bordo di quel treno in viaggio verso il disastro fughiamo ogni dubbio riguardo al fatto che non fare il bene equivale a fare il male.
In politica, in economia e in altre aree del pensiero contemporaneo si assiste a una tacita accettazione del sacrificio degli interessi di alcuni al fine di perseguire la massima felicità possibile per la maggioranza. Il tranello insito in questo modo di pensare è illustrato dalla crisi climatica. Essere disposti ad accettare il sacrificio di alcuni può erodere gli elementi basilari per la sopravvivenza umana; anche se al momento presente non c’è un rischio immediato, a lunga scadenza nessun luogo della Terra potrà evitare di subirne gli effetti.
La studiosa di filosofia politica Martha C. Nussbaum ha lanciato un monito relativo ai pericoli del perseguire interessi a breve termine, auspicando un impegno ad aumentare la consapevolezza della cittadinanza globale: «Più che in qualsiasi altra epoca del passato oggi dipendiamo da persone che non abbiamo mai visto, e loro dipendono da noi…»; «Nessuno di noi può in alcun modo porsi al di fuori di questa interdipendenza globale».13
Alimentare le capacità immaginative attraverso l’educazione e l’apprendimento fa crescere la solidarietà all’interno della società civile e fa nascere azioni per la risoluzione dei problemi globali.
Dal canto suo, Makiguchi asseriva che il modo di vivere da ricercare è quello contributivo. «Una felicità autentica si può realizzare solo condividendo le gioie e le sofferenze della collettività come membri della società».14 Oggi occorre estendere questa consapevolezza fino ad abbracciare il mondo intero. Non vi è niente di più cruciale.
Il Buddismo considera il mondo come una rete di relazioni in cui niente può essere completamente separato dal resto. Di momento in momento il mondo è formato e modellato da questa mutua interrelazione. Quando lo capiamo e riusciamo a sentire nella profondità del nostro essere che viviamo all’interno di questa rete di interrelazioni – e che la nostra esistenza è resa possibile proprio da questa – possiamo vedere chiaramente che non esiste né una felicità che possiamo godere da soli né una sofferenza che riguarda solo gli altri.
In questo senso noi, proprio noi, nel luogo in cui ci troviamo adesso, diventiamo il punto di partenza di una reazione a catena di trasformazione positiva. Siamo in grado non solo di risolvere le nostre difficoltà personali ma anche di dare un contributo per indirizzare l’ambiente circostante e l’intera società umana in una direzione migliore.
La consapevolezza palpabile dell’interdipendenza ci fornisce un sistema di riferimento, un insieme di coordinate per riconsiderare la relazione tra il sé e l’altro e tra noi e la società nel suo complesso. Questo è l’approccio che il Buddismo ci esorta ad adottare.
In tale ambito l’educazione ha un ruolo chiave perché ci mette in grado di popolare questo insieme di coordinate con la concreta sensazione di empatia che percepiamo quando incontriamo il dolore degli altri. Le nostre capacità percettive si affinano quando studiamo approfonditamente le circostanze storiche e le cause di questioni come il degrado ambientale o la disuguaglianza sociale, e a sua volta ciò serve a chiarire e a rafforzare il sistema di coordinate etiche con le quali cerchiamo di affrontare tali problemi.
La seconda funzione dell’apprendimento è far scaturire il coraggio di perseverare di fronte alle avversità.
I grandi problemi che l’umanità ha davanti, come la povertà o i disastri naturali, si manifestano in modi diversi a seconda del luogo e delle circostanze. E, come dicevo prima riguardo al cambiamento climatico, gli effetti di questa varietà di pericoli possono colpire chiunque, ovunque e in qualsiasi momento. Perciò sono necessari ovunque sforzi quotidiani per aumentare la resilienza, ossia la capacità di prevenire le crisi e la loro escalation e di rispondere con saggezza e in maniera energica e flessibile alle difficili condizioni che si verificano subito dopo un disastro.
Il processo pedagogico proposto da Makiguchi era mirato a potenziare negli studenti la capacità di comprendere il peso degli eventi che accadevano nel loro ambiente e di rispondere in maniera attiva, ciò che definiva il “coraggio di mettere in pratica”.15 Per lui il vero obiettivo dell’educazione consisteva nello sviluppare l’abitudine a scoprire opportunità per applicare la conoscenza acquisita e ottenere il massimo effetto attraverso l’azione concreta.
A tal fine ciò che occorre, più che limitarsi a fornire le risposte giuste, è «far vedere ai bambini gli ambiti in cui possono applicare ciò che hanno imparato, e concentrare la loro attenzione su questo».16
Makiguchi sottolineava l’importanza di far emergere il “coraggio di mettere in pratica” – cioè la capacità di risolvere i problemi grazie ai propri sforzi – basandosi sulle intuizioni circa la natura di quei problemi sviluppate attraverso l’apprendimento. Tale coraggio è ciò che impedisce di venire sopraffatti dalle circostanze e permette invece di creare il tipo di futuro che si desidera.
Per esempio lo scenario della società globale sostenibile che gli Sdg cercano di delineare non è qualcosa di definito chiaramente o che si possa conoscere fin dall’inizio. Così come i molteplici tipi di crisi e pericoli si manifestano in modo differente nelle varie situazioni ambientali, non c’è una formula universalmente applicabile per la sostenibilità. E sebbene il perseguimento della sostenibilità attraverso l’integrazione degli ambiti economico, sociale e ambientale possa produrre risultati positivi, nessun effetto si può considerare definitivo.
Negli ultimi anni si è sviluppata un’attenzione crescente al valore della resilienza in quanto capacità di rispondere a una realtà in continuo mutamento. Come affermano Andrew Zolli e Ann Marie Healy, «lo scopo dovrebbe essere un sano dinamismo, non una stasi immersa nell’ambra».17 Questo approccio ha una risonanza profonda con la visione buddista della realtà come una rete di relazioni.
I contorni chiari di una società globale sostenibile verranno alla luce se ognuno di noi farà un inventario delle cose che ritiene abbiano un valore insostituibile e agirà con saggezza per proteggerle e tramandarle ai posteri. In ciò risiede il significato dell’impegno a creare valore nel luogo in cui ci troviamo adesso attraverso parole e azioni che solo noi possiamo pronunciare o compiere.
L’espressione “coraggio di mettere in pratica” che usa Makiguchi, contrapposta al più formale “atto di mettere in pratica”, manifesta la sua fede nell’intrinseca capacità umana di non farsi sconfiggere dalle avversità e la sua convinzione del valore sconfinato di ogni individuo.
In questa prospettiva risuona con forza il discorso di una diciassettenne dello Zimbabwe che ha parlato davanti a una commissione organizzata dalle Donne delle Nazioni Unite presso la sede dell’Onu lo scorso febbraio: «Siamo ottocentosessanta milioni di giovani donne e di bambine che vivono nei paesi in via di sviluppo. Siamo più di un dato statistico. Siamo ottocentosessanta milioni di sogni, ottocentosessanta milioni di voci e abbiamo il potere di fare la differenza!».18
Di fronte a crisi e pericoli sempre più spaventosi è facile perdere di vista il peso che ha la vita di ciascun individuo e il suo potenziale illimitato. La portata delle sfide può sommergere la storia unica di ogni singola esistenza, i sogni, i sentimenti inespressi e la capacità di iniziare un processo di trasformazione nel proprio ambiente immediato. Attraverso le sue attività educative la Sgi ha cercato di alimentare la consapevolezza delle ricche possibilità e della capacità di ogni individuo di rispondere efficacemente alla realtà che lo circonda.
In particolare, a partire dalla mostra Armi nucleari: una minaccia al nostro mondo inaugurata nel 1982 presso la sede delle Nazioni Unite a New York, abbiamo posto l’educazione a una cittadinanza globale al centro delle nostre attività pubbliche per la risoluzione dei problemi del pianeta.
Attraverso l’educazione a una cittadinanza globale, che esprime le due funzioni dell’educazione di cui ho discusso prima, ci siamo adoperati per favorire i seguenti quattro processi tra loro interrelati:
- studiare e comprendere i problemi della società in cui si vive e le sfide che il mondo nel suo complesso si trova ad affrontare;
- orientarsi nel sistema di coordinate sviluppato attraverso questo studio allo scopo di riflettere quotidianamente sul proprio modo di vivere;
- acquisire il potere di utilizzare le potenzialità illimitate che esistono nella vita;
- guidare il processo di trasformazione verso la creazione di una nuova era attraverso azioni concrete nella comunità in cui si vive.
Rincuorati dal fatto che i nuovi Sdg fanno esplicitamente riferimento all’importanza dell’educazione a una cittadinanza globale, intendiamo accelerare ulteriormente le nostre attività concentrandoci su questi quattro aspetti.
Il dialogo apre la porta all’empatia
Le risposte alle crisi umanitarie devono essere solidamente fondate sulla dignità di ogni individuo. A tal fine è essenziale prestare attenzione alle voci di coloro che sono stati più dolorosamente colpiti e dialogare insieme per trovare soluzioni. In questo modo possiamo conoscere direttamente le loro esperienze e portare alla luce gli elementi indispensabili per assicurare che il processo di ripresa non lasci indietro nessuno
Oltre all’approccio basato sull’educazione, abbiamo sottolineato l’importanza del dialogo come fondamento delle nostre attività. Sono convinto che, per costruire un mondo in cui nessuno sia lasciato indietro, il dialogo abbia un ruolo fondamentale.
Per affrontare con successo le sfide dell’umanità è essenziale chiederci continuamente chi e che cosa dobbiamo proteggere, e come. Dobbiamo partire dalle persone che hanno subìto gli effetti più gravi e lavorare insieme a loro per individuare la soluzione. Il dialogo ci offre il contesto operativo per realizzare tale impresa.
Alla luce dei disastri naturali e degli eventi climatici estremi che si sono susseguiti, la Terza conferenza dell’Onu per la riduzione del rischio di catastrofi (Disaster Risk Reduction, Drr) – che si è tenuta a Sendai, in Giappone, nel marzo scorso – ha adottato il Protocollo di Sendai per la riduzione del rischio di catastrofi (Sendai Framework for Disaster Risk Reduction) che stabilisce obiettivi comuni come la considerevole riduzione del numero di persone colpite dai disastri entro il 2030.
Mi ha impressionato l’attenzione dedicata al principio chiamato “Ricostruire meglio” (Build Back Better), che si riferisce all’idea che il processo di ripresa dovrebbe tener conto delle difficoltà specifiche che affliggevano la comunità prima del disastro e cercare di migliorarle. Per esempio grazie alle attività del Drr può venir migliorata la resistenza sismica delle case degli anziani che vivono soli senza però risolvere problemi come le loro difficoltà quotidiane di accedere alle strutture mediche o ai negozi. Gli sforzi per “ricostruire meglio” cercano di affrontare, nel corso del processo di ricostruzione, anche criticità preesistenti al disastro.
Mi viene in mente una parabola buddista: una volta un uomo vide una magnifica casa al terzo piano che apparteneva a un ricco e decise che ne voleva una uguale. Tornato a casa incaricò immediatamente un muratore di costruirgli una casa simile, e il muratore iniziò a lavorare alle fondamenta e poi al primo e al secondo piano. Ma l’uomo non capiva e insisteva: «Non mi servono il primo e il secondo piano». Al che il muratore esasperato rispose: «Temo che sia impossibile. Come si aspetta che costruisca il secondo piano senza il primo, e il terzo senza il secondo?».
Allo stesso modo le risposte alle crisi umanitarie devono essere solidamente fondate sulla dignità di ogni individuo. Il processo di ripresa non dovrebbe essere limitato alla ricostruzione fisica, ma dovrebbe porre una scrupolosa attenzione a questioni ancora più basilari come il miglioramento della vita dei singoli membri della comunità e il consolidamento dei legami di comunicazione e sostegno reciproco. Senza questi elementi non si potranno ottenere risultati ottimali.
A tal fine è essenziale prestare attenzione alle voci di coloro che sono stati più dolorosamente colpiti e dialogare insieme per trovare soluzioni. Il paradosso delle crisi umanitarie è che quanto più è grave l’emergenza in cui versano le persone, tanto più è difficile per loro farsi sentire. Attraverso il dialogo possiamo conoscere direttamente le loro esperienze e portare alla luce gli elementi indispensabili per assicurare che il processo di ripresa non lasci indietro nessuno. E poi, cosa fondamentale, chi ha vissuto le sofferenze più grandi ha preziose lezioni da insegnare e inestimabili capacità da condividere con gli altri.
Il Protocollo di Sendai indica, tra i compiti che i cittadini e la società civile potrebbero svolgere all’interno di un loro coinvolgimento attivo, la condivisione di conoscenze ed esperienza. In tale contesto le esperienze dirette delle persone che vivono nelle regioni colpite rivestono un ruolo essenziale.
Ciò è stato evidente dopo il terremoto e lo tsunami che hanno investito il Giappone l’11 marzo 2011. Molte persone coinvolte nel disastro sono state in grado di incoraggiare e sostenere altre vittime, diventando così efficaci agenti di ricostruzione. Nel corso delle costanti attività di sostegno della Sgi al processo di ripresa abbiamo avuto l’opportunità di imparare a fondo da queste inestimabili esperienze, e nelle conferenze internazionali che hanno avuto luogo in seguito abbiamo sottolineato l’importanza cruciale delle opinioni e delle capacità delle vittime dei disastri nel processo di ricostruzione.
Lo stesso vale per il processo di realizzazione degli Sdg. I governi, le organizzazioni internazionali e le Ong devono ascoltare le voci delle persone che si trovano in circostanze difficili per riuscire a decidere quali misure intraprendere e come garantirne il successo.
Riflettendo su questo mondo pieno di sfide e di conflitti, dove le buone notizie scarseggiano, Amina J. Mohammed, Consigliere speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per il Piano di sviluppo dopo il 2015, ha sottolineato che la chiave per rafforzare l’unità della società internazionale è «trovare ancora un posto per la nostra umanità […] riappropriarci dei valori che abbiamo perso per strada».19 Il dialogo è davvero qualcosa che ognuno di noi, in qualsiasi luogo e tempo si trovi, può iniziare per riconquistare la nostra umanità collettiva.
In tempi di grandi tensioni e conflitti il dialogo può svolgere un altro ruolo importante: può dare l’impulso a un rinnovamento dei legami fra noi e gli altri e fra noi e il mondo. In questo senso può essere la fonte di energia creativa per trasformare l’epoca in cui viviamo.
Come effetto della globalizzazione – una delle tendenze che caratterizzano il ventunesimo secolo – un numero senza precedenti di persone trascorre brevi periodi al di fuori del proprio paese di origine per ragioni di studio o di lavoro, oppure decide di trasferirsi a vivere in una nuova località. Molti paesi hanno vissuto l’arrivo di persone con diversi retroterra culturali come una nuova opportunità di interazione e di scambio. Allo stesso tempo, però, si è verificato un aumento del razzismo e della xenofobia.
Nella Proposta di pace dello scorso anno mettevo in guardia dai pericoli dei “discorsi di incitamento all’odio” (hate speech), facendo osservare che, indipendentemente dalle persone alle quali sono diretti, costituiscono una violazione dei diritti umani che non può essere ignorata. È essenziale che ciò sia riconosciuto e sancito da tutta la società internazionale. Per costruire società resistenti alla xenofobia e all’incitamento all’odio è necessario che le persone siano esposte a diverse prospettive o le richiamino alla mente, e a tal fine il dialogo può svolgere un ruolo cruciale.
L’insegnamento buddista delle “quattro visioni del boschetto di sal” illustra come diverse condizioni mentali e spirituali possono indurre le persone a vedere la stessa cosa in maniera completamente differente. Per esempio, la vista dello stesso fiume può ispirare in alcuni la commozione per la bellezza delle acque limpide, in altri suscitare la curiosità di quali pesci vi si possano trovare, in altri ancora la preoccupazione di un’inondazione. È significativo osservare che queste non sono solo differenze di percezione soggettiva, ma possono dare origine ad azioni che altereranno concretamente quel paesaggio.
Un esempio di questo processo ci viene dalla biografia di una mia cara amica recentemente scomparsa, Wangari Maathai (1940-2011). Nel suo villaggio natale, in Kenya, la gente aveva un grande rispetto per gli alberi di fico, contribuendo così alla protezione dell’ecosistema locale. Quando Wangari vi fece ritorno dopo aver completato gli studi negli Stati Uniti, rimase agghiacciata vedendo che – a opera del nuovo proprietario di un terreno – un fico che aveva amato sin da bambina era stato abbattuto per fare spazio a una piantagione di tè. Non solo era cambiato il paesaggio, ma poiché questo fenomeno si era ripetuto anche altrove, le frane erano diventate più frequenti e le sorgenti di acqua potabile più scarse.20
È un esempio evidente di come una cosa preziosa per una persona per un’altra non costituisce altro che un impedimento. I problemi che sorgono da queste differenze di consapevolezza non sono limitati alle relazioni fra individui ma influenzano anche le relazioni fra gruppi di etnie e culture diverse. Le cose che non incidono sulla nostra coscienza cessano di esistere nel nostro modello di mondo.
Noi umani possiamo essere capaci di capire i sentimenti delle persone con le quali abbiamo una relazione stretta, ma le lontananze culturali e geografiche spesso producono anche una distanza psicologica. L’accelerazione del processo di globalizzazione sembra esacerbare questo fenomeno, con i mezzi di comunicazione che a volte amplificano la tendenza all’odio e alla creazione di stereotipi. Così le persone finiscono per evitare le interazioni con chi è diverso da loro, compresi quelli che vivono nella loro stessa comunità, guardandoli attraverso il filtro della discriminazione e dei preconcetti. La società nel suo complesso ha visto una diminuzione della capacità di apprezzare gli altri così come sono e per quello che sono. Credo che la maniera più certa per cambiare tutto ciò sia diventare attivamente partecipi della vita degli altri attraverso un dialogo da persona a persona.
L’anno scorso, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, l’Unhcr ha lanciato una campagna educativa pubblica che presenta le storie di vita di persone che sono diventate rifugiati. Tutti i racconti sono preceduti dal nome della persona e da alcune caratteristiche facilmente riconoscibili che non hanno alcuna relazione con la nazionalità, come “giardiniera, madre, amante della natura”, oppure “studente, fratello, poeta”,21 e vi vengono descritte le vicende e i sentimenti di ciascuna di loro rispetto alla situazione che sta vivendo. L’incontro con l’esperienza e la storia di vita di un individuo in termini così reali e familiari può permettere alle persone di vedere oltre l’anonima classificazione di “rifugiato”.
Il professor Ved Nanda, dell’Università di Denver negli Stati Uniti, mi ha raccontato di quando all’età di dodici anni, nel 1947, a causa della divisione dell’India fu costretto ad abbandonare la sua casa e camminò per giorni con la madre in cerca di un rifugio. Grazie a tale esperienza studiò Diritto internazionale e diventò uno dei principali esperti nelle questioni dei diritti umani e dei rifugiati. In seguito scrisse: «Non c’è dubbio che le mie prime esperienze infantili abbiano esercitato un’influenza profonda e duratura sulla mia vita. Ricorderò fino al mio ultimo giorno il dolore cocente che provai quando fui costretto a lasciare il mio paese».22
Come suggerisce l’iniziativa dell’Unhcr, che ci mostra il volto umano dei rifugiati, la nostra considerazione delle persone che appartengono a religioni ed etnie differenti si può trasformare attraverso un contatto diretto e una conversazione anche solo con un unico membro di quel gruppo, e un simile incontro può rivelarci un “paesaggio” totalmente nuovo e diverso. Impegnandoci in un dialogo aperto e franco riusciamo a scoprire cose che prima ci erano nascoste e il mondo ci appare in una luce più calda e più umana.
Nel settembre del 1974, in mezzo alle tensioni della guerra fredda, visitai per la prima volta l’Unione Sovietica decidendo di ignorare le critiche e le opposizioni a questa mia scelta. Ero motivato dalla convinzione che non dovevamo temere l’Unione Sovietica quanto piuttosto la nostra ignoranza dell’Unione Sovietica.
I conflitti e le tensioni di per sé non rendono impossibile il dialogo; ciò che costruisce muri è la nostra intenzione a restare nell’ignoranza degli altri. Per questo è cruciale essere i primi a iniziare un dialogo, tutto comincia da qui.
Nella cena di benvenuto che si tenne al mio arrivo a Mosca espressi il mio stato d’animo: «Si percepisce calore umano, il calore del cuore, nella bella luce dell’inverno siberiano che filtra dalle finestre. Promettiamo allora di fare tesoro della luce del cuore umano indipendentemente dalle differenze dei nostri sistemi sociali».
Questi stessi sentimenti mi spinsero a visitare Cuba diversi decenni dopo, nel giugno del 1996. Erano passati solo quattro mesi dall’abbattimento di due velivoli civili americani da parte dell’aeronautica cubana, ma ero convinto che una volontà di pace condivisa avesse il potere di superare anche gli ostacoli più ardui. Con questa determinazione ebbi un franco e libero scambio di vedute con il presidente Fidel Castro.
Inoltre, nel corso di una conferenza all’Università di L’Avana sottolineai che l’educazione è il nostro ponte di speranza verso il futuro, e successivamente avviai una serie di scambi educativi e culturali che sono proseguiti fino a oggi. Sono stato veramente felice quando, nel luglio scorso, gli Stati Uniti e Cuba hanno ristabilito le relazioni diplomatiche dopo cinquantaquattro anni.
Le relazioni diplomatiche sono sicuramente importanti, ma ancor più essenziali sono il dialogo e lo scambio fra la gente comune, l’abbraccio concreto della realtà e della ricchezza dell’esistenza di un’altra persona. Questa modalità viene troppo facilmente oscurata dagli approcci stereotipati ad altre persone e religioni.
Sono convinto che quando, come singoli individui, useremo l’amicizia e l’empatia per ridisegnare la carta geografica del mondo nel nostro cuore, anche il mondo intorno a noi comincerà a cambiare.
Il mio maestro Josei Toda (1900-1958), secondo presidente della Soka Gakkai, ci metteva spesso in guardia dal pericolo di lasciare che le lenti dell’appartenenza a una nazione o a un certo gruppo determinassero le risposte ai problemi. Osservava che mentre gli individui di nazionalità differenti cercano di vivere fianco a fianco in maniera civile, le relazioni fra stati sono caratterizzate da «un costante esercizio della forza, dietro una patina di cultura».23
Si dispiaceva del fatto che le differenze ideologiche stavano dando origine a conflitti politici ed economici ed era preoccupato che la logica dell’identità collettiva stesse rendendoci ciechi alla nostra comune umanità. Invitava a costruire un’ampia solidarietà in cui l’umanità fosse unita da un comune anelito alla pace, un “nazionalismo globale” basato sul desiderio che la parola “infelicità” non dovesse mai più essere usata per descrivere il mondo, un paese o un individuo.
Per perpetuare l’eredità del mio maestro, nel 1996 fondai l’Istituto Toda per la pace globale e la ricerca politica. In febbraio [2016, n.d.r.] l’Istituto organizzerà un convegno a Tokyo sul potenziale che hanno le religioni mondiali di contribuire alla creazione della pace. L’incontro, che radunerà filosofi e ricercatori di tradizione cristiana, ebraica, islamica e buddista, sarà incentrato sulla capacità della religione di far emergere gli aspetti positivi dell’umanità. I partecipanti esploreranno i modi per far sì che il mondo del ventunesimo secolo volga le spalle alla violenza e all’odio e si generi invece una corrente di pace e di valori umani.
Jacques Maritain (1882-1973), il filosofo francese che partecipò alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani, auspicò la creazione di una “geologia della coscienza”24 in grado di scavare in profondità nei primari aspetti comuni dell’agire umano al di là delle differenze ideologiche e filosofiche. L’Istituto Toda, che l’11 febbraio [2016] compirà vent’anni, si sta impegnando attivamente in questa impresa con le sue attività che vanno sotto il titolo di “Dialogo di civiltà per una cittadinanza globale”.
Non sono le frasi fatte o i dogmi che toccano profondamente le persone, ma le parole che scaturiscono dall’esperienza personale e che recano il peso della vita vissuta. Gli scambi condotti con un linguaggio di questo tipo sono in grado di attingere alla ricca miniera della nostra comune umanità riportando alla superficie scintillanti tesori spirituali che illumineranno la società umana. Questa è la convinzione che mi ha sostenuto negli anni in cui ero impegnato nel dialogo con persone di diversi contesti culturali, etnici e religiosi.
È proprio l’incontro con persone che appartengono a diversi percorsi di vita che apre i nostri occhi a vedute che altrimenti non avremmo mai potuto scorgere. È nella risonanza di persone che si incontrano nella pienezza della propria umanità che si generano melodie di una nuova energia creativa.
Questo è il vero significato del dialogo. Può essere un forziere di possibilità, un generatore per la creazione della storia. Condividere spazio e tempo, insieme, nel dialogo… L’amicizia e la fiducia che si alimentano attraverso l’impegno comune in questo processo possono creare le basi di un sodalizio di cittadini comuni che lavorano insieme per risolvere le questioni globali e far nascere un mondo pacifico.
Le quattro visioni del boschetto di sal
A nord della città di Kushinagara, in India, c’era un boschetto di alberi di sal dove si ritiene che morì Shakyamuni. Si diceva che le persone percepissero lo stesso boschetto in maniera differente a seconda del loro stato vitale; questa differenza di percezione viene descritta impiegando i nomi dei quattro tipi di terre nella dottrina della scuola buddista T’ien-t’ai. C’è chi vede il boschetto di sal come Terra dei Saggi e degli Esseri Comuni, chi come Terra di Transizione, chi come Terra della Ricompensa Effettiva e chi infine lo vede come Terra della Luce Tranquilla.
Verso un mondo più umano
I disastri naturali e le guerre travolgono in un istante la vita di innumerevoli persone, derubandole di ogni speranza. Le principali vittime dei conflitti armati sono i bambini, che costituiscono più della metà dei rifugiati. La risposta a questa situazione deve basarsi sulla legislazione internazionale per i diritti umani e dare priorità alla protezione della vita e dei diritti dei rifugiati bambini
Desidero ora suggerire alcune idee riguardo a tre aree che richiedono un’azione immediata e coordinata da parte dei governi e della società civile:
- gli aiuti umanitari e la tutela dei diritti umani;
- l’integrità ecologica e la riduzione del rischio di catastrofi;
- il disarmo e la proibizione degli armamenti nucleari.
Queste proposte puntano all’ideale di un mondo in cui nessuno venga lasciato indietro, come affermano gli Sdg.
La prima di tali aree è quella relativa agli aiuti umanitari e alla tutela e promozione dei diritti umani. In particolare desidero avanzare due proposte concrete per il Summit umanitario mondiale che avrà luogo a Istanbul il prossimo maggio.
Anzitutto vorrei chiedere ai partecipanti al summit di riaffermare il principio che la nostra risposta all’aggravamento della crisi dei rifugiati deve prima e soprattutto basarsi sulla legislazione internazionale per i diritti umani, e li esorto a esprimere un impegno chiaro rispetto alla priorità della protezione della vita e dei diritti dei rifugiati bambini.
Il numero dalle persone sfollate che cercano rifugio in paesi stranieri ha raggiunto il livello più alto dopo la seconda guerra mondiale. Nei paesi riceventi si registra una preoccupazione crescente per l’espandersi dell’instabilità sociale, l’aumento delle spese pubbliche destinate all’assistenza umanitaria e la possibilità di infiltrazione di terroristi camuffati da persone in cerca di asilo. Anche se ogni paese prenderà le proprie misure per gestire tali problemi, qualsiasi risposta alla crisi dei rifugiati si deve basare sull’impegno a proteggere la vita e la dignità umana, che costituisce il nucleo stesso della legislazione internazionale sui diritti umani.
In modo del tutto analogo alla perdita della casa in seguito a un disastro naturale, che costringe le persone a vivere in rifugi temporanei, i conflitti e le guerre sradicano in un istante la vita di innumerevoli persone, derubandole di ogni speranza. Dobbiamo ricordare sopra ogni altra cosa che le maggiori vittime dei conflitti armati sono i bambini, che costituiscono più della metà dei rifugiati.
L’anno scorso ricorreva il decimo anniversario della risoluzione 1612, il provvedimento del Consiglio di sicurezza dell’Onu sulla protezione dei bambini coinvolti in conflitti armati. Oltre a salvaguardarli dall’esposizione alla violenza e allo sfruttamento che accompagnano gli eventi bellici, c’è un urgente bisogno di fornire loro protezione quando sono in fuga dalle devastazioni della guerra.
Negli Sdg i bambini sono in cima all’elenco delle persone più vulnerabili e più gravemente colpite da varie minacce.
Il direttore esecutivo dell’Unicef Anthony Lake ha dichiarato: «Ogni bambino ha il diritto di godere della serena benedizione di un’infanzia normale».25 Tutelare il diritto a godere di questa condizione dovrebbe essere un caposaldo del sostegno internazionale agli sfollati.
Potremo dire di aver risolto le emergenze umanitarie solo quando i bambini colpiti potranno superare quelle amare esperienze e crescere con la speranza nel cuore. Per coloro che sono stati costretti a fuggire dalle loro case e stanno lavorando per rifarsi una vita in una nuova terra, la presenza di bambini sorridenti e pieni di speranza sarà fonte di ispirazione e di forza.
Il mio secondo appello al Summit umanitario mondiale è di giungere a un accordo per rafforzare i programmi delle Nazioni Unite a sostegno dei paesi che accolgono i rifugiati in Medio Oriente e dare priorità a un simile approccio anche in altre regioni dell’Asia e dell’Africa.
Le statistiche dell’Onu mostrano che, fra i rifugiati, nove su dieci cercano asilo in regioni o in paesi considerati economicamente meno sviluppati.26 Il numero enorme di sfollati ha creato un notevole stress in queste già vulnerabili comunità ospitanti, al punto che hanno difficoltà a fornire accesso all’acqua potabile e ad altri servizi pubblici, e molte non sono in grado di offrire sostegno ai rifugiati senza la cooperazione internazionale.
Il Preambolo della Convenzione sullo status dei rifugiati si riferisce al fatto che garantire asilo può gravare di “un carico indebitamente pesante” alcuni paesi e afferma che non si può trovare una soluzione soddisfacente senza cooperazione internazionale. Credo che, nell’affrontare i bisogni dei rifugiati e degli sfollati interni, sia vitale che la comunità internazionale tenga presente lo spirito di cooperazione internazionale che permea la Convenzione.
Nella mia Proposta di pace dell’anno scorso sollecitavo lo sviluppo di programmi regionali di empowerment congiunti, dove i progetti educativi e di assistenza all’impiego abbracciassero sia i rifugiati sia le popolazioni locali, specialmente i giovani e le donne dei paesi riceventi.
Attualmente in cinque paesi del Medio Oriente è in atto un’iniziativa dell’Onu che combina le operazioni di soccorso ai rifugiati con il sostegno alle comunità riceventi. Questa nuova modalità di aiuto, il Piano Regionale per i Rifugiati e la Resilienza (3RP), è stata progettata per fornire un supporto diretto ai rifugiati siriani e anche alle popolazioni dei paesi ospitanti, migliorando la qualità della vita e le opportunità di impiego attraverso il potenziamento delle infrastrutture sociali locali. Essa mira a costruire una struttura di cooperazione internazionale per contribuire a stabilizzare la regione e ad alleggerire il carico sopportato dalla Turchia e dal Libano, che hanno accettato un milione di rifugiati ciascuno, come anche le pressioni sui vicini Giordania, Iraq ed Egitto dove un gran numero di siriani ha cercato ricovero. A oggi il 3RP ha contribuito a migliorare le forniture di cibo e acqua potabile e l’assistenza sanitaria e di altro genere. Nel dicembre scorso sono state annunciate le politiche di base e gli scopi concreti per il futuro di queste iniziative.
Invito i partecipanti al Summit umanitario mondiale a discutere e riflettere sul 3RP in modo da condividere sia le difficoltà sia gli strumenti migliori per affrontarle, e a esprimere il loro impegno a lavorare in maniera solidale per facilitare il progresso di queste attività, compreso il finanziamento alla cooperazione. Sollecito inoltre il governo giapponese ad attingere alla propria esperienza nell’erogazione di aiuti umanitari alla Siria e all’intera regione per espandere le attività di assistenza ai profughi, concentrandosi in particolar modo sull’assicurare un futuro migliore ai bambini.
Ora in Turchia, in Libano e in altri luoghi i bambini siriani sfollati hanno qualche possibilità di frequentare le scuole pubbliche locali o i centri di educazione temporanei, ma più della metà è ancora priva di accesso alle scuole. Le Nazioni Unite hanno istituito piani per espandere le opportunità educative per i piccoli profughi. L’Unione europea sta lavorando con l’Unicef a sostegno dell’educazione per i bambini sfollati in Siria e nei paesi vicini; è mia fervida speranza che anche il governo giapponese svolga un ruolo consistente in questo campo.
In collaborazione con l’Unchr, numerose università giapponesi hanno istituito un Programma di educazione superiore per i rifugiati che offre loro corsi di laurea. Per le generazioni più giovani occorrerebbe rendere disponibile una vasta gamma di queste opportunità educative.
È importante che la società civile collabori nel rispondere agli imperativi umanitari come la crisi dei rifugiati. Mirando allo stesso scopo, cioè creare un mondo in cui la dignità di tutte le persone venga rispettata, la Sgi intende raddoppiare gli sforzi per promuovere l’educazione ai diritti umani.
Questo è il quinto anno dall’adozione della Dichiarazione dell’Onu sull’educazione e la formazione ai diritti umani nella quale i membri delle Nazioni Unite si sono accordati per la prima volta su alcuni criteri internazionali per l’educazione ai diritti umani.
Dato l’incremento a livello globale di episodi di discriminazione razziale e xenofobia, dovuti in particolare a pregiudizio e odio nei confronti dei rifugiati, degli sfollati e dei migranti, penso che i seguenti due aspetti della Dichiarazione siano particolarmente salienti:
- promuovere lo sviluppo dell’individuo come membro responsabile di una società libera, pacifica, pluralista e inclusiva;
- contribuire alla prevenzione delle violazioni dei diritti umani e degli abusi, e alla lotta per sradicare ogni forma di discriminazione, razzismo, giudizio stereotipato e incitamento all’odio, compresi tutti gli atteggiamenti nocivi e i pregiudizi che alimentano tali comportamenti.27
Non basta dunque semplicemente astenersi da comportamenti discriminatori; piuttosto, è tassativo stabilire un’etica che respinga chiaramente ogni forma di violazione dei diritti umani radicata nel pregiudizio e nell’odio. In altre parole si tratta di far attecchire una cultura universale dei diritti umani per riuscire a costruire società autenticamente inclusive.
Prima avevo citato il monito di Makiguchi, il primo presidente della Soka Gakkai, che non fare il bene equivale a fare il male. Riguardo alla costruzione di una cultura universale dei diritti umani, un’impresa in cui il comportamento e le azioni di ogni individuo svolgono un ruolo cruciale, dobbiamo rinnovare la nostra consapevolezza della gravità di non fare il bene.
La Dichiarazione non si limita all’acquisizione di conoscenze riguardo ai diritti umani o ad approfondirne la comprensione, ma include esplicitamente lo sviluppo di atteggiamenti e comportamenti. Essa definisce inoltre l’educazione e la formazione ai diritti umani come «un processo che dura tutta la vita e che riguarda ogni fascia di età».28 Indica così gli elementi indispensabili per far fiorire appieno una cultura dei diritti umani.
Come organizzazione della società civile, la Sgi ha dato il suo sostegno a questa importante Dichiarazione dell’Onu fin dalla sua prima stesura. Dopo la sua adozione da parte dell’Assemblea generale, nel dicembre del 2011, ne abbiamo sostenuto gli obiettivi con mostre che mirano ad accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica e con un documentario in coproduzione dal titolo A Path to Dignity: The Power of Human Rights Education (Una via verso la dignità: il potere dell’educazione ai diritti umani).
Nel 2013 Amnesty International, Human Rights Education Associates e la Sgi hanno fondato la Human Rights Education 2020 (Hre 2020), una coalizione globale della società civile per l’educazione ai diritti umani. Per sostenere e promuovere la Dichiarazione e il Programma mondiale per l’educazione ai diritti umani, la Hre 2020 ha pubblicato il Protocollo indicativo per l’educazione ai diritti umani (Human Rights Education Indicator Framework), uno strumento da usare come guida per migliorare la qualità dell’educazione e della formazione ai diritti umani nelle varie realtà nazionali.
Per celebrare il quinto anniversario dell’adozione della Dichiarazione, la Sgi e altre organizzazioni che lavorano insieme nella Hre 2020 stanno preparando una nuova mostra sui diritti umani che esporrà i temi dei nuovi Sdg visti nell’ottica dei diritti umani. Mi auguro che questa mostra ispiri un impegno rinnovato rispetto al tipo di azione che può contribuire a generare un mondo in cui venga rispettata la dignità di tutte le persone.
Integrità ecologica e riduzione del rischio di catastrofi
La grande forza dell’Accordo di Parigi per combattere il riscaldamento globale è stata la partecipazione pressoché universale dei governi mondiali: ciò dovrebbe contribuire a far sorgere un tipo di cooperazione nella quale ogni paese possa collaborare attivamente avendo in mente il bene dell’intera umanità
Desidero ora sottoporre alcune riflessioni relative alle attuali questioni ambientali e alla riduzione del rischio di catastrofi.
Anzitutto vorrei considerare la questione della riduzione delle emissioni di gas serra che causano il riscaldamento globale. Nella ventunesima sessione della Conferenza delle parti (Cop21) nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Unfccc), che si è tenuta lo scorso anno dal 30 novembre all’11 dicembre, è stato adottato l’Accordo di Parigi come nuovo protocollo internazionale per le iniziative mirate ad affrontare il riscaldamento globale.
L’adozione dell’Accordo di Parigi costituisce una grande innovazione in quanto centonovantacinque paesi si sono unanimamente impegnati ad agire in base a una strategia comune. Sono stati spinti a farlo dalla crescente preoccupazione per le gravi conseguenze alle quali l’umanità andrà incontro se il rialzo della temperatura media del globo rispetto ai livelli preindustriali non sarà mantenuto al di sotto dei 2 gradi centigradi. Ogni governo ha stabilito un suo obiettivo, e anche se questi non sono vincolanti dal punto di vista legale si è comunque registrato un accordo sull’impiego di politiche atte a realizzarli.
Combattere il riscaldamento globale è un’ardua sfida, ma la grande forza dell’Accordo di Parigi è stata la partecipazione pressoché universale dei governi mondiali: ciò dovrebbe contribuire a far sorgere un tipo di cooperazione nella quale ogni paese possa collaborare attivamente avendo in mente il bene dell’intera umanità.
L’Asia è una delle regioni che ha subito un aumento dell’incidenza di eventi climatici estremi. Alla luce di ciò vorrei fare appello a una cooperazione fra Cina, Giappone e Corea del Sud, insieme responsabili di un terzo delle emissioni globali di gas serra,29 per perseguire iniziative ambiziose e innovative.
A novembre dello scorso anno si è tenuto a Seul il sesto Summit trilaterale fra Cina, Giappone e Corea, dopo un intervallo di tre anni e mezzo. Nelle scorse Proposte di pace e in altri contesti avevo più volte auspicato il superamento delle tensioni politiche per riuscire a riconvocare tali summit trilaterali; sono quindi particolarmente lieto di apprendere che la collaborazione è stata pienamente ristabilita e che si è concordato di tenere questi summit a cadenza regolare.
La cooperazione trilaterale ha preso l’avvio con un lavoro nel campo dell’integrità ecologica che ne è rimasto il nucleo essenziale. Il meeting tripartito dei ministri dell’Ambiente (Temm) ha espresso l’opinione che l’Asia nordorientale costituisca «un’unica comunità ambientale».30 Le riunioni annuali dei ministri dell’ambiente hanno continuato a contribuire alla cooperazione sulle questioni ambientali anche in periodi di forti tensioni politiche.
Nella speranza di incoraggiare un’ulteriore collaborazione in campo ambientale, l’anno scorso ho esortato i tre paesi a lavorare in direzione di un accordo formale per fare della regione un modello di sostenibilità. Se, oltre a ridurre l’inquinamento atmosferico e ad affrontare il problema delle tempeste di polvere e sabbia, si potesse incrementare la cooperazione regionale per combattere il cambiamento climatico, si realizzerebbe un passaggio determinante verso il conseguimento degli obiettivi stabiliti da ciascun paese nell’Accordo di Parigi.
Si potrebbero creare occasioni concrete per condividere conoscenze e buone pratiche nel campo dell’efficienza energetica, delle energie rinnovabili e degli sforzi per minimizzare l’impronta ecologica delle attività economiche. Tali sinergie fra i tre paesi potrebbero accelerare la transizione verso un futuro “low-carbon” [l’economia “low-carbon” è fondata su un sistema di produzione e consumi a basso contenuto di carbonio, ovvero a ridotte emissioni di Co2 in atmosfera, n.d.t.].
Quest’anno il Summit trilaterale si terrà in Giappone. In concomitanza si svolgerà anche il Summit trilaterale della gioventù, che offrirà l’opportunità ai giovani rappresentanti di discutere di cooperazione per la pace e l’integrità ecologica nell’Asia nordorientale. Vorrei esortare i leader dei tre paesi ad adottare una “promessa ambientale” di Cina, Giappone e Corea che si basi sulla cooperazione nella regione per contrastare i cambiamenti climatici entro il 2030, l’anno stabilito dall’Accordo di Parigi.
Spero inoltre che il Summit della gioventù generi risultati che portino a realizzare una piattaforma per la condivisione di idee creative e di buone pratiche e a sostenere gli scambi fra i giovani per la collaborazione a progetti ambiziosi da loro stessi proposti.
In aggiunta alla cooperazione intergovernativa, vorrei proporre che le città del mondo lavorino insieme per tracciare una strada che porti a promuovere gli scopi stabiliti nell’Accordo di Parigi. Anche se le città occupano solo il due per cento della Terra, in realtà sono responsabili del settantacinque per cento delle emissioni di anidride carbonica e di più del sessanta per cento del consumo energetico.31 Se da un lato ciò indica che l’impronta ambientale delle città è sproporzionatamente grande, dall’altro significa che se cambieranno le città, anche il mondo cambierà.
Sicuramente l’alta densità della popolazione urbana implica che i problemi siano concentrati in un unico luogo, e così anche il carico ecologico. Ma per lo stesso motivo questa densità può facilitare la messa in atto di misure efficaci dal punto di vista dell’efficienza energetica e l’adozione di fonti di energia rinnovabili verso la transizione a una società a basso contenuto di carbonio.
Il Patto dei Sindaci, inaugurato nel 2014 al Summit sul clima delle Nazioni Unite e che adesso include più di quattrocento città nel mondo, consente a ogni città di impegnarsi pubblicamente in piani di riduzione dell’inquinamento puntando a obiettivi concreti.
Quando le città entreranno in azione e le iniziative cominceranno a produrre risultati, i cittadini potranno percepire un senso di realizzazione tangibile. La convinzione e l’orgoglio che ne trarranno li ispireranno a prendere parte ulteriormente allo sforzo condiviso, dando un forte impulso nella direzione di una società sostenibile. Credo che le città possano generare un effetto a cascata che spingerà gli sforzi di ogni nazione verso la realizzazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
In vista della Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile (Rio+20) tenutasi nel 2012 – che ha dato inizio al processo di discussione concreta per la definizione degli Sdg – ho espresso la speranza che gli obiettivi post-2015 fossero accolti come un impegno personale e che ispirassero i cittadini a lavorare insieme per raggiungerli.
Uno degli obiettivi elencati nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è quello delle “città sostenibili”. Poiché l’accumulo di sforzi intrapresi nel proprio ambiente immediato può generare significativi impatti positivi sull’ambiente globale, il tema delle città sostenibili può dimostrare alle persone che il loro impegno è importante e di conseguenza stimolare un senso di realizzazione e orgoglio.
Nell’ottobre di quest’anno si terrà a Quito, in Ecuador, la Conferenza delle Nazioni Unite su casa e sviluppo urbano sostenibile (Habitat III). Oltre ai rappresentanti dei governi nazionali, a questo incontro potranno partecipare anche portavoce di entità subnazionali per esprimere i loro punti di vista e condividere le loro buone pratiche, per costruire una solidarietà globale con l’obiettivo di creare città sostenibili.
L’attivista ambientale Wangari Maathai dichiarò che la sua esperienza alla Conferenza Habitat I del 1976, tenutasi a Vancouver, in Canada, l’aveva ispirata a fondare il movimento della Cintura verde (Green Belt) in Kenya: «Lo splendido scenario della Columbia britannica e la partecipazione a un evento con persone che condividevano la mia crescente preoccupazione per l’ambiente furono esattamente il tonico di cui avevo bisogno. […] Tornai in Kenya ricaricata e determinata a far funzionare la mia idea».32
Indipendentemente dal paese e dalla comunità in cui risiediamo, credo che tutti condividiamo il desiderio di lasciare ai nostri figli e nipoti un ambiente migliore.
In precedenza ho fatto appello alla cooperazione a livello nazionale tra Cina, Giappone e Corea, e qui vorrei proporre che in concomitanza con Habitat III si tenga un forum per la cooperazione ambientale tripartita al quale partecipino i rappresentanti di governi subnazionali e le Ong attive in ambito ambientale.
Come evento collaterale alla Terza conferenza mondiale dell’Onu sulla riduzione del rischio di catastrofi (Disaster Risk Reduction, Drr) tenutasi a Sendai nel marzo dello scorso anno, la Sgi ha sponsorizzato un simposio con rappresentanti delle organizzazioni della società civile coinvolte in questo ambito provenienti da Cina, Giappone e Corea. Chen Feng, vice segretario generale del Segretariato intergovernativo per la Cooperazione trilaterale, che ha sostenuto il simposio, ha affermato che, in quanto “vicini di casa”, un disastro in un paese avrebbe causato sofferenze anche negli altri due, e per questo motivo la cooperazione nella riduzione dei rischi deve sempre costituire una priorità.33 Lo stesso si può dire delle problematiche ambientali.
Al momento oltre seicento località in Cina, Giappone e Corea hanno stabilito gemellaggi. Questa iniziativa trilaterale può contribuire a realizzare un lascito di amicizia di valore inestimabile per il futuro sviluppando una comprensione più profonda del fatto che le città, i paesi e i villaggi in cui si vive sono tutti parte di una comunità ambientale condivisa.
Il secondo tema di cui desidero discutere è la riduzione del rischio di catastrofi basata sull’ecosistema (Eco-Ddr). Approssimativamente ottocento milioni di persone nel mondo oggi soffrono per fame e malnutrizione. Inoltre circa il trenta per cento del suolo coltivabile a livello mondiale, la base per la produzione globale di cibo, sta subendo un certo tasso di degrado.34
Un suolo sano svolge un ruolo importante nel ciclo del carbonio, nella conservazione e nel filtraggio dell’acqua, il che lo rende una componente cruciale dell’ecosistema. Ma troppo a lungo non è stata riservata a questo aspetto l’attenzione che meritava. Una volta degradato, il suolo coltivabile non si recupera facilmente: possono volerci più di mille anni perché si formi anche solo un centimetro di terreno fertile.
Sebbene il ritmo della deforestazione globale netta sia rallentato, ogni anno vanno persi ancora tredici milioni di ettari di foreste, e ciò causa gravi preoccupazioni riguardo agli effetti sull’ambiente, come la perdita della biodiversità.35 Uno degli Sdg parla dell’importanza di fermare e invertire la tendenza all’impoverimento del suolo e della gestione sostenibile delle foreste mondiali. Sono sfide urgenti sia in termini di protezione dell’integrità ecologica del nostro pianeta sia di incremento del “sequestro del carbonio” [assorbimento di anidride carbonica atmosferica da parte delle foreste e sua trasformazione in carbonio organico benefico per il suolo, n.d.r.].
In anni recenti ha attirato crescente attenzione il ruolo che possono svolgere gli sforzi per proteggere l’ambiente nella riduzione del rischio di catastrofi. La consapevolezza di ciò è significativamente aumentata in seguito all’esperienza dello tsunami del 2004 nell’Oceano indiano. Alcuni studi hanno rivelato che i villaggi costieri protetti dalle foreste di mangrovie, che hanno svolto la funzione di scudo naturale, hanno subito danni notevolmente inferiori rispetto alle zone dove questa protezione era assente.
Esempi di progetti di eco-riduzione del rischio includono la messa a dimora restaurativa di piante e vegetazione per stabilizzare le dune di sabbia, l’utilizzo di zone umide per mitigare gli effetti delle mareggiate generate dai cicloni e la “verdizzazione” delle città nella gestione delle alluvioni.
Di particolare interesse è il valore che deriva dall’impegno attivo e costante delle persone delle comunità locali. Nelle regioni colpite dal terremoto e dallo tsunami del 2011 nel nord-est del Giappone, anche i bambini hanno partecipato all’opera di messa a dimora di alberelli per ricostituire le foreste protettive sulle coste. Attività di questo tipo rafforzano un senso condiviso dell’importanza degli ecosistemi locali e invitano un gruppo sempre più ampio di partecipanti a immaginare come gli alberi che stanno piantando ora possano proteggere la vita delle persone in futuro.
Quando negli anni a venire le persone coinvolte cammineranno nei luoghi in cui hanno lavorato, guarderanno il panorama con un senso ancora più profondo del suo valore. Avvertiranno l’importanza essenziale e al contempo ineffabile degli ecosistemi locali nella loro vita quotidiana così come la natura inestimabile del proprio impegno nel sostenere quell’ambiente anche in vista della riduzione del rischio di catastrofi. Questa consapevolezza crescerà insieme agli alberi che hanno piantato, ponendo le basi per una comunità davvero resiliente. In questo modo gli sforzi della gente di proteggere la propria ecologia locale comportano l’effetto diretto di alimentare un futuro di speranza per la comunità.
Recentemente è stato lanciato il Programma di azione globale per l’educazione allo sviluppo sostenibile, che fa seguito al Decennio dell’Onu per l’educazione allo sviluppo sostenibile (Desd). Una delle priorità del programma è il coinvolgimento dei giovani, e in questo contesto vorrei incoraggiare con tutto il cuore i ragazzi e i bambini di tutto il mondo a partecipare attivamente alle iniziative di eco-riduzione del rischio come le campagne per piantare alberi.
Il Protocollo di Sendai adottato alla Terza conferenza mondiale dell’Onu sulla riduzione del rischio di catastrofi nel marzo scorso evidenzia che la Drr «richiede l’impegno e la collaborazione di tutta la società»36 e identifica i bambini e i giovani come «agenti del cambiamento»37 che dovrebbero essere messi in grado di contribuire alla Drr.
Da quando la Sgi, insieme ad altre organizzazioni, ha proposto di stabilire il Desd nel 2002, ha esposto in varie parti del mondo le mostre di sensibilizzazione I semi del cambiamento: la Carta della Terra e il potenziale umano e Semi di speranza: visioni di sostenibilità, passi verso il cambiamento. Negli anni un gran numero di studenti, dalle scuole elementari alle superiori, ha visitato queste mostre rendendole uno strumento efficace per l’educazione ambientale.
Una delle ragioni per cui la Sgi ha attribuito grande importanza all’educazione allo sviluppo sostenibile è il desiderio di promuovere l’apprendimento del legame indissolubile tra gli esseri umani e il loro ambiente e la creazione di una grande ondata di persone di tutte le età che abbiano quel “coraggio di mettere in pratica” che il presidente fondatore della Soka Gakkai Makiguchi considerava l’obiettivo cruciale dell’educazione. Auspichiamo che ciò le incoraggerà ad agire con determinazione nelle loro comunità. Credo che queste azioni a livello locale possano tracciare una via sicura ed efficace verso la protezione dell’ambiente globale.
Disarmo e proibizione delle armi nucleari
È urgente regolamentare il commercio e la proliferazione delle armi convenzionali per evitare l’inasprirsi dei conflitti e prevenire il terrorismo, nonché arrivare al più presto alla proibizione ed eliminazione delle armi nucleari, di fatto essenzialmente inutilizzabili per la loro limitata efficacia militare e il loro catastrofico e irreversibile impatto umanitario
Infine desidero avanzare alcune proposte riguardo al disarmo e alla proibizione delle armi nucleari. Il primo punto ha a che vedere con il rafforzamento dell’intelaiatura istituzionale per la prevenzione della proliferazione di armi convenzionali, che inasprisce le crisi umanitarie e contribuisce agli attacchi terroristici nel mondo.
Ogni anno si perde un numero inimmaginabile di vite a causa dell’immissione di armi leggere in aree di conflitto.
Il Trattato sul commercio delle armi, entrato in vigore il 24 dicembre del 2014, ha l’obiettivo di regolare il commercio delle armi convenzionali, da quelle leggere – spesso chiamate “le vere armi di distruzione di massa” – ai carri armati e ai missili. Esso però è stato finora ratificato solo da settantanove stati, e nessun accordo è stato raggiunto su problematiche chiave come un meccanismo di segnalazione dei trasferimenti internazionali di armi.
La Prima conferenza degli stati parti del trattato sul commercio delle armi si è tenuta a Cancun, in Messico, nell’agosto del 2015. I partecipanti non sono riusciti a raggiungere un consenso su questioni cruciali come l’obbligo di rendere pubbliche queste segnalazioni e quali armi debbano eventualmente rientrarvi.
A partire dalla mia Proposta di pace del 1999 ho ripetutamente sollecitato l’adozione di una regolamentazione del commercio di armi, che considero una tappa fondamentale nello sforzo per la realizzazione di un mondo pacifico in questo secolo.
La crescente crisi dei rifugiati mostra quanto sia urgente e necessario utilizzare il Trattato sul commercio delle armi per porre fine alla proliferazione delle armi convenzionali. Il fatto che siano così largamente accessibili contribuisce al prolungamento e all’inasprimento del conflitto, costringendo numerosissime persone ad abbandonare le proprie case. Anche dopo la cessazione dei combattimenti armatipermane il pericolo che il conflitto si riaccenda, e ciò scoraggia le persone dal tornare a casa.
Le armi leggere, in particolare, possono essere trasportate e utilizzate con facilità, e ciò favorisce l’arruolamento forzato di soldati bambini. Si stima che nel mondo ci siano oltre trecentomila soldati bambini che rischiano ferite fisiche, traumi psicologici e la morte.38
È inoltre imperativo che il commercio internazionale di armi convenzionali sia rigidamente regolamentato allo scopo di prevenire la diffusione del terrorismo. La risposta globale al terrorismo può essere significativamente rafforzata attraverso la sinergia tra il Trattato sul commercio delle armi e le numerose convenzioni antiterrorismo stabilite finora.
Dato l’impatto dannoso della proliferazione delle armi leggere, è impellente che la comunità internazionale utilizzi il Trattato sul commercio delle armi per interrompere i cicli di odio e violenza nel mondo.
L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile elenca i flussi illegali finanziari e di armi tra i fattori che causano violenza, mancanza di sicurezza e ingiustizia; uno degli obiettivi è la loro significativa riduzione entro il 2030. Incoraggio vivamente gli stati a ratificare prontamente il Trattato sul commercio delle armi come prova del loro impegno a realizzare questo obiettivo.
Una completa accessibilità al pubblico dei dati, compresi quelli sul volume delle transazioni di armi, contribuirebbe ad aumentare la trasparenza e l’efficacia del funzionamento del Trattato.
La seconda area di disarmo di cui vorrei trattare riguarda la proibizione e l’abolizione delle armi nucleari.
L’anno scorso – settantesimo anniversario dello scoppio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki – si è tenuta presso la sede delle Nazioni Unite a New York la Conferenza delle parti per la revisione del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, che però si è conclusa senza raggiungere un accordo.
Da quando il Documento conclusivo della Conferenza di revisione del 2010 ha fatto riferimento alla natura disumana dell’utilizzo delle armi nucleari e alla necessità di attenersi al Diritto umanitario internazionale, si è registrata una crescente preoccupazione globale per le catastrofiche conseguenze umanitarie delle armi nucleari, e si sono tenute tre conferenze sul tema.
Ciò rende ancor più deplorevole il fatto che nella Conferenza di revisione del 2015 il divario tra gli stati nucleari e quelli non nucleari non sia stato colmato, e che gli stati parti del Trattato non siano riusciti a raggiungere un consenso in questo cruciale momento storico.
C’è ancora speranza, però, grazie ad alcuni notevoli sviluppi, fra cui:
- la continua crescita del numero di paesi firmatari della “Solenne promessa umanitaria” (Humanitarian Pledge), un impegno a lavorare insieme per la risoluzione del problema delle armi nucleari;
- l’adozione nel dicembre 2015 da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di varie risoluzioni ambiziose che chiedono un deciso passo in avanti;
- il sempre più ampio impegno di organizzazioni basate sulla fede e il coinvolgimento dei giovani di fronte al crescente numero di appelli della società civile per la proibizione e l’abolizione delle armi nucleari.
Dobbiamo sfruttare questi nuovi sviluppi per predisporre piani d’azione verso un mondo senza armi nucleari e iniziare concretamente a realizzarli.
Il 6 gennaio di quest’anno la Corea del Nord ha condotto un test nucleare, aumentando così la preoccupazione della comunità internazionale riguardo alla proliferazione delle armi nucleari.
Se le armi nucleari fossero impiegate in un conflitto, in qualsiasi luogo del mondo, comporterebbero effetti inimmaginabili sia in termini di quantità di vite perse sia di quantità di persone che ne patirebbero le conseguenze.
Al momento nel mondo ci sono più di quindicimila testate nucleari. Il loro utilizzo potrebbe rendere vani in un solo istante tutti gli sforzi del genere umano per la risoluzione dei problemi globali.
Prendendo come esempio la crisi dei rifugiati, le conseguenze di un’esplosione nucleare attraverserebbero i confini nazionali, quasi sicuramente determinando una crisi umanitaria di proporzioni ben maggiori di quella rappresentata dagli attuali sessanta milioni di rifugiati. Centinaia di milioni di persone potrebbero trovarsi nella condizione di dover fuggire per salvarsi. Allo stesso modo, nonostante gli sforzi profusi per prevenire il degrado del suolo – che si forma al ritmo di un centimetro ogni mille anni – un’esplosione nucleare inquinerebbe vaste porzioni della Terra.
Recenti ricerche evidenziano con preoccupazione l’impatto devastante che un conflitto nucleare, anche geograficamente limitato, comporterebbe sull’ecologia globale; le conseguenze sul clima mondiale minerebbero la produzione di cibo provocando una “carestia nucleare”.
Fino a questo momento gli sforzi per combattere la povertà e migliorare la salute pubblica attraverso gli Mdg hanno prodotto risultati significativi, e quest’opera sarà portata avanti dagli Sdg nel campo della riduzione del rischio di catastrofi e in quello delle città sostenibili. L’esistenza di armi nucleari minaccia di rendere vano tutto ciò.
Qual è quindi il significato di una sicurezza nazionale garantita dalle armi nucleari, il cui uso produrrebbe inevitabilmente conseguenze catastrofiche con immense sofferenze e sacrifici in tutto il mondo? Che cosa esattamente sta proteggendo un regime di sicurezza le cui premesse sono la possibilità di infliggere danni irreparabili e devastazioni a un ingente numero di persone? Non è forse un sistema in cui il vero obiettivo della sicurezza nazionale – proteggere le persone e la loro vita – è stato abbandonato?
Nel 1903, agli inizi di quella fase di competizione militare globale che continua ancora oggi, il presidente fondatore della Soka Gakkai Makiguchi sostenne che quando un certo tipo di competizione si rivela inefficace a raggiungere i suoi obiettivi si arriva a una trasformazione nella forma e nella natura della stessa competizione umana. «Quando le ostilità continuano per un lungo periodo di tempo diversi aspetti della vita quotidiana vengono influenzati e ciò porta inevitabilmente all’esaurimento della forza della nazione. Tali perdite non possono essere compensate da ciò che si conquista attraverso la guerra».39
I limiti della competizione militare sottolineati da Makiguchi sono stati evidenti nel corso delle due guerre mondiali e nella competizione nucleare iniziata con la guerra fredda che persiste ancora oggi.
Quanto più l’impatto umanitario e la limitata efficacia militare delle armi nucleari diventano lampanti, tanto più è evidente che queste armi sono essenzialmente inutilizzabili. La competizione militare ha raggiunto i suoi limiti e ora possiamo cogliere segnali della comparsa di un nuovo tipo di competizione internazionale incentrato sul mutuo impegno verso obiettivi umanitari.
Un esempio di ciò si può trovare in vari contributi del Sistema di monitoraggio internazionale (International Monitoring System, Ims) istituito con l’adozione del Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty, Ctbt) nel 1996. Affinché il Ctbt entri in vigore occorre ancora la ratifica da parte di otto paesi, ma l’Ims, avviato dalla Commissione preparatoria del Ctbto per individuare esplosioni nucleari in ogni parte del mondo, è già operativo.
La sua funzione centrale si è palesata in occasione della rapida individuazione delle onde sismiche e delle radiazioni nel recente test nucleare nordcoreano. Inoltre la rete globale Ims è stata usata per raccogliere dati sui disastri naturali e sull’impatto del cambiamento climatico. Alcuni esempi: fornire informazioni su terremoti sottomarini per i centri di allerta tsunami; sorvegliare in tempo reale le esplosioni vulcaniche al fine di permettere alle autorità dell’aviazione civile di diffondere avvisi tempestivi; avere traccia di eventi climatici su vasta scala e del collasso dei banchi di ghiaccio galleggianti. Il sistema è stato paragonato a un gigantesco stetoscopio per la Terra.
Come evidenziato dal Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, «persino prima di entrare in vigore, il Ctbt sta già salvando delle vite».40 Infatti, il Trattato e il suo regime di controllo, originariamente pensati per limitare la corsa alla proliferazione degli armamenti nucleari, sono diventati strumenti di salvaguardia umanitaria essenziali, che proteggono la vita di un gran numero di persone.
Sono passati vent’anni dall’adozione del Trattato. Faccio appello agli otto stati che non lo hanno ancora fatto affinché ratifichino il Ctbt il prima possibile allo scopo di aumentarne l’efficacia e assicurare che sul nostro pianeta non si possano mai più fare esperimenti con armi nucleari.
Naturalmente dobbiamo accelerare gli sforzi verso il disarmo nucleare e l’abolizione di queste armi. Al contempo dobbiamo sviluppare ulteriormente il genere di attività fornite dal Ctbt per stimolare la realizzazione di un mondo che dia la massima priorità agli obiettivi umanitari.
Nel settembre del 1957, mentre gli antagonismi della guerra fredda continuavano ad aggravarsi e la corsa agli armamenti accelerava, il mio maestro Josei Toda pronunciò una dichiarazione per l’abolizione delle armi nucleari: «Anche se nel mondo ha preso vita un movimento per la messa al bando degli esperimenti sulle armi atomiche, è mio desiderio andare oltre, affrontare il problema alla radice. Desidero rivelare e strappare gli artigli che si celano nelle profondità di quelle armi».41
Pur esprimendo il proprio accordo con le voci sincere delle persone che in tutto il modo chiedevano l’abolizione dei test nucleari, Toda andò oltre e sottolineò che una soluzione autentica era possibile solo superando il disprezzo per la vita che soggiace a un sistema di sicurezza nazionale basato sulle sofferenze e sul sacrificio di innumerevoli cittadini.
Quelli che il mio maestro chiamava “artigli” celati nelle profondità delle armi nucleari corrispondono a un modo di pensare che avvelena la civiltà contemporanea, cioè il perseguimento dei propri obiettivi a tutti i costi, della propria sicurezza e degli interessi nazionali a spese dei popoli di altri paesi, e dei propri scopi immediati incuranti dell’impatto sulle generazioni future. Con le sue parole nel cuore mi sono adoperato per la risoluzione del problema delle armi nucleari, con la convinzione che il successo di questa impresa potrebbe avviare il mondo in una direzione nuova e più umana.
Gli stati possessori di armamenti nucleari e i loro alleati sposano l’idea di non avere altra scelta se non quella di mantenere un deterrente nucleare fintanto che queste armi esisteranno. Possono anche credere che possedere un deterrente nucleare garantisca loro il controllo, ma la verità è che i pericoli di una detonazione o di un lancio accidentale si moltiplicano proporzionalmente al numero di armi nucleari e di stati che le possiedono. Viste da questa prospettiva, le armi nucleari possedute da uno stato tengono in mano i destini non solo di quel paese ma di tutta l’umanità.
Sono passati vent’anni da quando la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha emanato una Opinione consultiva sulla legalità della minaccia o dell’uso di armi nucleari. Citando l’articolo VI dell’Npt essa afferma: «Sussiste un obbligo a perseguire in buona fede e a portare a termine negoziati che conducano al disarmo nucleare in tutti i suoi aspetti sotto un severo ed efficace controllo internazionale».42
Ma negoziati in buona fede che coinvolgano tutti gli stati possessori di armamenti nucleari non sono neppure iniziati e non sembrano esserci prospettive di disarmo raggiungibili in un futuro prevedibile. Questo stato di cose è intollerabile.
Nel tentativo di uscire da questo vicolo cieco, alla Conferenza di revisione del Npt 2015 è stata sottoposta la Solenne promessa umanitaria. Finora ben più della metà degli stati membri dell’Onu, cioè centoventuno paesi, ha aggiunto la propria voce all’appello per cooperare con tutte le parti interessate, le organizzazioni internazionali e la società civile, negli «sforzi per stigmatizzare, proibire ed eliminare le armi nucleari». Tale promessa esorta tutti gli stati, con priorità immediata, a «identificare e mettere in atto misure efficaci per colmare la lacuna legale relativa alla proibizione e all’eliminazione delle armi nucleari».43
Nell’autunno scorso, in seguito alla sottomissione di numerose risoluzioni con la richiesta di tali misure efficaci, l’Assemblea generale dell’Onu ha adottato una risoluzione che istituisce un Gruppo di lavoro aperto a tutti gli stati membri (Open-Ended Working Group, Oewg) con lo scopo di impegnarsi in deliberazioni sostanziali verso questo obiettivo. La risoluzione afferma che l’Oewg si riunirà a Ginevra quest’anno «con la partecipazione e il contributo di organizzazioni internazionali e rappresentanti della società civile» e che i partecipanti dovranno «fare il massimo sforzo per raggiungere un accordo generale».44
Spero fermamente che l’Oewg riesca a superare l’impasse che ha bloccato la Conferenza di revisione dell’Npt e a realizzare l’obbligo stabilito dall’Opinione consultiva dell’Icj «a perseguire in buona fede e a portare a termine negoziati che conducano al disarmo nucleare».
Alla luce delle conseguenze umanitarie di qualsiasi uso delle armi nucleari, rivolgo un appello affinché l’Oewg, nel prendere in considerazione le preoccupazioni e integrare nelle proprie deliberazioni le voci della società civile, consideri i seguenti tre punti:
- rimozione delle forze di rappresaglia nucleari dallo stato di massima allerta;
- ritiro dell’ombrello nucleare;
- cessazione della modernizzazione delle armi nucleari.
I primi due punti dovrebbero essere resi effettivi al più presto data l’attuale evidenza che le armi nucleari sono inutilizzabili sia per le conseguenze umanitarie sia per la loro inefficacia dal punto di vista militare.
Qui va ricordato che l’uso delle armi chimiche e biologiche – che fu sviluppato in un clima di intensa competizione nel corso dei due conflitti mondiali – adesso è considerato illecito a causa delle loro conseguenze umanitarie.
Come ha affermato senza mezzi termini l’Alto rappresentante dell’Onu per il disarmo Angela Kane: «Quanti stati attualmente si vanterebbero di essere stati “dotati di armi biologiche” o “dotati di armi chimiche”? Chi si azzarderebbe adesso a dichiarare che la peste bubbonica o la poliomielite si possono usare legittimamente come armi in qualsiasi circostanza, per attacco o rappresaglia? Chi parla di un ombrello di armi biologiche?».45
In particolar modo il Documento finale della Conferenza di revisione dell’Npt del 2010 ha chiesto urgentemente agli stati nucleari di «ridurre il ruolo e il significato delle armi nucleari in tutte le politiche, le dottrine e i concetti militari e di sicurezza».46
In tal senso è interessante osservare che un gruppo di stati fra cui il Brasile ha sottoposto all’Assemblea generale dell’ottobre 2015 una risoluzione che incoraggia «tutti gli stati che appartengono ad alleanze regionali che includono qualche stato nucleare a promuovere ulteriormente una riduzione del ruolo degli armamenti nucleari».47
Un’altra risoluzione sottoposta nella stessa sessione, che vedeva il Giappone fra i principali promotori, si appellava «agli stati interessati affinché continuassero a rivedere le loro politiche, dottrine e concetti militari e di sicurezza avendo in mente un’ulteriore riduzione del ruolo e del significato che in essi rivestono le armi nucleari».48 Credo che il Giappone dovrebbe essere all’avanguardia nel trasformare il suo regime di sicurezza attualmente basato sulla deterrenza estesa dell’ombrello nucleare statunitense.
Alla vigilia del G7 previsto nel maggio di quest’anno, ad aprile si terrà a Hiroshima l’incontro dei ministri degli esteri del G7. Auspico che la loro agenda contenga anche argomenti quali la natura disumana delle armi nucleari, le questioni della non proliferazione e quelle legate al programma nucleare nordcoreano, insieme alla riduzione del ruolo degli armamenti nucleari come passo verso la denuclearizzazione del Nordest asiatico.
Del terzo punto, la modernizzazione delle armi nucleari, avevo già parlato nella mia Proposta di pace dell’anno scorso. Continuando a spendere più di cento miliardi di dollari all’anno per mantenere queste armi, rischiamo di consolidare permanentemente la grottesca disuguaglianza del nostro mondo.
Una risoluzione sottoposta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite dal Sud Africa e da altri stati nell’ottobre 2015 osservava che «in un mondo in cui i bisogni umanitari di base non sono ancora stati soddisfatti, le vaste risorse stanziate per la modernizzazione degli arsenali nucleari potrebbero invece essere dirette alla realizzazione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile».49 Se la modernizzazione delle armi nucleari proseguirà al ritmo attuale, potremo essere certi che almeno per diverse generazioni l’umanità sarà ancora costretta a vivere sotto la minaccia delle armi nucleari. Anche supponendo che tali armamenti non vengano usati, l’impiego di risorse in questa direzione sarebbe di grave impedimento al raggiungimento degli Sdg e ostacolerebbe ogni significativo miglioramento delle disuguaglianze che affliggono la società globale. Nelle parole del rappresentante sudafricano: «Il disarmo nucleare non è soltanto un obbligo legale internazionale ma anche un imperativo morale ed etico».50 Penso che queste parole esprimano potentemente i sentimenti dei sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki che hanno patito sofferenze indescrivibili, e degli altri hibakusha gravemente colpiti dalle ricerche e dagli esperimenti sulle armi nucleari in varie parti del mondo. Esse sono in sintonia anche con quei governi che hanno abbracciato la Solenne promessa umanitaria e con tutti i popoli del mondo che amano e desiderano la pace.
La Solenne promessa umanitaria (Humanitarian Pledge)
Sappiamo adesso che le conseguenze immediate, a medio e a lungo termine, di qualsiasi esplosione nucleare sarebbero notevolmente più gravi di quanto si pensava in passato. L'uso delle armi nucleari avrebbe effetti su tutta la regione e anche sull'intero globo, minacciando potenzialmente la sopravvivenza stessa dell'umanità; perciò tutti gli stati condividono la responsabilità di prevenire qualsiasi uso di armamenti nucleari. Tuttavia queste armi di distruzione di massa non sono proibite dalla legislazione internazionale e la Solenne promessa umanitaria (Humanitarian Pledge) è l'impegno a colmare tale inaccettabile lacuna.
La Solenne promessa umanitaria inizialmente fu emanata come la Solenne promessa dell'Austria, a conclusione della Conferenza di Vienna sull'impatto umanitario delle armi nucleari. Questo documento, attualmente firmato da centoventuno stati, cerca di dare impulso all'inizio dei negoziati per un trattato generale di messa fuorilegge degli armamenti nucleari.
Per il testo completo cfr. www.icanw.org/pledge
Il Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari
Il Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Comprehensive Nuclear- Test-Ban Treaty, Ctbt) proibisce qualsiasi esperimento o detonazione di ordigni nucleari. Per verificare che ne siano rispettate le prescrizioni il Trattato stabilisce una rete globale di monitoraggio e consente ispezioni sul posto in caso di eventi sospetti. La Commissione preparatoria della Ctbto (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization) fu istituita nel 1996 con sede a Vienna, in Austria. È un’organizzazione ad interim che ha il compito di costruire un regime di verifica del Ctbt in preparazione dell’entrata in vigore del Trattato e ha anche la funzione di incoraggiare tutti i paesi a ratificarlo.
Attualmente centottantatré paesi hanno firmato il Trattato e centosessantaquattro di loro lo hanno anche ratificato, fra cui tre stati detentori di armi nucleari: Francia, Federazione russa e Regno Unito. Ma prima che il Ctbt possa entrare in vigore, quarantaquattro paesi che possiedono tecnologie nucleari devono firmarlo e ratificarlo; di questi attualmente ne mancano ancora otto: Cina, Egitto, India, Iran, Israele, Corea del Nord, Pakistan e Stati Uniti. L’India, la Corea del Nord e il Pakistan non lo hanno nemmeno firmato.
Hibakusha
In giapponese si chiamano hibakusha i sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, i loro figli e i loro nipoti; questo termine significa letteralmente “persone colpite dall’esplosione”. Secondo la legge per il soccorso ai sopravvissuti alla bomba atomica, in vigore in Giappone, esistono varie categorie di hibakusha: le persone esposte direttamente ai bombardamenti nucleari; quelle che si trovavano nel raggio di 2 km dall’epicentro entro due settimane dall’esplosione; quelle esposte alla ricaduta di particelle radioattive in genere; quelle esposte nell’utero della madre.
Tuttavia di recente il termine hibakusha è stato impiegato per riferirsi a tutte le persone che in ogni luogo del mondo sono state esposte alle radiazioni, da quelle legate alla catena di produzione del combustibile nucleare fino all’uso e alla produzione di armi, specialmente nel caso dei test nucleari, a quelle causate dai processi relativi alla creazione e alla produzione di energia nucleare.
La generazione del cambiamento
Più di ogni altra cosa, sarà la profondità dell’impegno e della promessa che vivono nel cuore delle giovani generazioni a trasformare un mondo in cui le armi nucleari minacciano la vita in un luogo dove tutte le persone possano vivere in pace e manifestare appieno la propria dignità intrinseca
Alla Conferenza di revisione dell’Npt i rappresentanti di varie confessioni religiose, fra cui cristiani, ebrei e musulmani e anche la Sgi, hanno sottoposto una dichiarazione congiunta dal titolo “Comunità di fede preoccupate delle conseguenze umanitarie delle armi nucleari”. In essa si legge: «Le armi nucleari sono del tutto incompatibili con i valori sostenuti dalle nostre rispettive tradizioni di fede – il diritto delle persone di vivere in sicurezza e dignità; i dettami della coscienza e della giustizia; il dovere di proteggere i più vulnerabili e di amministrare una gestione del pianeta che lo tuteli per le generazioni future.[ …] Noi chiediamo che gli stati intraprendano il prima possibile negoziati per un nuovo strumento legale che proibisca le armi nucleari all’interno di un forum aperto a tutti gli stati, e che nessuno abbia la facoltà di bloccare».51
In precedenza ho accennato all’analisi dell’evoluzione della competizione tratteggiata dal presidente fondatore della Soka Gakkai, Tsunesaburo Makiguchi. Sicuramente è giunto il momento di riconoscere il totale fallimento della logica che soggiace al nucleare, cioè quella della competizione delle armi, sia da un punto di vista puramente militare sia per il grave fardello che continua a imporre al nostro mondo.
Spero vivamente che l’Oewg, che si riunirà quest’anno a Ginevra, si impegni in un dibattito costruttivo per tracciare un piano d’azione per identificare le misure necessarie al «raggiungimento e al mantenimento di un mondo senza armi nucleari»52 grazie allo sforzo congiunto di tutti gli stati membri delle Nazioni Unite. Spero che l’Oewg lavori avendo chiaramente in mente la Conferenza ad alto livello sul disarmo nucleare delle Nazioni Unite che dovrebbe tenersi non più tardi del 2018, e che ciò possa condurre all’inizio dei negoziati per un trattato che proibisca le armi nucleari.
Il prossimo anno cadrà il sessantesimo anniversario della dichiarazione per l’abolizione delle armi nucleari del secondo presidente della Soka Gakkai Josei Toda. È a tale dichiarazione che la Sgi si ispira nelle sue attività di costruzione di un ampio sostegno da parte dell’opinione pubblica per un mondo libero dalle armi nucleari. Siamo determinati a giungere alla proibizione e all’abolizione di queste armi; sarà un’iniziativa dei popoli del mondo, quasi una “legge internazionale della gente”, che si realizzerà grazie all’opera di tante forze diverse, sia governative sia della società civile.
Il Summit internazionale dei giovani per l’abolizione delle armi nucleari, tenuto a Hiroshima lo scorso agosto, ha formulato una promessa solenne in cui si dichiara: «Le armi nucleari sono il simbolo di un’epoca ormai superata; un simbolo che pone una notevole minaccia alla nostra realtà presente e per il quale non c’è posto nel futuro che intendiamo creare».53
Il Summit, organizzato da sei gruppi fra cui la Sgi, ha visto la partecipazione di giovani provenienti da ventitré paesi e anche del delegato per i giovani del Segretario generale dell’Onu, Ahmad Alhendawi. I partecipanti hanno promesso solennemente di far conoscere al mondo e al futuro le esperienze degli hibakusha, di accrescere la consapevolezza dei loro coetanei e di intraprendere varie iniziative per proteggere il futuro comune dell’umanità.
Lo scorso ottobre a New York sono stati presentati sia il lavoro sia i risultati del Summit dei giovani in un evento collaterale al Primo Comitato dell’Assemblea generale, che si occupa di disarmo e di sicurezza internazionale. L’evento si è concentrato sulle azioni che le nuove generazioni possono intraprendere, sia alle Nazioni Unite sia nelle rispettive comunità, per contribuire ad aprire una strada verso un mondo libero dalle armi nucleari.
Lavorando al fianco di individui e gruppi che condividono queste idee, desideriamo fornire un sostegno affinché questi summit per l’abolizione delle armi nucleari continuino a svolgersi costantemente. Per citare nuovamente la promessa solenne dei giovani: «Abolire le armi nucleari è nostra responsabilità; è nostro diritto e non rimarremo più fermi a guardare che vadano sprecate le opportunità di abolizione delle armi nucleari. Noi giovani, in tutta la nostra diversità e con profonda solidarietà, promettiamo solennemente di realizzare questo scopo. Noi siamo la generazione del cambiamento».54
Se questa promessa pronunciata a Hiroshima dai giovani di tutto il mondo metterà radici nel cuore delle persone di tutto il pianeta, non ci saranno più barriere insormontabili né scopi irrealizzabili.
Più di ogni altra cosa, sarà la profondità dell’impegno e della promessa che vivono nel cuore delle giovani generazioni a trasformare un mondo in cui le armi nucleari minacciano la vita e la dignità delle persone in un luogo dove tutti possano vivere in pace e manifestare appieno la propria dignità intrinseca.
La Sgi promette solennemente di offrire il proprio incrollabile sostegno all’abolizione delle armi nucleari e al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile basandosi sulla solidarietà dei giovani, la generazione del cambiamento. In questo modo continueremo a lavorare per un mondo, una società globale, in cui nessuno venga lasciato indietro.
Note
1) UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite), "UNHCR Mid-Year Trends 2015" (Tendenze UNHCR del primo semestre 2015), http://www.unhcr.org/56701b969.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 3.
2) IFRC (Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa), "New IFRC Report Calls for Greater Recognition and Support for Local Humanitarian Actors" (Il nuovo rapporto dell'IFRC chiede maggiore riconoscimento e sostegno delle iniziative umanitarie locali), comunicato stampa del 24 settembre 2015, http://www.ifrc.org/en/news-and-media/press-releases/general/wdr-press-release/ (ultimo accesso 26 gennaio, 2016).
3) UNHCR, "Refugees Endure Worsening Conditions as Syria's Conflict Enters 5th Year" (Peggioramento delle condizioni dei rifugiati a cinque anni dall'inizio del conflitto siriano), comunicato stampa del 12 marzo 2015, http://www.unhcr.org/5501506a6.html (ultimo accesso 26 gennaio, 2016).
4) S. Giannelli, "Migrants Between Scylla and Charybdis" (Migranti fra Scilla e Cariddi), Inter Press Service, 11 maggio 2015, http://www.ipsnews.net/2015/05/migrants-between-scylla-and-charybdis-2/ (ultimo accesso 26 gennaio, 2016).
5) Jun Shioda, Ganji o tsuide (Portare avanti l'eredità di Gandhi), Nihon Hoso Kyokai, Tokyo, 1998, p. 201. 6) A. Buddharakkhita, The Dhammapada: The Buddha's Path of Wisdom, Buddhist Publication Society, Kandy, 1996, vol. 10, pp. 130-2.
7) K. Jaspers, Socrates, Buddha, Confucius, Jesus: The Paradigmatic Individuals, Harcourt Brace & Co., San Diego, New York and London, 1962, p. 24. Ed. italiana: Socrate, Buddha, Confucio, Gesù. Le personalità decisive, Fazi editore, 2013.
8) cfr. Ibidem, p. 35.
9) SDLPE, 95.
10) Ibidem, 134.
11) cfr. Distinzione fra conseguimento della Buddità teorico e concreto, RSND, 2, 839.
12) T. Makiguchi, Kachiron (La filosofia del valore), versione ampliata e riveduta a c. di J. Toda, Soka Gakkai, Tokyo, 1961, p. 186.
13) M. Nussbaum, Not for Profit: Why Democracy Needs the Humanities, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, and Woodstock, United Kingdom, 2012, pp. 79-80. Ed. italiana: Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, Bologna, 2013.
14) T. Makiguchi, Makiguchi Tsunesaburo zenshu, vol. 5, p. 131.
15) Ibidem, vol. 4, p. 44.
16) Ibidem, vol. 4, p. 45.
17) A. Zolli e A. M. Healy, Resilience (Resilienza), Headline Publishing Group, London, 2012, p. 21.
18) UN Women, "Photo Essay: They Were Not at the Beijing Conference, but. . ." (Reportage fotografico: non erano alla Conferenza di Beijing, ma...), 4 febbraio 2015, http://www.unwomen.org/en/news/stories/2015/02/they-were-not-at-the-1995-beijing-conference-but (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
19) UN News Centre, "Interview with Amina J. Mohammed, Secretary-General's Special Adviser on Post -2015 Development Planning" (Intervista con Amina J. Mohammed, Consigliere speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per il Piano di sviluppo dopo il 2015), 4 dicembre 2014, http://www.un.org/apps/news/newsmakers.asp?NewsID=113 (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
20) W. Maathai, Unbowed: A Memoir, Arrow Books, London, 2008, p. 122. Ed. italiana: Solo il vento mi piegherà. La mia vita, la mia lotta, Sperling & Kupfer, Milano, 2007.
21) UNHCR, "World Refugee Day: All Stories" (Giornata Mondiale del rifugiato: tutte le storie), 2015, http://www.unhcr.org/refugeeday/us/stories/ (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
22) D. Ikeda e V. Nanda, Our World to Make: Hinduism, Buddhism, and the Rise of Global Civil Society (Il nostro mondo da costruire: Induismo, Buddismo e l'ascesa di una società civile globale), Dialogue Path Press, Cambridge, Massachusetts, 2015, p. 152.
23) J. Toda, Toda Josei Zenshu (Opere complete di Josei Toda), Seikyo Shimbunsha, Tokyo, 1981-1990, vol. 1, p. 20.
24) J. Maritain, Man and the State, University of Chicago, Chicago, 1951, p. 80. Ed. italiana: L'uomo e lo stato, Marietti, 2003.
25) UNICEF (Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia), Centro stampa, "50 Years after UNICEF Received Nobel Peace Prize, Children Still Face 'Conflict and Crisis, Deprivation and Disadvantage'-- UNICEF Chief Statement" (50 anni dopo il ricevimento del Premio Nobel per la pace da parte dell'UNICEF i bambini affrontano ancora "conflitti e crisi, deprivazione e svantaggi"), 6 ottobre 2015, http://www.unicef.org/media/media_85742.html (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
26) Cfr. UNHCR, "Worldwide Displacement Hits All-time High as War and Persecution Increase" (Massimo storico di sfollati a livello mondiale dovuto alla crescita delle guerre e delle persecuzioni), News Stories, 18 giugno 2015, http://www.unhcr.org/print/558193896.html (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
27) UN General Assembly, "United Nations Declaration on Human Rights Education and Training" (Dichiarazione delle Nazioni Unite sull'educazione e la formazione ai diritti umani) A/RES/66/137 adottata dall'Assemblea generale, 19 dicembre 2011, http://daccess-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N11/467/04/PDF/N1146704.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), pp. 3-4.
28) Ibidem, p. 3.
29) Cfr. IEA (Agenzia Internazionale dell'Energia), "Key Trends in CO2 Emissions-Excerpt from: CO2 Emissions from Fuel Combustion (2015 Edition)" (Tendenze chiave delle emissioni di CO2-Estratto da: Emissioni di CO2 da combustione di carburante), https://www.iea.org/publications/freepublications/publication/CO2EmissionsTrends.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. vi.
30) TEMM (Meeting tripartito dei ministri dell'Ambiente di Corea, Cina e Giappone), "Footprints of TEMM: Historical Development of the Environmental Cooperation among Korea, China, and Japan from 1999 to 2010" (Impronte del TEMM: sviluppo storico della cooperazione ambientale tra Corea, Cina e Giappone dal 1999 al 2010), 2010, http://www.temm.org/inc/fdn.jsp?fdir=temm_tm_others&fname=TEMM_0818.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 2.
31) Cfr. UN, "Sustainable Development Goals Fact Sheet" (Scheda informativa sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile), 2015, http://www.un.org/sustainabledevelopment/wp-content/uploads/2015/08/Factsheet_Summit.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 6.
32) W. Maathai, op. cit., p. 130.
33) SGI (Soka Gakkai Internazionale), "Panel at Sendai UN World Conference on Disaster Risk Reduction Highlights Opportunities for Cooperation between China, South Korea and Japan" (Un comitato di esperti alla Conferenza mondiale delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di catastrofi evidenzia le opportunità di cooperazione tra Cina, Corea del Sud e Giappone), comunicato stampa, 17 marzo 2015, http://www.sgi.org/in-focus/press-releases/panel-at-sendai-un-world-conference-on-disaster-risk-reduction-highlights-opportunities-for-cooperation-between-china-south-korea-and-japan.html (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
34) Cfr. FAO (Organizzazione delle nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura), "Nothing Dirty Here: FAO Kicks Off International Year of Soils 2015" (Niente di sporco qui: la FAO lancia l'Anno internazionale dei suoli 2015), 4 dicembre 2014, http://www.fao.org/news/story/en/item/270812/icode/ (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
35) Cfr. UN, "Sustainable Development Goals Fact Sheet," p. 8.
36) UNISDR (Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di catastrofi), "Sendai Framework for Disaster Risk Reduction 2015-2030" (Protocollo di Sendai per la riduzione del rischio di catastrofi 2015-2030), 2015, http://www.preventionweb.net/files/43291_sendaiframeworkfordrren.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 13.
37) Ibidem, p. 23.
38) Cfr. UN SG Envoy on Youth (Office of the Secretary-General's Envoy on Youth) (Ufficio dell'inviato per la gioventù del Segretario generale), "4 out of 10 Child Soldiers Are Girls" (4 soldati bambini su 10 sono femmine), 12 febbraio 2015, http://www.un.org/youthenvoy/2015/02/4-10-child-soldiers-girls/ (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
39) T. Makiguchi, Makiguchi Tsunesaburo zenshu, op. cit., vol. 2, p. 395.
40) K. Ban, Video Message to the Conference "Comprehensive Nuclear Test-Ban Treaty: Science and Technology 2011" (Videomessaggio alla Conferenza "Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari: scienza e tecnologia"), 8 giugno 2011, https://www.ctbto.org/fileadmin/user_upload/SandT_2011/statements/statement-un-secretary-general.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
41) J. Toda, op. cit., vol. 4, p. 565.
42) ICJ (Corte Internazionale di Giustizia), Legality of the Threat or Use of Nuclear Weapons (Legalità della minaccia o dell'uso di armi nucleari) Advisory Opinion (Opinione consultiva), in Icj Reports 1996, 8 luglio 1996, http://www.icj-cij.org/docket/files/95/7495.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 267.
43) ICAN (Campagna internazionale per la messa al bando delle armi nucleari), "Humanitarian Pledge" (Solenne promessa umanitaria), 2015, http://www.icanw.org/pledge/ (ultimo accesso 25 dicembre 2015).
44) Assemblea generale delle Nazioni Unite, "Taking forward Multilateral Nuclear Disarmament Negotiations" (Far avanzare i negoziati per il disarmo nucleare multilaterale), A/RES/70/33, adottata dall'Assemblea generale, 7 dicembre 2015, http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/70/33 (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 3.
45) A. Kane, "Disarmament: The Balance Sheet" (Disarmo: il bilancio), 2014 Foreign Policy Lecture, 7 aprile 2014, https://unoda-web.s3.amazonaws.com/wp-content/uploads/2014/04/HR_statement_NZ_Wellington_NZIIA.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 2.
46) Assemblea generale delle Nazioni Unite, "2010 Review Conference of the Parties to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons. Final Document (Conferenza di Revisione delle parti sul Trattato di Non proliferazione delle armi nucleari 2010. Documento finale), vol. 1" NPT/Conf.2010/50 (vol. 1), 18 giugno 2010, http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=NPT/CONF.2010/50%20%28VOL.I%29 (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 21.
47) Assemblea generale delle Nazioni Unite, "Towards A Nuclear-weapon-free World: Accelerating the Implementation of Nuclear Disarmament Commitments" (Verso un mondo libero dalle armi nucleari: accelerare l'implementazione degli impegni per il disarmo nucleare), A/RES/70/51, adottata dall'Assemblea generale, 7 dicembre 2015, http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/70/51 (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 5.
48) Assemblea generale delle Nazioni Unite, "United Action Towards the Total Elimination of Nuclear Weapons" (Azione congiunta verso l'eliminazione totale delle armi nucleari), A/RES/70/40, adottata dall'Assemblea generale, 7 dicembre 2015, http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/70/40 (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 3.
49) Assemblea generale delle Nazioni Unite, "Ethical Imperatives for A Nuclear-weapon-free World" (Imperativi etici per un mondo libero dalle armi nucleari), A/RES/70/50, adottata dall'Assemblea generale, 7 dicembre 2015, http://www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/70/50 (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 3.
50) Assemblea generale delle Nazioni Unite, "Statement by South Africa during the Thematic Debate on Nuclear Weapons" (Dichiarazione del Sud Africa durante il dibattito tematico sulle armi nucleari), 19 ottobre 2015, http://statements.unmeetings.org/media2/7653271/south-africa-19th.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 2.
51) Assemblea generale delle Nazioni Unite, "NPT NGO Presentation: Faith Communities Concerned about the Humanitarian Consequences of Nuclear Weapons" (Presentazione NPT ONG: Comunità di fede preoccupate delle conseguenze umanitarie delle armi nucleari), 2015 Review Conference of the Parties to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons (NPT) (Conferenza di revisione delle parti del NPT 2015), 27 aprile-22 maggio 2015, Dichiarazione del 1 maggio, http://www.un.org/en/conf/npt/2015/statements/pdf/individual_6.pdf (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
52) Assemblea generale delle Nazioni Unite, "Taking forward Multilateral Nuclear Disarmament Negotiations", A/RES/70/33, adottata dall'Assemblea Generale, 7 dicembre 2015, http://www.un.org/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/70/33 (ultimo accesso 26 gennaio 2016), p. 1.
53) International Youth Summit for Nuclear Abolition (Summit internazionale dei giovani per l'abolizione delle armi nucleari), "Generation of Change: A Youth Pledge for Nuclear Abolition" (La generazione del cambiamento: una solenne promessa dei giovani per l'abolizione delle armi nucleari), 30 agosto 2015, http://internationalyouthsummit.org/pledge/ (ultimo accesso 26 gennaio 2016).
54) Ibidem.
(Traduzione di Marialuisa Cellerino)