«Scrivo perché nessuno mi ascolta!»
Questo è il messaggio che leggo e rileggo ogni volta che mi trovo alla stazione ferroviaria di Navacchio (Pisa): poche parole che indicano le difficoltà esistenziali di un'intera società...
Su questo tema, segue la recensione del libro "Parlarsi. La comunicazione perduta" di Eugenio Borgna, psichiatra, docente e saggista, a cura di Lelio Demichelis e pubblicata su Alfabeta2.
Siamo una società che parla molto, ma che non ascolta. Ed è un parlare compulsivo e veloce, dove tutti dicono tutto, tutti vogliono dire qualcosa e non importa cosa. Ma se tutti dicono, anzi gridano, bisogna infine dire gridando più forte per superare il rumore di fondo di grida senza comunicazione. Tutti parlano e tweettano e bloggano e sui social network il dire o i selfie sono subito superati dal dire e dal selfie successivo, il dire non ha sedimentazione, non nasce da riflessione interiore, non dialoga anche quando si crede di condividere (condividere non è dialogare) perché ciò che si è detto in realtà non si sedimenta in chi riceve. Producendo appunto un rumore fatto di parole in libertà che passano attraverso molteplici canali di comunicazione, dando l’illusione di una grande libertà ma che cadono quasi sempre nel vuoto del non ascolto, o dell’ascolto appunto istantaneo (che produce un vuoto analogo), tutti futuristicamente sedotti dal mito della velocità delle parole mentre in realtà comunichiamo monologhi, stimolati dalla potenza facile del mezzo tecnico che sembra offrire a tutti una tribuna immensa di potenziali ascoltatori.
E’ (siamo) una società di monologhi e di monologanti, dove tutti replicano il dire (i modi di dire e il come li si dice) degli altri e come gli altri, producendo in altro modo quel monologo collettivo già analizzato a suo tempo da Gunther Anders. Dove il dire ha surclassato il parlarsi, ovvero il parlare con gli altri per comunicare, discutere, sognare, immaginare, comminare insieme, prendersi cura degli altri e della parola che si deve usare per comunicare. La parola oggi è ma senza più parlare. Il vocabolario si è ristretto a 140 caratteri, usiamo emoticon ed emoji al posto delle parole - quella cosa che ci distingue come umani. Non più le parole ma lo smartphone: che evita il contatto dei corpi, non ci si guarda negli occhi, non si scrutano i segni del corpo altrui ma si sta chinati con lo sguardo su uno schermo che non vede nulla e nulla ci fa vedere. Che sembra permettere un grande discorso collettivo, ma sono invece monologhi che quindi nascondono, meglio: negano ogni vero discorso. Siamo diventati silenziosi, pur gridando sempre di più. Siamo ciechi perché non osserviamo e siamo sordi perché non ascoltiamo più, chiusi nel nostro solipsismo narcisistico e auto-referenziale. In famiglia, nella società, nella politica, in economia tutti dicono ma nessuno ascolta gli altri, nessuno si prende cura degli altri (migranti, esclusi, malati, giovani, disoccupati, eccetera). Siamo anoressici della parola e del parlarsi ma bulimici del dire. Anche la società non parla più, non progetta più, non si pensa più, non si immagina più. La parola dice, ma non dialoga e quindi non cura. Perché in realtà solo dialogando ci si prende cura degli altri, si conoscono gli altri, ma si conosce anche se stessi e si costruisce una società. La parola è l’estensione di sé, è la manifestazione di sé verso gli altri. È il porgersi verso gli altri, dicendo, per poi ascoltare.
Per re-imparare a parlare e a parlarsi consigliamo caldamente il nuovo libro (Parlarsi. La comunicazione perduta), di Eugenio Borgna, psichiatra, docente e saggista. Un libro meravigliosamente terapeutico (e le riflessioni iniziali sono un poco analisi sociologica ma un poco anche auto-analisi personale).
Dunque, il libro di Borgna. Poetico non solo per i molti poeti citati ma perché usa una parola poetica per parlarci (e aggiunge “la psichiatria, quando si confronta con le grandi emozioni della vita, ha bisogno della poesia”). Ricordandoci fin dall’inizio una cosa che abbiamo dimenticato, che “la sola comunicazione razionale non riesce ad essere strumento di rinascita interiore, di crescita e di maturazione, che non sono possibili se non quando la comunicazione non sia contestualmente razionale ed emozionale. Ma in vita siamo ogni volta tentati di considerare le cose alla luce della loro significazione razionale, senza fare attenzione a quella emozionale: non meno importante”. Oppure (aggiungiamo), qualcuno produce incessantemente emozioni per noi, gioca sul nostro non-razionale (siamo la società del godimento e dell’edonismo) per scopi propri, pensiamo al marketing emozionale e relazionale, alla pubblicità, alle paure indotte dal populismo, al rottamare come scopo della vita, allo storytelling infinito della rete e della tecnica. E invece, ricorda Borgna: “Comunicare è entrare in relazione con se stessi e con gli altri, comunicare è trasmettere esperienze e conoscenze personali, comunicare è uscire da se stessi per immedesimarsi nella vita interiore di un altro da noi: nei suoi pensieri e nelle sue emozioni. Noi entriamo in comunicazione, e cioè in relazione con gli altri, in modo tanto più intenso e terapeutico quanta più passione è in noi, quante più emozioni siamo in grado di provare, e di vivere. Se vogliamo creare una comunicazione autentica con una persona, se vogliamo davvero ascoltarla, non possiamo non farci accompagnare dalle nostre emozioni”. E si comunica con le parole, ma anche con il corpo vivente, con lo sguardo e con il silenzio, perché esiste anche il linguaggio enigmatico del silenzio, un silenzio che parla con altre parole, “quelle dello stupore, della gioia e della speranza, il silenzio ardente del mare e delle stelle, il silenzio del dolore e dell’angoscia, della tristezza e della disperazione, il silenzio delle cattedrali” Perché, citando Romano Guardini: “Solo nel silenzio si attua la conoscenza autentica. Conoscenza non è soltanto notizia”. E ancora: “Chi non fa che parlare, non si possiede realmente, giacché scivola via di continuo da se stesso e ciò che egli dona agli altri non sono che vacue parole”. Bisogna quindi re-imparare il silenzio interiore, “i calmi indugi sulle domande importanti, sui compiti gravi della vita, sui problemi riguardanti una persona che ci deve stare a cuore. Allora faremo una singolare esperienza: che il nostro mondo interiore è vasto, che in esso si può andare sempre più a fondo”. Giusto, ma difficile (aggiungiamo ancora) in un mondo (economico, tecnico, politico, esistenziale) che fa della semplificazione il suo mantra, che rifiuta la complessità e il pensare complesso e approfondito (preferendo fare surf sulle informazioni), che vive in un incessante stato di eccezione o di emergenza. Difficile praticare la calma e la riflessione; ma oltremodo necessario, anzi urgente.
Recuperando la solitudine che, scrive Borgna, “è una condizione psicologica e umana nella quale ci si separa temporaneamente dal mondo delle persone e delle cose per rientrare in se stessi: nella nostra interiorità e nella nostra immaginazione; e questo senza smarrire mai il desiderio e la nostalgia delle relazioni con gli altri. (…) L’isolamento è invece una condizione psicologica e sociale nella quale si è chiusi, e talora quasi imprigionati, in se stessi; sia perché ci si vuole allontanare da ogni contatto con gli altri sia perché la malattia ci induce a farlo, sia perché sono gli altri ad allontanarsi da noi”. La solitudine e il silenzio diventano allora premessa per ogni relazione, ci aiutano a vivere meglio e più intensamente, distinguendo le cose essenziali da quelle che non lo sono. Anche se è evidente che “uno degli aspetti dominanti della condizione umana di oggi, e di quella giovanile in particolare, è il rifiuto della solitudine e l’incantamento per il digitale”.
Parlare, parlarsi, comunicare. Parole ambivalenti ma oggi svalutate, inflazionate, svuotate, quindi da recuperare nel loro significato umano e non solo di comunicazione mediatica. Comunicazione, che significa rendere comune (dal latino munus, dono). E dialogare: entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri, sani o malati che siano, perché, scrive Borgna, comunicazione è sinonimo di cura.
Ancora possibile, pure “in un mondo così aridamente e così radicalmente digitalizzato”.