Rendersi liberi
Libertà e assenza di giudizio personale, fondamentalmente, sono la stessa cosa. La questione, però, non è così semplice, perché le stesse parole “libertà” e “giudizio” hanno accezioni che cambiano in base a te che stai leggendo, al contesto culturale in cui ti trovi, alle tue esperienze di vita, al senso di connessione che hai con te, con la vita, con gli altri. Per tale ragione, la libertà di cui sto parlando non è definibile in modo concettuale, ma può soltanto essere esperita quando l’anima è pronta: libertà, in questo contesto, diventa sinonimo di pace, di fiducia, di interconnessione. Dal momento però in cui asserisco che non posso definire con le parole ciò di cui sto tentando di parlare, il testo che sto scrivendo diventa quindi possibile, anzi probabile, fonte di fraintendimento. Tra l’altro, se hai già letto i miei ultimi scritti, potresti chiederti cosa possa esserci di nuovo in quest’ultima mia stesura.
In effetti, già il fatto che parta da un presupposto di incomunicabilità e che mi rivolga direttamente a te, sono già passi ulteriori rispetto agli altri miei scritti. Ma questa incomunicabilità come la risolviamo? Semplicemente, non la risolviamo: se ti senti in sintonia con quello che sto scrivendo, allora hai già capito e non c’è bisogno di troppe spiegazioni, se invece “non ti risuona”, c’è sempre la speranza che ciò che adesso ti appare in modo confuso domani possa sembrarti molto più chiaro e sensato (ma senza pretesa, da parte mia, che lo sia). Tutto ciò, però, porta ad un ulteriore problema: la comunicazione si fa almeno in due, alla pari, e i significati si costruiscono insieme, qui invece sto scrivendo da solo. E quindi? E quindi lascio accesa la fiammella della speranza che le mie parole non rimangano come lettera morta, ma come vite vive che possano incontrarsi: magari un giorno io e te ci incontreremo o reincontreremo, qui o altrove, in questa vita o in altre, e nel frattempo queste riflessioni che sto scrivendo potrebbero aver già lasciato elementi di unione. Come dicevano gli antichi, e con un’accezione ben diversa da quella contemporanea: «Verba volant, scripta manent», ovvero: la parola scritta rimane dove si trova, non va da nessuna parte e quindi serve a poco; le parole dette a voce, a tu per tu, possono arrivare invece molto lontano nel tempo e nello spazio, perché “volano”, e quindi lasciare qualcosa di molto più profondo e duraturo. Io non posso far “volare” da solo le mie parole come in quest’accezione (piuttosto inconsueta) della citazione latina, ma possiamo farlo insieme e, nel farlo, già non sarebbero più “mie” parole, ma “nostre” (il che già sarebbe molto meglio e auspicabile). I “miei” pensieri e sentimenti non sono in realtà “miei”, ma sono entità che viaggiano e che ci attraversano: da quali pensieri e sentimenti vogliamo farci attraversare? Cosa vogliamo contribuire a diffondere?
Dopo queste premesse, che già potrebbero averti dato un po’ di disorientamento (ma che sono funzionali al proseguo), vorrei tornare all’argomento espresso all’inizio, cioè alla libertà.
Per favore, fermati un attimo sulle ultime cose che ho scritto: i pensieri e i sentimenti non sono nostri, ma sono entità che viaggiano, che si spostano da una persona all’altra, pur con il contributo di ciascuno di noi. Ci sei? Stai entrando in questa visione? Dovrebbe già essere l’inizio dello smontaggio del proprio ego separativo, per chi ancora non l’avesse smontato.
All’inizio ho scritto: «Libertà e assenza di giudizio personale, fondamentalmente, sono la stessa cosa». Ti suona o non ti risuona? Provo a esplicitare meglio questa frase, per quanto mi è possibile.
In sintesi: pace e accettazione incondizionata (cioè senza giudizi personali) della volontà del tutto, o volontà divina, o volontà della vita, o volontà della rete di Indra, o necessità (cinque modi diversi di nominare la stessa essenza), sono la stessa cosa. Da questo punto di vista, le sofferenze e le bellezze di questo mondo, le sue assurdità e i suoi misteri (belli e brutti) sono una necessità. Già, ma una necessità per... cosa? Dal mio punto di vista, sono una necessità per allenare la capacità di amare. Tale allenamento va di pari passo con il miglioramento della nostra consapevolezza e dei nostri rapporti. Ovviamente il presupposto di base per tutto ciò è che ci sia piena fiducia nella vita e nelle cose che ci propone, soprattutto in quelle cose che vanno al di là della nostra comprensione.
Il precedente paragrafo in corsivo è un po’ denso, se ti va ti suggerisco una pausa.
Se te la senti di andare avanti, vorrei ora chiederti di mettere a confronto la visione delle cose che ti ho finora suggerito con il breve testo seguente che, in tempo di coronavirus, circola spesso sui social per evidenziare che le attuali politiche governative, più o meno a livello planetario, servono per renderci schiavi. Mi riferisco a questi cinque punti attribuiti a Osho Rajneesh (1931-1990):
«Come rendere l'uomo schiavo in cinque passi:
1. mantieni l’uomo il più debole possibile;
2. mantieni l’uomo il più possibile nell’ignoranza e nell’illusione;
3. mantieni l’uomo il più spaventato possibile;
4. mantieni l’uomo il più infelice possibile;
5. mantieni gli uomini lontani gli uni dagli altri il più possibile».
Che te ne pare? Come ti senti? Questi cinque punti sono davvero un’analisi socio-politica della contemporaneità?
Se, dopo le tue riflessioni, vuoi conoscere anche le mie, ti dico che, pur essendo d’accordo, c’è qualcosa che non mi torna: una lettura letterale porterebbe a pensare che la schiavitù (e con essa la libertà) sia una condizione legata a scelte che non dipendono da noi (in questo caso a scelte politiche, di cui nello specifico tutte quelle fatte in tempo di coronavirus). Mi “suona” male, non è questa la libertà o la schiavitù a cui sto pensando.
Provo a riscrivere queste frasi in un modo che mi sembri più armonico e anche più responsabilizzante:
«Come rendere la tua anima libera in cinque passi:
1. mantienila il più possibile forte, cioè fiduciosa nella vita, di fronte agli accadimenti sgraditi o dolorosi: il male non viene mai per nuocere;
2. accompagna la cura delle relazioni cuore a cuore con la cura dell’intelletto, affinché l’ignoranza e l’illusione (ovvero le credenze di conoscere la realtà) lascino il posto ad uno spirito di ricerca che non pretenda di sapere;
3. lascia al tuo corpo il diritto di ammalarsi e di morire quando la volontà del tutto così desidera: l’anima ha cura del corpo e l’intelletto cerca di mantenerlo in buona salute, ma l’anima ha bisogno anche di fare l’esperienza della morte: quando vivi così, difficilmente puoi spaventarti;
4. abbi cura delle relazioni con te, con l’ambiente, con gli altri, con la vita: felicità è gioire di esistere;
5. fai quello che desideri e che più è vicino alla tua natura, alla tua sensibilità e alla sensibilità delle persone intorno a te, senza piegarti acriticamente a regole e leggi su cui la tua anima non è d’accordo».
Che te ne pare? Continua tu, se hai riflessioni da aggiungere puoi scriverle o comunque condividerle con chi vuoi. Fai di questo testo ciò che vuoi.
testo di pubblico dominio, no rights reserved,
28 aprile 2021
Impronte di gentilezza
Impronte di gentilezza
Per ogni donna che ho amato
un bacio di daimoku
e un inchino rispettoso
sogna il mio cuore.
(Francesco Galgani, 22 aprile 2021, www.galgani.it)
L’amore per la verità è una forma di cecità?
Nel giardino della vita, gli esseri umani sono felici e a proprio agio. Questo giardino è pieno di piante e animali d’ogni genere, alberi pieni di frutti, alberi senza frutti, l’aria è buona e la temperatura gradevole. Qui gli esseri umani amano la realtà, cioè il tutto, senza giudizi personali: la principale consapevolezza e conoscenza di ogni essere umano è quella di sentirsi parte del tutto e interdipendente con tutto. Da questo senso di unione, sgorga un amore che permette di conoscere l’esistente tramite covibrazione, empatia, gratitudine, compassione.
Nel giardino, gli umani non hanno paura di morire e non disprezzano le esperienze di dolore, perché, sentendosi nodi di un’immensa rete, la rete della vita, hanno uno sguardo poco centrato su di sé e molto orientato invece alla qualità delle relazioni. La volontà del tutto, cioè della vita, viene accettata per quello che è, senza sovrapposizioni di giudizi personali.
In questo giardino, non esistono il bene e il male, il giusto e lo sbagliato: le proprie azioni sono guidate innanzitutto dal cuore e dalle relazioni. La mente, utile per risolvere i problemi pratici, come costruirsi una casa o procurarsi del cibo, esiste in ogni essere umano, ma, essendo al servizio del cuore e della collettività, è una mente con poche inquietudini: non ha idee da difendere, non ha avidità, non conosce l’orgoglio.
Non ci sono persone molto ricche o molto povere: il senso di appartenenza alla collettività umana e, con essa, alla natura, prevale sulla tentazione di accumulare. Nel giardino, prima di uccidere un albero per costruire una casa o altre piante per procurarsi del cibo, gli umani recitano preghiere di ringraziamento e misurano le proprie azioni alle reali necessità, perché, nel cuore di ognuno, vale il principio di creare la minor sofferenza possibile. Per questa stessa ragione, gli animali non sono considerati cibo, ma coinquilini della casa comune, cioè del giardino della vita, con sentimenti e necessità da rispettare. La solitudine, intesa come condizione problematica esistenziale, non è conosciuta.
In questo giardino, ci sono però alberi magici che hanno effetti particolari, alberi da rispettare ma anche da evitare. Si sa che uno di questi, simile nell’aspetto ad un albero di arance, offusca la vista e, nei casi peggiori, può rendere ciechi. E’ chiamato “albero delle molteplici verità” o “albero delle creazioni illusorie”. Si dice che chi mangi dall’albero venga colpito dal germe infettivo della “verità” e del “giudizio” e che tale germe possa contagiare altre persone, creando una disastrosa epidemia.
Un giorno accadde che alcune persone, forse non credendo alla pericolosità dell’albero o forse non riconoscendolo, cominciarono a mangiarne alcuni frutti, simili in tutto e per tutto ad arance. Al primo spicchio, ciascuno cominciò a percepire il frutto che aveva in mano come diverso e migliore degli altri frutti. Ciascuno cominciò anche a sentirsi più intelligente e più nel “giusto” rispetto agli altri. Al secondo spicchio, accadde qualcosa di straordinario. Un uomo gridò: «Questo è lo spicchio della verità!». Un altro uomo: «No, questo spicchio che ho io è lo spicchio della verità!!». Iniziò un’accesa discussione in cui volò anche qualche schiaffo, ciascuno pretendeva di avere ragione. Il litigio coinvolse tutti, uomini e donne, bambine e bambini, vecchi e giovani. Alla fine, con rabbia e risentimento, la comunità si separò e gruppi di persone andarono in luoghi diversi, ciascun gruppo con la propria verità. Per ogni arancia che colsero, sorsero civiltà umane diverse in luoghi diversi, con regole diverse, lingue diverse, visioni del mondo diverse, religioni diverse… e soprattutto spesso in guerra cruenta tra di loro.
Generazione dopo generazione, passavano i secoli, poi i millenni e le cose non facevano che peggiorare. Nessuno si ricordava più della felicità nel giardino della vita, che divenne mito. Ognuno pretendeva che esistesse almeno una verità oggettiva e che, oltretutto, l’unica verità fosse la propria. Mentre ciascuno si attaccava ossessivamente a quelle che riteneva le “proprie” idee (senza peraltro rendersi conto che le idee non sono mai il frutto di una sola mente), il cuore non veniva più ascoltato. Il senso di separazione e di solitudine dominavano la vita delle persone, l’inquietudine e la paura di ammalarsi e di morire guidavano le scelte dei governi, tutti vedevano “nell’altro” un potenziale nemico e la natura era devastata, l’ecosistema quasi distrutto. C’erano già state guerre mondiali e molti temevano che presto ce ne sarebbe stata un’altra. La disparità tra ricchi e poveri era così esagerata da essere ormai ingestibile e violenze di ogni genere accadevano ovunque. Chi tentava di dire «Vogliamoci bene!», veniva messo in croce.
«Tutta colpa di quel germe infettivo!», dirà qualcuno dei miei lettori. «Questa storia non ha senso, non potrà mai accadere un disastro del genere!», borbotterà qualcun altro.
Amici miei, non preoccupatevi, sono soltanto mie fantasie. Comunque, se mai dovesse accadere qualcosa del genere, ricordiamoci che esiste un semplice antidoto. Basta rinunciare all’attaccamento alle proprie idee, rigettare in blocco qualsiasi argomentazione che voglia sostenere in senso assoluto il “vero” e il “falso” o il “giusto” e lo “sbagliato” e accettare la “volontà del tutto” di cui facciamo parte, senza sovrapporvi giudizi personali. Affinché l’antidoto funzioni, intelletto e cuore dovranno rimanere collegati. Il primo segnale di guarigione è che rabbia e solitudine si attenueranno molto, o spariranno, cambieranno anche le proprie reazioni di fronte alle cose che non ci piacciono: al posto di un rifiuto, ci sarà la consapevolezza che gli accadimenti sgraditi o dolorosi sono utili per progredire nel proprio percorso di consapevolezza. Un altro segnale di guarigione è che la fiducia nella vita prevarrà sul desiderio di controllo: voler controllare le cose, gli accadimenti, le persone, ecc., non sembrerà più un bisogno innato, ma una (poco consapevole) reazione alla paura di vivere.
Un effetto collaterale dell’antidoto è un forte alleggerimento: chi si muove nel mondo sentendosi oppresso o schiacciato dal peso delle proprie esperienze, del proprio passato, delle ingiustizie subite e dei rancori mai placati, scoprirà che questo macigno non avrà più motivo di esistere.
L’amore per la realtà è la più bella forma di amore, perché equivale ad una completa accettazione incondizionata della vita, ovvero ad una profonda pace interiore con effetti positivi su noi stessi e sul nostro ambiente. L’amore per la verità potrebbe invece essere l’amore per un solo “spicchio” della realtà, con la pretesa che esista solo il proprio spicchio: stiamo attenti, se mai ci dovesse accadere qualcosa del genere potrebbe essere un segnale di nevrosi, con effetti nefasti per noi e per gli altri.
Per concludere, qualcuno potrebbe notare che “volontà del tutto” significhi “volontà di Dio”: se per Dio intendiamo qualcosa di molto simile alla “rete di Indra”, in cui ciascuno di noi è posto in un nodo della rete, allora… potrebbe essere così.
Scritto senza pretesa di conoscenza e senza firma (*),
23 aprile 2021
(*) Firmare i propri lavori creativi è un “sano” atto narcisistico, nel senso che non c’è nulla di male. Nel momento però in cui ci accorgiamo che i “nostri” pensieri non sono “nostri”, ma il frutto di infinite relazioni, allora questo atto narcisistico, per quanto legittimo, non è più necessario. Del resto, il mito antico a cui questo testo vagamente si ispira non ci è giunto firmato, perché è di “tutti”, è un “bene comune”, non è di proprietà di chi l’ha scritto, chiunque sia stato.
Poesia > Un Medico vero
Un Medico vero
Un medico vero può definirsi tale se la vita di chi gli sta di fronte, quando è in pericolo, cerca di salvare,
se le sofferenze altrui, usando le sue conoscenze, costantemente fa in modo di alleviare,
se cerca di lottare di fianco al suo paziente, senza mai nulla tralasciare,
fino a quando questi non sarà finalmene guarito, il suo cuore cercherà di rallegrare,
mentre, nell'intimo decide che mai lo potrà abbandonare,
nel "giuramento di Ippocrate'', promise di "non nuocere''..., per questo mai ad alcuno del male dovrà fare...
Un medico vero è tale se userà la sua professione,
come semplice mezzo per realizzare la sua grande e speciale missione,
solo dopo aver sviluppato coraggio, unito a saggezza e compassione,
ma nel suo intento egli riuscirà,
quando su onesta sincerità ogni scelta e suo gesto baserà
Nobile è il motivo per cui è nato,
di certo non quello d'esser da tutti vanamente ammirato,
o, banalmente, da questi venir pagato,
di certo non guarderà nessuno dall'alto in basso, da lui nessuno si dovrebbe sentir usato,
o peggio ancora, disprezzato,
ma con tutto il cuore venir invece amato e rispettato
Un medico vero non scende mai a compromessi,
non cerca in alcun modo dall'alto approvazioni o permessi,
mai arriverebbe a osar pensare,
"il fine giustifica i mezzi... " se così facendo potrebbe gli altri ingannare,
in tal caso la gente dovrebbe usar la ragione e molti falsi miti diligentemente sfatare
Un medico vero è tale se, per aiutare chi soffre, la sua vita è disposto a rischiare,
consapevole che ciò che fa non è arte infusa da qualche divinità da adorare,
ma frutto della compassione insita nella vita universale, come espressione del suo modo unico d'amare,
così è per chi oggi, in scienza e coscienza, con dedizione sceglie davvero di curare,
A volte può sembrare che stia rinunciando a qualcosa...,
un domani, in realtà, molto di più dalla vita riceverà, davvero questa è cosa profonda e misteriosa,
meglio dire preziosa ...
Un medico è un vero essere umano
se, umilmente e al meglio delle sue capacità, ti da veramente una mano,
e gioisce nel vedere corpo e mente, trasformarsi da fonte di malattia in un essere sano,
pienamente felice e dignotoso,
ricco di emozioni e coraggioso
A tutti coloro che lottano per l'altrui salute, queste mie parole vanno,
i vostri nomi incisi nel cuore di tanti rimarranno,
poiché tutti un forte grazie a gran voce leveranno,
quale miglior "medaglia al valore" le vostre vite sperar potranno?
Siate certi che di eterna luce esse splenderanno
Dora Falbo
05.04.2021
Dedicato a tutti coloro che con cuore sincero si prendono cura degli altri