Nel giardino della vita, gli esseri umani sono felici e a proprio agio. Questo giardino è pieno di piante e animali d’ogni genere, alberi pieni di frutti, alberi senza frutti, l’aria è buona e la temperatura gradevole. Qui gli esseri umani amano la realtà, cioè il tutto, senza giudizi personali: la principale consapevolezza e conoscenza di ogni essere umano è quella di sentirsi parte del tutto e interdipendente con tutto. Da questo senso di unione, sgorga un amore che permette di conoscere l’esistente tramite covibrazione, empatia, gratitudine, compassione.
Nel giardino, gli umani non hanno paura di morire e non disprezzano le esperienze di dolore, perché, sentendosi nodi di un’immensa rete, la rete della vita, hanno uno sguardo poco centrato su di sé e molto orientato invece alla qualità delle relazioni. La volontà del tutto, cioè della vita, viene accettata per quello che è, senza sovrapposizioni di giudizi personali.
In questo giardino, non esistono il bene e il male, il giusto e lo sbagliato: le proprie azioni sono guidate innanzitutto dal cuore e dalle relazioni. La mente, utile per risolvere i problemi pratici, come costruirsi una casa o procurarsi del cibo, esiste in ogni essere umano, ma, essendo al servizio del cuore e della collettività, è una mente con poche inquietudini: non ha idee da difendere, non ha avidità, non conosce l’orgoglio.
Non ci sono persone molto ricche o molto povere: il senso di appartenenza alla collettività umana e, con essa, alla natura, prevale sulla tentazione di accumulare. Nel giardino, prima di uccidere un albero per costruire una casa o altre piante per procurarsi del cibo, gli umani recitano preghiere di ringraziamento e misurano le proprie azioni alle reali necessità, perché, nel cuore di ognuno, vale il principio di creare la minor sofferenza possibile. Per questa stessa ragione, gli animali non sono considerati cibo, ma coinquilini della casa comune, cioè del giardino della vita, con sentimenti e necessità da rispettare. La solitudine, intesa come condizione problematica esistenziale, non è conosciuta.
In questo giardino, ci sono però alberi magici che hanno effetti particolari, alberi da rispettare ma anche da evitare. Si sa che uno di questi, simile nell’aspetto ad un albero di arance, offusca la vista e, nei casi peggiori, può rendere ciechi. E’ chiamato “albero delle molteplici verità” o “albero delle creazioni illusorie”. Si dice che chi mangi dall’albero venga colpito dal germe infettivo della “verità” e del “giudizio” e che tale germe possa contagiare altre persone, creando una disastrosa epidemia.
Un giorno accadde che alcune persone, forse non credendo alla pericolosità dell’albero o forse non riconoscendolo, cominciarono a mangiarne alcuni frutti, simili in tutto e per tutto ad arance. Al primo spicchio, ciascuno cominciò a percepire il frutto che aveva in mano come diverso e migliore degli altri frutti. Ciascuno cominciò anche a sentirsi più intelligente e più nel “giusto” rispetto agli altri. Al secondo spicchio, accadde qualcosa di straordinario. Un uomo gridò: «Questo è lo spicchio della verità!». Un altro uomo: «No, questo spicchio che ho io è lo spicchio della verità!!». Iniziò un’accesa discussione in cui volò anche qualche schiaffo, ciascuno pretendeva di avere ragione. Il litigio coinvolse tutti, uomini e donne, bambine e bambini, vecchi e giovani. Alla fine, con rabbia e risentimento, la comunità si separò e gruppi di persone andarono in luoghi diversi, ciascun gruppo con la propria verità. Per ogni arancia che colsero, sorsero civiltà umane diverse in luoghi diversi, con regole diverse, lingue diverse, visioni del mondo diverse, religioni diverse… e soprattutto spesso in guerra cruenta tra di loro.
Generazione dopo generazione, passavano i secoli, poi i millenni e le cose non facevano che peggiorare. Nessuno si ricordava più della felicità nel giardino della vita, che divenne mito. Ognuno pretendeva che esistesse almeno una verità oggettiva e che, oltretutto, l’unica verità fosse la propria. Mentre ciascuno si attaccava ossessivamente a quelle che riteneva le “proprie” idee (senza peraltro rendersi conto che le idee non sono mai il frutto di una sola mente), il cuore non veniva più ascoltato. Il senso di separazione e di solitudine dominavano la vita delle persone, l’inquietudine e la paura di ammalarsi e di morire guidavano le scelte dei governi, tutti vedevano “nell’altro” un potenziale nemico e la natura era devastata, l’ecosistema quasi distrutto. C’erano già state guerre mondiali e molti temevano che presto ce ne sarebbe stata un’altra. La disparità tra ricchi e poveri era così esagerata da essere ormai ingestibile e violenze di ogni genere accadevano ovunque. Chi tentava di dire «Vogliamoci bene!», veniva messo in croce.
«Tutta colpa di quel germe infettivo!», dirà qualcuno dei miei lettori. «Questa storia non ha senso, non potrà mai accadere un disastro del genere!», borbotterà qualcun altro.
Amici miei, non preoccupatevi, sono soltanto mie fantasie. Comunque, se mai dovesse accadere qualcosa del genere, ricordiamoci che esiste un semplice antidoto. Basta rinunciare all’attaccamento alle proprie idee, rigettare in blocco qualsiasi argomentazione che voglia sostenere in senso assoluto il “vero” e il “falso” o il “giusto” e lo “sbagliato” e accettare la “volontà del tutto” di cui facciamo parte, senza sovrapporvi giudizi personali. Affinché l’antidoto funzioni, intelletto e cuore dovranno rimanere collegati. Il primo segnale di guarigione è che rabbia e solitudine si attenueranno molto, o spariranno, cambieranno anche le proprie reazioni di fronte alle cose che non ci piacciono: al posto di un rifiuto, ci sarà la consapevolezza che gli accadimenti sgraditi o dolorosi sono utili per progredire nel proprio percorso di consapevolezza. Un altro segnale di guarigione è che la fiducia nella vita prevarrà sul desiderio di controllo: voler controllare le cose, gli accadimenti, le persone, ecc., non sembrerà più un bisogno innato, ma una (poco consapevole) reazione alla paura di vivere.
Un effetto collaterale dell’antidoto è un forte alleggerimento: chi si muove nel mondo sentendosi oppresso o schiacciato dal peso delle proprie esperienze, del proprio passato, delle ingiustizie subite e dei rancori mai placati, scoprirà che questo macigno non avrà più motivo di esistere.
L’amore per la realtà è la più bella forma di amore, perché equivale ad una completa accettazione incondizionata della vita, ovvero ad una profonda pace interiore con effetti positivi su noi stessi e sul nostro ambiente. L’amore per la verità potrebbe invece essere l’amore per un solo “spicchio” della realtà, con la pretesa che esista solo il proprio spicchio: stiamo attenti, se mai ci dovesse accadere qualcosa del genere potrebbe essere un segnale di nevrosi, con effetti nefasti per noi e per gli altri.
Per concludere, qualcuno potrebbe notare che “volontà del tutto” significhi “volontà di Dio”: se per Dio intendiamo qualcosa di molto simile alla “rete di Indra”, in cui ciascuno di noi è posto in un nodo della rete, allora… potrebbe essere così.
Scritto senza pretesa di conoscenza e senza firma (*),
23 aprile 2021
(*) Firmare i propri lavori creativi è un “sano” atto narcisistico, nel senso che non c’è nulla di male. Nel momento però in cui ci accorgiamo che i “nostri” pensieri non sono “nostri”, ma il frutto di infinite relazioni, allora questo atto narcisistico, per quanto legittimo, non è più necessario. Del resto, il mito antico a cui questo testo vagamente si ispira non ci è giunto firmato, perché è di “tutti”, è un “bene comune”, non è di proprietà di chi l’ha scritto, chiunque sia stato.