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Filosofia

Amore di coppia?

Amore di coppia, folliaL’amore di coppia è forse l’incontro tra due follie che, per ragioni misteriose e fuori da qualsiasi schema, scelgono di provare, in qualche modo, a stare insieme?

Tale incontro di follie è forse dominato da un vortice di energie creatrici e distruttrici che, a seconda della prevalenza delle une o delle altre, ne determinano l’esito?

Non lo so, forse tra tutti gli aspetti della vita questo è quello in cui regole e leggi meno si adattano.

O forse è tutto diverso da ciò che ho scritto. Gli antropologi ne sanno qualcosa, forse.

(Francesco Galgani, 28 gennaio 2021)

La scienza contemporanea è inadeguata, religiosa, disumanizzata e lontana dalla comprensione della realtà?

In un mio precedente articolo di più di tre anni fa, avevo già mosso seri dubbi sull'attuale modo di "fare scienza", mi riferisco alle denuncie, documentate, che riportai in: «Alla ricerca della scienza...».

Qui voglio mettere in evidenza alcune problematicità insite nel metodo scientifico.

Innanzitutto la domanda che pongo nel titolo di questo articolo è già di per sé problematica, ovvero: «La scienza contemporanea è inadeguata, religiosa, disumanizzata e lontana dalla comprensione della realtà?». E' una domanda problematica per tanti motivi.

Il primo aspetto problematico è che non esiste "la scienza", ma casomai tante scienze, fatte di scienziati che spesso litigano tra di loro: ciò nonostante, ho di proposito scritto "la scienza" per sottolineare che ciò a cui mi sto riferendo è il cosiddetto "metodo scientifico", che dovrebbe mettere in comune le varie scienze. Metodo che, nei miei anni di studi e di ricerche, ho sovente contestato su un aspetto specifico. Mi riferisco alla piena adesione generalizzata, di più o meno tutto il mondo scientifico contemporaneo, a quanto disse il fisico inglese William Thomson, meglio conosciuto come Lord Kelvin:

«Ogni qualvolta vi è possibile misurare ed esprimere per mezzo di numeri l'argomento di cui state parlando, voi conoscete effettivamente qualcosa: quando ciò non vi è possibile, o non ne siete capaci, scarsa e insoddisfacente è, da un punto di vista scientifico, la vostra conoscenza».

Per quello che è il mio sentore, ricondurre un fenomeno complesso e reale a numeri asettici e astratti non significa né conoscerlo, né averne dato una descrizione che necessariamente corrisponda a qualcosa di esistente. Gli esempi sarebbero infiniti, quelli a me più vicini provengono dal mondo della Psicologia accademica e scientifica, nella quale si vuole, per forza, far rientrare l'essere umano dentro schemi fatti di numeri, grafici, tabelle, test. Forse ricondurre l'essere umano a numeri legati da formule significa negarne il libero arbitrio e le infinite possibilità creative, trasformative e imprevedibili?

All'atto pratico, comunque, la degenerazione, anzi, putrefazione, dovuta a questo modo di ragionare, si concretizza in "splendidi" risultati come l'uso dell'intelligenza artificiale per distinguere i criminali dai non criminali soltanto dalle caratteristiche fisiche del volto (per inciso, ciò fa parte di quel settore della psicologia "predittiva" che mai mi è piaciuta).

Il secondo aspetto problematico della mia domanda è l'aggettivo "religiosa". La scienza è religiosa? Qui mi riferisco a due contrapposizioni. La prima è che la scienza dovrebbe sempre basarsi sul dubbio e sulla falsificabilità, e mai su verità, che invece sono proprie delle religioni. La seconda è che la scienza non dovrebbe essere un luogo chiuso, per pochi "iniziati" che hanno titolo di poter scrivere su riviste scientifiche, con un linguaggio codificato e comprensibile a pochi... ma, al contrario, dovrebbe essere un luogo aperto, per tutti. Su questo aspetto il discorso sarebbe molto lungo, mi limito a constatare che l'attuale approccio "per pochi eletti" non funziona, essendo le più prestigiose riviste scientifiche un luogo di riciclaggio di informazioni false e tendenziose (cfr. La maggioranza delle ricerche scientifiche sono false). Vorrei inoltre richiamare l'art. 33 della nostra Costituzione, disapplicato da tutti coloro che ritengono che un certo sapere debba rimanere all'interno di una certa cerchia di persone (come nel caso di vari codici deontologici che vietano il libero insegnamento, come ben esemplificato dall'art. 21 del Codice deontologico degli psicologi italiani).

Il terzo aspetto problematico della mia domanda iniziale è che la scienza possa essere disumanizzata e lontana dalla comprensione della realtà. La problematicità è nei presupposti: esiste una realtà oggettiva, ovvero indagabile a prescindere da chi la studia? Secondo me, no. Parimenti, rendere l'approccio scientifico come qualcosa di indipendente dal ricercatore, in quanto osservatore di una realtà esterna ed oggettiva, significa spazzare via tutti i problemi di etica e di sentimento. Ciò non può che degenerare in una scienza dove tutto è ammesso. Ma una tale scienza a cosa serve?

Dopo tutti questi aspetti problematici, lascio la parola a Corrado Malanga, che nel libro "Alien Cicatrix" (vedi e-book integrale in PDF, fonte), a pag. 141 e seguenti, ha messo in evidenza seri problemi del metodo scientifico, ne riporto un estratto:

 

Magia, madre di scienza e religione

MAGIA, MADRE DI SCIENZA E RELIGIONE: VERSO UNA NUOVA COMPRENSIONE DEL TERRITORIO DELLA PNL

UN GRAFICO PER DESCRIVERE LA COMPRENSIONE DELL’UNIVERSO NEL TEMPO

Adesso è di moda parlare di un nuovo modo di vedere le cose che sarebbe necessario per comprendere a fondo l’Universo che ci circonda.
L’uomo, durante la sua evoluzione, ha modificato il suo rapporto con l’Universo, visto come insieme geometrico al cui interno egli si colloca. Ciò, ovviamente, è accaduto poiché l’uomo non è sempre stato in grado di comprendere, o meglio, lo stato di comprensione delle cose che l’essere umano mette in opera attualmente nulla ha a che fare con quello di cui egli disponeva anche soltanto pochi anni fa. Se l’uomo impara, acquisisce strumenti migliori e vede, è vero, le stesse cose che vedeva prima, ma in modo sostanzialmente differente. Da un punto di vista puramente meccanicistico si può ammettere che l’uomo, quello che, nel nostro caso, rappresenta l’osservatore del fenomeno fisico, sia in grado, a seconda dei prerequisiti in suo possesso, di descrivere in modo talmente diverso il medesimo osservabile, cosicché due descrizioni dello stesso oggetto, eseguite in momenti diversi ma lette dopo parecchio tempo da un ricercatore ignaro, indurrebbero quest’ultimo ad interpretarle come riguardanti due realtà completamente diverse.
Per fare un banale esempio possiamo prendere l’idea suggerita dall’apparizione di un fulmine ed esaminarne l’evoluzione nel tempo.
L’uomo primitivo, privo di conoscenze di fisica, probabilmente vedeva nel fulmine una manifestazione del mondo divino.
Con il passare dei secoli la visione del fulmine ha acquisito sfumature sempre più precise ed oggi esso ci appare come una scarica elettrica tra cielo e terra, poiché tra questi due si accumulano, in certe condizioni, forti differenze di potenziale.
Questo modo di interagire con la natura non ci sorprende ed è utile per comprendere anche come il nostro cervello, con i suoi modelli mentali, si adegui alle situazioni secondo il proprio livello di conoscenza.
Particolarmente difficile è quella fase dell’osservazione del fenomeno fisico nella quale si è già consci della sua esistenza, ma non si possiedono ancora i prerequisiti per identificarne la natura.
Esiste, infatti, un periodo temporale in cui il problema non si pone: quando non ci si è ancora accorti che esiste un fenomeno da studiare.
In questa situazione non ci si pongono problemi, non si studia il fenomeno e non ci si arrovella per trovare la spiegazione di qualcosa di cui non si conosce ancora l’esistenza. Nello stesso istante in cui ci si accorge dell’esistenza di un fenomeno inaspettato, ma ancora non lo si sa identificare, ci si trova immediatamente ad utilizzare, da un lato, i modelli mentali imparati in precedenza ed a rifiutare l’esistenza del fenomeno stesso, dicendo a se stessi che i propri sensi, le proprie apparecchiature e quant’altro si sbagliano; dall’altro lato si è invogliati a creare universi dotati di nuove regole, fatte apposta perché il fenomeno che si è osservato possa trovare in essi adeguata collocazione.
Fenomeni che non sono presi in considerazione dalla scienza ufficiale semplicemente perché questa non se n’è ancora accorta, come, ad esempio, quelli di natura paranormale, gli UFO, i fantasmi od altro, sono un esempio di quanto appena detto e chi, invece, si è già accorto della loro esistenza non ha, d’altra parte, che pochi strumenti per dimostrarla.
Dopo questo periodo, di durata più o meno lunga, si passa, senza esitazione, al riconoscimento dell’esistenza del fenomeno e, da quel momento in poi, ci si avvicina progressivamente, in modo più o meno rapido ma sempre asintotico, alla sua giusta interpretazione.
Se, in un classico grafico cartesiano, si disegna una retta orizzontale ad indicare il 100% della comprensione del fenomeno, mentre sull’asse x si pone il tempo, con lo zero in corrispondenza dell’istante in cui la presenza del fenomeno stesso viene notata, il grafico che descrive la sua comprensione nel tempo si avvicinerà progressivamente alla retta orizzontale, pur rimanendo sempre sotto di essa. Se arrivasse a toccarla si avrebbe la completa comprensione del fenomeno che si sta studiando e questo ci è vietato dalla Fisica moderna; questo divieto è legato all’esistenza del principio di indeterminazione di Heisemberg.

Fenomeno da comprendere

Tale principio dice, in parole povere, che, se si cerca di conoscere con la massima precisione una particolare caratteristica di qualcosa, non ci si possono attendere, nel contempo, dati precisi riguardo ad altre sue caratteristiche.
Se, ad esempio, si conosce perfettamente la velocità di una particella elementare, non se ne conoscerà la posizione esatta nello spazio (figuriamoci nel tempo - nda).
Per maggior precisione bisogna osservare che la funzione matematica che descrive il processo di comprensione del fenomeno fisico comprende una componente oscillatoria. Tale componente fa sì che la funzione si alzi e si abbassi, in modo più o meno marcato, rispetto al grafico costruito per mezzo del processo matematico di best fitting.
Il carattere oscillatorio della comprensione del fenomeno attorno ad una posizione media significa che, col trascorrere del tempo, esso viene a volte percepito più precisamente ed a volte meno, mentre ci si avvicina, ad ogni oscillazione, mediamente un po’ di più alla sua corretta interpretazione. Le oscillazioni sono di ampiezza sempre più piccola, ma con una frequenza in aumento con trascorrere del tempo, ovvero, mentre ci si avvicina sempre più alla comprensione finale del fenomeno, si fanno sempre più frequenti le piccole correzioni, in contrasto con le poche, ma grandi, variazioni di comprensione che avvengono appena dopo la scoperta dell’esistenza del fenomeno stesso.
Questo grafico rappresenta, dunque, l’evoluzione del sistema percettivo dell’uomo e, di conseguenza, della sua capacità di conoscere quanto di osservabile c’è attorno a lui, in accordo con la sovrapposizione dei sistemi induttivo e deduttivo e con quelli divergente e convergente tanto cari al Piajet.
Non è per niente vero che l’uomo impara attraverso una semplice sequenza di esperimenti disposti in modo tale da permettergli di aumentare la propria conoscenza di un fenomeno in modo lineare, sequenziale nello spazio e nel tempo, come ci vorrebbero far credere alcuni moderni fisici meccanicisti. Per costoro un osservatore potrebbe acquisire conoscenza del fenomeno solamente attraversando una sequenza di tappe disposte come le lettere dell’alfabeto: non si può comprendere il fenomeno G se prima non si è fatto l’esperimento F e così via.
Tuttavia ciò è in netto contrasto con quello che succede in realtà, cioè che le più importanti scoperte scientifiche, se non addirittura tutte, avvengono mentre lo scopritore si occupa d’altro, in momenti in cui non pensa neppure lontanamente ad un esperimento al riguardo. Evidentemente le scoperte vengono fatte utilizzando un’altra procedura.
Sto parlando, in particolare, di quella parte del grafico che rappresenta il momento in cui il fenomeno viene recepito dall’osservatore; in quel momento ancora non esistono regole che lo descrivano, quindi non possono nemmeno esistere progetti da mettere in atto per identificare quale esperimento sia più opportuno eseguire per capirci qualcosa.
Questa condizione si avvicina molto ad un attimo di Buddità e non certo ad un momento in cui si mette a frutto l’esperienza di studio acquisita in tanti anni di lavoro, come vorrebbero farci credere i fisici meccanicisti (e Piero Angela - nda).

SCIENZIATO MODERNO O DISADATTATO SOCIALE?

È stato divertente esporre più volte l’analisi della psiche di molti uomini di scienza, ma non per questo scienziati, la quale mostra perché essi si sono dedicati spesso a scienze difficili, considerate “occulte” dai comuni mortali.
Capita frequentemente di studiare la fisica perché non si è in grado di mettersi in relazione con gli altri, così si pensa che, dopo, si potrà parlare a loro come se si fosse un sacerdote di una setta antica e sconosciuta, nella quale si è gli unici a capire le proprie parole, superando in tal modo la paura di una possibile incomprensione.
L’incomprensione sarebbe giustificata dalla difficoltà di una materia che solo gli eletti possono comprendere; di conseguenza ci si autoproclamerebbe eletti.
In realtà il fisico moderno si è davvero posto da solo nella posizione di eletto, chiudendosi in una gabbia dorata nella quale la comunicazione con gli altri è preclusa dal linguaggio iniziatico utilizzato. D’altra parte questo atteggiamento nasce dalla paura di comunicare
mediante il linguaggio comune, perché, scendendo sul terreno che è di tutti, forse il fisico moderno dovrebbe ammettere la sua incapacità a relazionarsi con gli altri.
Dunque  per  il  fisco  moderno  ciò  che  proprio  non  deve  poter  esistere  è  che  la comprensione sia alla portata di molti (se non di tutti) e non solamente di coloro che hanno studiato a lungo nei centri di studio “autorizzati”.
Ammettere che molti possono capire significherebbe demolire il muro di protezione che egli ha costruito a sua difesa.
Fisico o chimico che sia, costui (lo scientista) perde, così, il contatto con la realtà che lo circonda, dimostrandosi capace, è vero, di elaborare dati anche in modo complesso, ma pure totalmente incapace di osservare l’Universo che lo circonda, con il quale non sa più relazionarsi da tempo.
Lo scientista fallisce, quindi, proprio laddove voleva emergere. Se egli voleva essere l’anello di congiunzione tra l’Universo ed il comune mortale, ebbene, non può più esserlo, poiché non ascolta, non guarda, non si accorge dell’Universo, essendo sostanzialmente pauroso di esprimersi e di interagire con l’esterno.
La sindrome da paura dello scientista meccanicista si evince, poi, dal suo sviscerato amore per gli algoritmi matematici, insomma per le formule.
Il suo amore per quest’aspetto della scienza galileiana nasce dal fatto che l’esistenza stessa  della  formula  pone  lo  scientista  di  fronte  al  fatto  compiuto:  non  di  fronte all’incertezza su come vanno le cose nell’Universo, ma ad una certezza che elimina ab initio l’esistenza di un eventuale libero arbitrio.
Sempre e comunque la Fisica classica nega l’esistenza del libero arbitrio e questo punto fermo, per lo scientista moderno e galileiano, è una garanzia che tutto andrà secondo regole predeterminate dalle leggi fisiche.
Tutto nasce dal desiderio di deresponsabilizzarsi di fronte agli uomini, sostenendo che, se le cose vanno così, non è colpa o merito dello scienziato, bensì delle formule matematiche che descrivono il fenomeno fisico in esame.
Così  lo  scienziato  moderno,  totalmente  deresponsabilizzato  nei  riguardi  delle  proprie azioni, studia “cose” senza interessarsi di “come” le “cose” verranno poi utilizzate. Dall’inquinamento alla  clonazione,  dai  cibi  GM (Geneticamente Modificati)  al  progetto segreto MKultra (Mind Kontrol ultra) lo scienziato moderno studia e basta, ed ha un atteggiamento totalmente asettico riguardo al resto del mondo. Lo scienziato “perfetto” non ha  cuore  e  non  fa  suonare  il  campanello  del  sentimento,  perché,  se  così  fosse,  si relazionerebbe con quella società con la quale non è in grado di correlarsi per paura di risultare ad essa inadatto; egli trasforma la sua incapacità di comunicare in una qualità assolutamente desiderabile.  Allo stesso modo lo psichiatra può arrivare a sostenere che non deve esistere nessun rapporto emotivo tra sé ed il proprio paziente, il quale deve essere curato asetticamente, onde evitare i processi di transfert e controtransfert a volte presenti in terapie come l’ipnosi e persino nelle semplici terapie di sostegno psicologico.

HEISEMBERG CONTRO EINSTEIN COME SANSONE CONTRO I FILISTEI?

Lo stesso Heisemberg, profondamente marxista e quindi determinista, si lamentava, nelle sue memorie, del fatto che fosse toccata proprio a lui una siffatta scoperta, che lo sconvolgeva interiormente e distruggeva le sue più radicate convinzioni ideologiche.
La scoperta del Principio d’Indeterminazione è una spina nel fianco della Fisica moderna, la quale non sa perché esiste, non sa come interpretarlo in senso fisico e non sa niente sull’indeterminazione e su cosa la provoca.

Dall’altra parte della barricata c’era l’idea einsteiniana che Heisemberg si sbagliasse, perché “Dio non gioca a dadi!” (Albert Einstein).

Al di qua di quella barricata, che allora divideva la scienza in due partiti e che divide tuttora gli scienziati di mezzo pianeta, c’erano, e rimangono tuttora, i fisici quantistici.
Essi, sorvolando sull’inadeguatezza della scienza moderna, rimanevano in attesa di un loro futuro messia, il quale, sotto forma di una nuova matematica, avrebbe rimesso le cose a posto. Questo messia non è ancora arrivato e nessuno dei fisici di oggi si è degnato di prendere in considerazione il fatto che, forse, era stato compiuto un errore di fondo, a monte di tutta la Fisica, quello di non voler guardare al significato che sta dietro una formula e di non voler interpretare le sacre scritture rappresentate dalle leggi della Fisica, poiché tale interpretazione altro non può essere che soggettiva.
Se la scienza consiste nel vedere in modo oggettivo e non soggettivo, quest’ultimo tipo di approccio deve essere per sempre negato ai fisici.
Chiedendo lumi ad alcuni chimici quantistici del mio dipartimento sul significato di certe formule concernenti il comportamento degli elettroni, mi sentii raggelare il sangue quando questi mi risposero nello stesso modo che avrebbe utilizzato Khomeini riguardo ai suoi dogmi religiosi.
La domanda era semplice: cosa succede ad un elettrone mentre passa da un orbitale ad un altro? La Fisica mi dice cosa c’è prima e cosa c’è dopo, ma non quello che accade nel mezzo, perché mancano le formule, gli algoritmi.
La risposta fu che non mi dovevo preoccupare di quello che succedeva nel mezzo e che anzi, cercando di  capirlo, avrei corso il rischio di impazzire.

CHI DI FORMULA FERISCE...

Dunque, finita la garanzia dell’esistenza della formula, finita la ricerca. Quest’atteggiamento, come vedremo più avanti, è lo stesso che caratterizza la religione, dalla quale la scienza, erroneamente, vuole distaccarsi.
Einstein (http://digilander.libero.it/n8/) era, invece, profondamente convinto dell’esistenza del divino e dava ad esso la responsabilità di aver creato l’Universo con tutte le sue regole.  Per  Einstein  interpretare  le  leggi  dell’Universo  voleva  dire  comprendere  Dio, mentre Heisemberg, dal suo punto di vista totalmente ateo, rimaneva momentaneamente sconfitto, poiché lo scientismo marxista faceva acqua da tutte le parti.
Secondo Einstein bastava  recitare le formule matematiche per guardare Dio negli occhi. http://www.segreto.net/segreto/cap01.htm.
Ma anche Einstein doveva subire una dura sconfitta: vediamo come.
Newton, scopritore della cosiddetta forza di gravità, pensava che, siccome i conti gli tornavano, la sua formula fosse giusta, quindi giusta la formula, giusta la teoria e si poteva dire che la forza di gravità esisteva, perché esisteva una formula che descriveva il fenomeno fisico che l’aveva ispirata.
Un bel po’ di decenni dopo, Einstein s’inventava la piegatura dello spazio-tempo: per Newton era la fine! Non esistevano più neppure le forze, figuriamoci quella di gravità. Wimberg, in una sua pubblicazione scientifica popolare, dichiarava:
“Non esiste nessuna ragione per cui le mele caschino per terra.”
Quindi la formula esisteva, ma non esisteva il fenomeno fisico da essa descritto!
Qualche  decennio  dopo  l’invenzione  della  curvatura  dello  spazio-tempo,  Einstein  si trovava completamente spiazzato dalle nuove teorie, quando queste affermavano che non esiste nessuno spazio-tempo che si pieghi e, se lo spazio-tempo deve proprio esistere, questo sta fermo e non si sgualcisce nemmeno un pochino.
Sono anche fatti dell’attualità quotidiana, mentre la NASA sta provando ancora a misurare piccoli effetti della relatività generale, tentando di far tornare le cose e soprattutto le formule, le quali, invece, cominciano a non tornare più.
Da un punto di vista puramente filosofico quello che stava (e sta) accadendo alla fisica ed alla scienza tutta, era (ed è) che la certezza che l’esistenza di formule matematiche desse garanzia di verità, crollava (e crolla tuttora) di fronte alla totale inadeguatezza delle formule stesse a descrivere l’Universo.
Da un lato, alla fine dei conti, Einstein dice che l’Universo non si può osservare con chiarezza, perché tutto è relativo, e dall’altro Heisemberg afferma che, mentre si osserva qualcosa la si perturba, cosicché essa ci si presenta in modo palesemente diverso da ciò che è in realtà.
Queste due affermazioni riducono a pezzi il metodo galileiano!
A Galileo la scienza moderna fa dire che la prima cosa da fare è osservare il fenomeno fisico e descriverlo bene, poi riprodurlo anche in laboratorio ed infine creare l’algoritmo che lo descrive. Ma se il fenomeno fisico non può essere correttamente osservato e se ciò viene affermato persino dalle formule di Einstein e di Heisemberg, allora a cosa servono le formule della Fisica, se non a dire che le formule della Fisica non servono più?

(tratto dal libro "Alien Cicatrix" di Corrado Malanga, e-book integrale in PDF, fonte, pag. 141 e seguenti)

(Francesco Galgani, 23 gennaio 2021)

Noi creatori dell’universo

E’ tipico dell’essere umano “confondere” la realtà con i propri desideri, paure, sentimenti e credenze? “Confondiamo” la realtà oppure “costruiamo” la realtà?

Desideri, paure, sentimenti e credenze derivano dalla propria consapevolezza di sé, che è personale, e quindi non contestabile, ma al contempo fortemente condizionata da tutte le relazioni (con le persone, gli animali, le piante, l’ambiente) e dalle necessità e caratteristiche corporee.
La vita è relazione, le relazioni dirigono i desideri, le paure, i sentimenti e le credenze, quindi la vita dà precise indicazioni su cos’è la realtà.

Non c’è altra realtà, però, oltre a quella creata dalle proprie credenze e dal proprio stato vitale, in quanto al cambiare di credenze e stato vitale (che potremmo immaginare come un continuum da quello più egoico, sofferente e separativo a quello più animico, gioioso e tendente all’unione), corrisponde sempre un cambiamento della realtà, che pertanto è personale, non contestabile e non oggettivabile. Da questo punto di vista, l’unica vera scienza, intesa come ricerca della realtà, è quella che si basa sul “dubbio”, in quanto una realtà non oggettivabile non può dare certezze. Paradossalmente, la realtà esperita è basata su credenze che, in quanto tali, non ammettono dubbi: per tale ragione, i “bias di conferma” sono la normale modalità umana di costruzione della realtà.

Quando tante realtà personali hanno elementi importanti in comune, che portano al perseguimento di interessi comuni, allora può nascere una realtà più grande, sovrapersonale e comunitaria, che a sua volta plasmerà il più possibile e dirigerà le realtà personali per renderle conformi al vivere sociale e compatibili con esso.
Come non è contestabile la realtà personale (in quanto esternalizzazione della propria consapevolezza di sé), non lo è neanche quella comunitaria, negli infiniti modi in cui essa può esprimersi.
Questa accettazione delle consapevolezze altrui così come sono è la base della “comunicazione non violenta” e dell’“essere pace”.

Ognuno persegue interessi in funzione della propria consapevolezza di sé, e quindi della propria realtà: da questo punto di vista, quando singole persone o gruppi hanno interessi affini o almeno compatibili con i nostri, potremmo etichettarli come “buoni” o “giusti”, quando hanno interessi che ostacolano o confliggono con i nostri potremmo definirli “cattivi” o “sbagliati”, ma... a ben vedere, non ci sono né il buono né il cattivo, né il giusto né lo sbagliato, né il bene né il male. Siamo immersi in una realtà duale in cui tutti gli opposti coesistono e sono l’uno funzionale (e quindi necessario) all’altro. Il male non può essere “male” se il bene ha bisogno di esso per esistere… e viceversa.

Più che preoccuparci della nostra o altrui posizione in una realtà duale, che altro non è che un sogno dentro un sogno, all’interno di un ologramma che noi chiamiamo “realtà”, ovvero all’interno di un “universo” non più grande di un chicco di riso e non più duraturo di una frazione di secondo, ma che alla nostra ingannevole e trasognata percezione appare infinito ed eterno, ci conviene ascoltare questo saggio ammonimento: «Affrettatevi a cambiare i princìpi su cui si basa il vostro cuore!». Il tacito presupposto è che raccogliamo ciò che seminiamo, ovvero la nostra realtà sarà in funzione dei sentimenti con cui la costruiamo: la pace semina pace, la violenza semina violenza, l’amore semina amore, la rabbia semina rabbia, e così via. Per fare qualche esempio, ne segue che all’avidità umana la vita risponderà con altrettanta avidità, offrendo come ricompensa miseria e disperazione; di contro, alla gratitudine, lode e compassionevole rispetto per la vita, essa ci risponderà con altrettanta gratitudine e compassione.

La realtà esterna estroietta quella interna, quindi «la fragranza interna otterrà protezione esterna».
Dovremmo pertanto essere molto cauti, quando la realtà esterna non ci piace, a cercare salvatori o colpevoli. Ancora più cauti dovremmo essere nei confronti dei nostri pensieri. Ogni volta che in cuor nostro c’è qualcosa del tipo “non ho scelta...”, “questa è l’unica scelta...”, “non vedo vie d’uscita”, e simili, stiamo negando di disporre di libero arbitrio, ovvero di poter creare la realtà che più desideriamo, ovvero di essere noi stessi la scintilla divina creatrice della nostra vita. Tale negazione è un inganno, non funzionale al nostro interesse e con lo scopo principale di bloccare il nostro processo di acquisizione di consapevolezza. Molte forze agiscono per indurre in noi questo stato vitale deprimente, ovvero per ingannarci e rubarci la vita (ovvero la nostra Anima). Ma a ben vedere, però, tali forze ingannatrici non possono nulla contro di noi e contro la nostra Anima, che è fuori dal tempo e più potente di qualsiasi altra forza esistente… a meno che non siamo noi, con le nostre paure, a volerlo.

Noi siamo i creatori dell’universo, ciascuno di noi lo è. Cosa vogliamo creare oggi?

(Francesco Galgani, 12 gennaio 2021)

Amore o odio per la natura?

Ci sono due tipi di disegni: quelli fatti dalla natura, e quelli fatti da noi. Di solito i primi sono migliori dei secondi, per cui prendiamo l’arte della natura come modello. Questo vale non solo nella pittura, ma in tutti i campi dell’esistenza: la natura è maestra.

Quando però, mossi dalla volontà di dominio e di potenza, che di per sé è estranea all’ecosistema - o meglio esistente in forme limitatissime e funzionali all'equilibrio delicato e precario della vita - creiamo forme aliene alla natura, ovvero brutte forme: lì iniziano i problemi. Più la cultura si allontana dalla natura, maggiore è il disagio e la non voglia di vivere.

Storicamente, l'odio per la natura è stato considerato come odio per il limite: questo è un tipo di ideologia che, portata alle estreme conseguenze, vede l'essere umano come dio di se stesso, che può fare su stesso e sugli altri tutto ciò che vuole, compresa la propria e l'altrui distruzione. Questa ideologia liberale vuole lo smantellamento dello stato, della famiglia, delle varie comunità, delle religioni, di qualsiasi limite alla sessualità e all'uso del proprio e altrui corpo, allo scopo di liberare l'uomo. Ma quale libertà è quella che si basa sull'odio per la natura? Parafrasando la "Leggenda del re infelice" di Fabrizio De André: «Quanto giusta pensate che sia una libertà che decreta morte?».

Più siamo separati dalla natura, più siamo separati da noi stessi e quindi dalla nostra anima... e più siamo separati dalla nostra anima, e maggiore è il nostro stato di morti viventi. Questo vale anche per le persone che hanno successo nel nostro mondo alienato, che premia la demenza e castiga il talento.

La paura del covid, portata ai livelli disastrosi attuali, è la messa in scena della paura di vivere nel teatrino della società. Le politiche di sanità pubblica di questo periodo aiutano a non vivere, quindi rafforzano la nostra condizione di zombie.

I fiori prendono nutrimento dalla terra e dalla pioggia, dall’aria e dal sole, e sono meravigliosamente belli così come sono. Anche gli esseri umani sono meravigliosamente belli nel corpo e nello spirito quando sono lasciati liberi di amarsi e di fare comunità, in un clima interiore ed esteriore di armonia con l’anima, che è l’unica condizione risolutiva di ogni conflitto. Ma tutto ciò non c'entra niente con il liberismo sopra accennato: senza l'esistenza del limite e senza una interconnessione armoniosa e rispettosa degli altri viventi, neanche i fiori potrebbero esistere.

Il quadretto sottostante, che ho fatto mentre riflettevo su queste cose, si intitola "Amore per i fiori".

Amore per i fiori, pittura di Francesco Galgani, 23 ottobre 2020

(testo e pittura digitale di Francesco Galgani, 23 ottobre 2020)

Sintesi di millenni di filosofia

La vita è un laboratorio di ricerca sperimentale.
In questo laboratorio, chi non ha pretese gioisce.
Per non avere pretese e quindi gioire,
è sufficiente dialogare con la propria anima
e sentire ogni istante come un miracolo,
con lo sguardo innocente e meravigliato di un bambino.

Sguardo innocente e meravigliato di un bambino, pittura digitale di Francesco Galgani, 14 ottobre 2020

(riflessioni e pittura digitale di Francesco Galgani, 14 ottobre 2020)

Darsi pace: chi ha il coraggio di vivere, non ha paura di morire

Lettera di Maria Fida Moro (fonte), agosto 2020:

“Insomma credete davvero che siamo tutti stupidi?! L’allerta permanente, alla lunga, ottiene l’effetto contrario come nella famosa storia di “Al lupo, al lupo”. La sicurezza non esiste, a nessun livello ed a nessun titolo, e, cionondimeno, è necessario vivere, lavorare, andare a scuola, fare le cose di tutti i giorni, viaggiare, riposarsi. Non si sentono altro che numeri che si contraddicono e che sono anche molto noiosi. Mentre “giocate” ai bollettini, la vita continua senza di voi. Ogni giorno che passa restate più indietro. Siete terrorizzati dalla vita della quale la morte fa parte integrante. E non c’è cura, non c’è vaccino, non perché non ci sia vaccino, ma perché risolto un problema se ne presenta subito un altro. La vita è in divenire e ci mette alla prova di continuo. Bisogna imparare ad esistere in pace ad a convivere anche con le cose brutte. Dobbiamo darci pace altrimenti la nostra non sarà mai vita, ma puro terrore.
Lasciate che i ragazzi vadano a scuola in un modo possibile. Lasciate che loro ed anche noi respiriamo ossigeno e non anidride carbonica. La vita si cura da sé: lo fa da millenni. Ricordate che la vita avanza verso la vita non, come tendiamo a pensare noi, verso un oscuro oblio. Nella nostra epoca – cosiddetta civile – manca la cultura della morte, che è solo un momento di passaggio verso uno straordinario meglio che noi non possiamo nemmeno immaginare perché siamo limitati dal gioco di ruolo che stiamo vivendo qui. Se solo ricordassimo un barlume della magnificenza che ci attende andremmo via subito. Per favore restiamo fermi solo un attimo a respirare lentamente ad a guardaci intorno. La bellezza ci parla di amore, di gioia e di verità. Vi sarà capitato di vedere dormire un neonato serafico, al sicuro da tutto, al suo posto nel cosmo. Noi ci agitiamo ed invece dovremmo rallentare. L’eternità è. Non va e viene: è il nostro destino cosmico – nessuno può togliercela – l’eternità è, da sempre e per sempre, ed in questo preciso momento qui, noi siamo insieme con lei in tutte le cose. Gocce di mare, granelli di sabbia, alte montagne, piccoli fiori delicati, galassie sconfinate. Se il nostro destino è l’Eterno cosa volete che ci faccia un virus che peraltro ha un posto ed una funzione a sua volta nel creato? Noi siamo qui per uno scopo ben preciso, sperimentare e scegliere, dopo molti tentativi ed errori, l’AMORE dal quale proveniamo e che tutto tiene insieme. Il nostro destino non è la sofferenza né la morte, bensì luce risplendente e gioia senza fine. Non ci lasciamo rinchiudere in un bozzolo di numeri lasciamo invece che la gioia “la più alta espressione della vita stessa” sia dovunque e per tutti. Noi, Gaia, il Covid, il clima, le donnole, gli opossum ed i cristalli di rocca, i guerriglieri, gli afroamericani, i malati siamo uno e stiamo giocando insieme al gioco della vita che ci riporta come un fiume, ansa dopo ansa all’iridescente meraviglia dalla quale proveniamo ed alla quale faremo ritorno ineluttabilmente.”

Le illusioni sono necessarie?

Nelle riflessioni seguenti, di Giulio Ripa, il termine "illusione" ha un'accezione positiva, indica una passione necessaria per vivere, proiettata dal presente verso il futuro, di cui non conosciamo gli esiti, che possono essere sia in accordo con i nostri desideri, sia no. L'illusione, in questa accezione, è quella spinta interiore che può portarci a fare le cose più belle della nostra vita... e a volte anche le più contraddittorie, ma pienamente vissute e degne di essere vissute. Chiarito il senso linguistico di quanto segue, necessario per evitare facili fraintendimenti, aggiungo una mia riflessione: intenzioni e desideri ci danno la massima energia quando valorizziamo il nostro percorso di vita assai di più dei risultati che otteniamo strada facendo (questo, in alcune filosofie, è chiamato "non-attaccamento al risultato", che è da considerarsi sempre momentaneo).

Nel testo, ho aggiunto il grassetto per evidenziare il concetto-chiave su cui mi sono soffermato.


[...] la lotta contro le grandi piattaforme informatiche è una giusta lotta ma, nello stesso tempo è una lotta perdente.
E' una vita che lotto contro l'illusione tecnologica, come Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento, una lotta che però ha dato un senso alla mia vita.
Ma, è inutile nascondere che la storia dell'uomo è anche storia dello sviluppo tecnologico: dalla clava fino all'ultima piattaforma digitale WhatsApp Pay partita in Brasile come servizio per i pagamenti digitali (link alla notizia).
La tecnologia, l'applicazione della scienza, è diventata, sovrapponendosi alla religione, il nuovo dio in cui credere, che ci dà la possibilità di realizzare desideri senza limiti, compreso il desiderio di immortalità. Ci illudiamo di superare le nostre mancanze con l'ultima innovazione tecnologica, alimentando la speranza di una vita migliore o addirittura eterna, proprio come fanno le religioni.
Le illusioni (religiose, ideologiche, tecnologiche, utopiche etc) danno un senso alla nostra vita, ma è senza le illusioni che possiamo vedere la realtà così come è. E' in questa contraddizione che si gioca la vita dell'uomo.
Tutti vogliono essere sempre felici, pur sapendo che la vita è fatta di gioia e dolore.
Vivere ed affrontare la vita significa mettere a nudo le proprie contraddizioni, le proprie oscurità. Nessuno vuole conoscere ed accettare i propri limiti umani, la propria fragilità.
La vita resta un mistero meraviglioso. La realtà così come è si manifesta in forme molteplici, tutte connesse fra di loro, in una totalità a noi sconosciuta quindi sacra. Cerchiamo certezze nella vita, ma l'indeterminazione è il suo carattere fondamentale.
Inutile arrabbiarsi perché le cose non vanno come vorrei, bisogna gioire invece per le cose piacevoli che accadono e pazienza se accadano cose che non piacciono.
L'unica cosa che può fare l'uomo è colludere con la vita, cioè giocare insieme alla vita, accordarsi intimamente con essa senza prendersi troppo sul serio. [...]

Giulio Ripa

Lo scopo del lavoro?

Riflessioni sul lavoro, tratte dalla Prima Pagina di "Ha Keillah (La Comunità)" di maggio 2020, bimestrale sia cartaceo sia online del gruppo di studi ebraici di Torino: https://www.hakeillah.com/2_20_01.htm.

Qual è lo scopo del lavoro? Perché lavoriamo? Nell'articolo seguente si fa riferimento a bereshit, che in questo contesto indica l'inizio della narrazione biblica, ovvero si riferisce alla Genesi.

Evidenzio in grassetto due paragrafi che mi hanno fatto molto riflettere, fermo restando che io "non so nulla", ma mi piace ragionare. Oltre al grassetto, ho aggiunto anche una sottolineatura.

Francesco Galgani,
20 giugno 2020

Corona, Pil e Messia

di Manuel Disegni

 

All'inizio ho pensato: e se il coronavirus fosse il messia?

La pandemia, mi son detto, è una chance rivoluzionaria. Quale occasione migliore per cambiare radicalmente il nostro rapporto sociale con la natura, se non quella in cui farlo è il modo più sicuro di sopravvivere, e forse l'unico?

La natura... bisogna ancora che troviamo una maniera di andarci d'accordo. Nei suoi confronti ci comportiamo come degli adolescenti fanatici; oscilliamo fra estremi opposti, incapaci di una visione sobria e oggettiva. O la veneriamo come una divinità materna e protettiva (una sorta di eco-paganesimo vegano), oppure la sfruttiamo e ne abusiamo come se fosse lì, gratis, a nostra disposizione, non avesse valore, e potesse essere buttata via e sostituita a nostro piacimento (una sorta di antropocentrismo solipsistico).

La verità è che la natura ci procura molti benefici – come per esempio la salute, il nutrimento, i cieli stellati e molti altri comfort – ma anche tanti pericoli – come per esempio la fame, le intemperie, il coronavirus e altri malanni. Per godere dei primi, e per evitare i secondi, noi lavoriamo. Le cose pare che stiano così fin da principio, fin da bereshit, in cui sta scritto: bezeat apecha tochal lechem, mangerai pane col sudore del tuo volto. Anche i bambini lo sanno.

Ma oggi noi lavoriamo anche per altri propositi (di chi siano questi propositi, è una bella domanda). Lavoriamo per espandere i profitti. I profitti sono – per definizione – quella cosa che può espandersi solo grazie al fatto che del lavoro venga svolto. Dunque noi lavoriamo affinché del lavoro venga svolto. È questo un fine diverso da quello immaginato dall'autore della narrazione di bereshit. Lavorando noi però tendiamo a dimenticarci del principio e del motivo per cui stiamo lavorando (godere le gioie e allontanare i dolori che ci offre la natura), e continuiamo a lavorare.

Sto parlando del capitalismo. Il capitalismo potrebbe essere definito correttamente come quella forma di organizzazione sociale nella quale il lavoro è un fine in sé. Il punto è: lavorare il più possibile. Fra gli inconvenienti di “lavorare il più possibile” vi è quello di nuocere alla salute. Così il capitalismo può essere definito anche come un virus, molto contagioso, che si è diffuso in tutto il mondo negli ultimi due o trecento anni e dal quale la nostra società continua a essere affetta. E non solo la società, ma anche il nostro cervello. Infatti l'idea che il lavoro sia lo scopo finale dell'esistenza umana sta avendo molto successo. Non sono solo i nazisti a pensare che il lavoro renda liberi, ma a quanto pare anche l'Assessorato alle Politiche e al Lavoro del Comune di Napoli, e in certa misura pure gli autori dell'articolo 1 della Costituzione italiana. A guardar bene, tutti quanti lo crediamo almeno un poco.

Che lo crediamo o meno comunque non conta, perché praticamente siamo tutti obbligati a produrre lavoro svolto svolgendo lavoro. Tant'è vero che il principale problema economico delle nostre società ricche e tecnologiche sembra essere la disoccupazione. Non c'è nulla che le spaventa di più del tempo libero. Esse si sforzano di lavorare di più, acciocché si espandano i profitti, acciocché aumenti il PIL (di cui, è bene ricordarlo, la Bibbia non parlava), acciocché l'anno seguente vi sia più lavoro per più gente, acciocché si espandano i profitti… In circostanze ideali lavoreremmo tutti quanti, ininterrottamente e fino a tardissima età. Purtroppo questo non è possibile, ma noi proviamo del nostro meglio. Provando e riprovando, danneggiamo sia la natura esterna, sia la nostra natura propria, la nostra salute e qualità di vita. Senza mai smettere.

Adesso però bisogna smettere – ho pensato quando è arrivato il coronavirus – se non lo facciamo, morremo. E non fra vent'anni, di superlavoro e consunzione, ma fra poche settimane a causa di una polmonite non curata. La pandemia rendeva la minaccia di morte implicita nel lavoro improvvisamente esplicita e immediata per i lavoratori di tutti i paesi e per gli amanti del lavoro di tutte le classi. “Il lavoro uccide” cessava di essere solo uno slogan da scansafatiche. La disoccupazione diveniva la virtù sociale più importante, poiché l'unico modo di prevenire la diffusione del contagio era evitare il maggior numero possibile di contatti interpersonali, e dunque sospendere la nostra quotidiana cooperazione sociale. Non andare al lavoro era quanto di meglio potessimo fare per proteggere tanto la nostra salute individuale quanto quella altrui – quasi come se una mano invisibile si fosse premurata di garantire con matematica certezza l'armonia fra gli interessi individuali e quelli collettivi.

Il coronavirus sembrava sfidare il capitalismo in questo senso: se fino a febbraio 2020 vivevamo in una situazione universale fondata sul principio “lavorare il più possibile”, cioè il capitalismo, a partire da marzo e fino almeno alla distribuzione di un vaccino anti-Covid entravamo in una situazione universale (la pandemia) che richiedeva l'adozione del principio opposto: “lavorare il meno possibile”. La salute pareva spodestare la “crescita” dal suo posto di imperativo categorico dominante. La battaglia fra la protezione di questo bene comune, la salute, e l'esigenza di espansione dei profitti privati non era mai stata tanto aperta da cent'anni (?) a quella parte. Assistevamo a un fatto per tutti noi completamente inedito: erano i medici, e non gli economisti, a dettare la linea politica. “Lavorare il meno possibile”. Nel frattempo Greta Thunberg cominciava già a notare che il cielo era sempre più blu da quando il prezzo del petrolio aveva preso a calare così rapidamente.

Ma che vuol dire – mi sono domandato quando è arrivato il coronavirus – lavorare il meno possibile? Infatti smettere del tutto di lavorare non sembra materialmente possibile (sempre per quella vicenda del peccato originale di cui sopra). “Lavorare il meno possibile” richiederebbe di organizzare il lavoro in maniera diversa dal capitalismo, una maniera che sarà difficile a realizzarsi ma è pur sempre abbastanza facile a dirsi: per lavorare il meno possibile occorrerebbe sospendere la produzione di merci e il libero commercio, e sostituirli con una catena produttiva grande, efficiente e minimale di produzione dei beni essenziali, e con la loro distribuzione gratuita. Si tratterebbe di impossessarsi della tecnologia e delle conoscenze logistiche di cui disponiamo e disporne davvero, impiegandole per garantire a tutti cibo, medicine e servizi sanitari minimizzando il dispendio e il movimento di forza lavoro umana.. I beni prodotti e distribuiti in tal maniera potrebbero poi diventare più vari e più ricchi, via via, con la regressione del contagio.

Per un momento ho pensato che il 2020 non sarebbe stato ricordato solo come l'anno senza scuola e senza gli Europei di calcio, ma anche come l'anno senza PIL. Forse come il primo anno senza PIL.

Invece non sarà così. Quando Ha Keillah va in stampa, le nazioni del mondo si preparano a ripopolare di bacilli maligni i loro luoghi di lavoro (che sono spesso anch'essi maligni). Sfidano la sorte esponendosi ai fragili equilibri di domanda e offerta dell'infezione per scongiurare il rischio di ritrovarsi, l'anno prossimo, disoccupate. E poi se la prendono con le donne, il tempo ed il governo; coi cinesi, gli olandesi e con chi va a fare jogging, perché il messia non arriva mai.

Manuel Disegni

Dalla tirannia incostituzionale televisiva a Baruch Spinoza

Libertà di pensiero, di stampa, di espressione del pensieroIn questi giorni è circolata la notizia che l'Agcom ha sospeso i canali di La7 che hanno lasciato che una persona esprimesse opinioni in tema di salute che evidentemente a qualcuno non piacciono. Nello specifico, leggiamo: «[...] Nelle ultime settimane il nome di Adriano Panzironi è tornato agli onori delle cronache per via di diverse ospitate nella trasmissione Non è L’Arena, condotta da Massimo Giletti. La scelta di La7 di mandare in onda un personaggio così controverso che porta avanti dei discorsi medico-alimentari senza aver mai conseguito una Laurea – tra l’altro il tutto è stato già diffidato proprio dai comitati scientifici – è stata contestata da molti. Ora arriva anche l’intervento dell’AgCom che ha avviato sanzioni e sospensioni per quei canali televisivi (satellitari) che mandano in onda la sua trasmissione. [...]». Chi vuole può leggersi il resto dell'articolo alla pagina: https://www.giornalettismo.com/adriano-panzironi-agcom-sospensione/

Non conosco il sig. Panzironi, non l'ho mai sentito parlare e del fatto che sia laureato o meno non me ne importa (anzi, ritengo insensato il fatto di voler dare importanza a questo aspetto per quanto riguarda la libertà di espressione e per quanto riguarda la credibilità); leggendo il proseguo dell'articolo sembra che il suo "crimine" sia stato quello di aver consigliato le vitamine C e D di una specifica marca per affrontare il coronavirus... sull'uso di tali vitamine (a prescindere dalla marca), tra l'altro, una parte della scienza medica è sicuramente d'accordo.

Ma andiamo oltre... questa è solo la punta dell'iceberg. La televisione e i mass media in generale sono polarizzati verso un'unica forma di pensiero, sopprimendo ogni pensiero "diverso da quello che si vuole imporre alle masse", qualunque esso sia. Anche i social stanno ricevendo vincoli legali sempre più stringenti (per quanto non banali da attuare) per ridurre il più possibile, o meglio eliminare, le "voci fuori dal coro".

Mentre già stiamo passando dallo stato di diritto allo stato d'animo generalizzato pronto ad accettare qualsiasi tirannia (cfr. "Ai tempi del coronavirus l'Italia sta diventando un regime totalitario?"), mentre la disinformazione è diventata l'unica forma istituzionalizzata di informazione protetta dallo Stato, in funzione evidentemente neoliberista e pro-Europa, e mentre il finanza-virus sta mietendo assai più vittime del coronavirus (cfr. video di Mauro Scardovelli "Uscire in bellezza dal covid-19"), mi tornano a mente l'art. 21 della Costituzione e il pensiero di un grande uomo, Baruch Spinoza, che quattro secoli fa si espresse sulla libertà di pensiero asserendo che «in una libera comunità dovrebbe essere lecito a ognuno pensare quello che vuole e dire quello che pensa», attirandosi le ire sia dei cattolici che dei protestanti... oggi, probabilmente, quello stesso uomo si sarebbe attirato le ire di tutto il sistema mass-mediatico, che è diventato la nuova forma di religione, nel senso di "pensiero unico" e di inquisizione.

Nel libro "Finalmente ho capito la filosofia", di Marina Visentin (ISBN 9788869873201, anno 2017), c'è una piccola ma essenziale sezione dedicata a Baruch Spinoza che, secondo me, merita di essere letta per riflettere attentamente sulla libertà di pensiero e di espressione del pensiero, visto che oggi viene continuamente messa in discussione, osteggiata, denigrata e sanzionata. Questo succede fin da bambini dalle scuole elementari in poi, dove la libertà di pensiero viene per lunghi anni messa alla prova scontrandosi con le verità imposte dall'alto (e dal gruppo di pari).

Ecco cosa ha scritto Marina Visentin a proposito di Spinoza:

(Amsterdam, 1632 - L’Aia, 1677)

Nato in una benestante famiglia di ebrei portoghesi fuggiti in Olanda per sfuggire alle persecuzioni dell’Inquisizione, compie i suoi primi studi presso la scuola ebraica, ma ben presto si allontana dalla religione per accostarsi al pensiero di Bacone, Hobbes e Cartesio. Nel 1656 viene accusato di eresia, scomunicato e costretto a lasciare Amsterdam. Si rifugia allora in un piccolo villaggio nei pressi di Leida, dove inizia a guadagnarsi da vivere come tagliatore di lenti. Nel 1670 pubblica in forma anonima il Tractatus theologico-politicus, in cui difende la libertà di pensiero, suscitando le ire sia dei cattolici che dei protestanti. Nel 1673 rifiuta una cattedra di Filosofia presso l’Università di Heidelberg, preferendo proseguire in libertà i propri studi e conservarsi libero da ogni condizionamento. Muore di tubercolosi quattro anni dopo, a soli quarantaquattro anni. Dopo la sua morte, vedranno finalmente la luce le sue opere maggiori: Ethica more geometrico demonstrata e il Tractatus de intellectus emendatione, che in vita non aveva potuto pubblicare, per l’ostilità culturale che lo aveva sempre circondato e per le continue accuse di eresia e ateismo che lo avevano perseguitato.

Panteismo contro dualismo

Anche il pensiero di Spinoza nasce come superamento del dualismo cartesiano, che vedeva l’universo diviso in sostanze spirituali (pensanti) e sostanze materiali (estese).

Per Spinoza esiste un’unica sostanza che è al tempo stesso Dio e mondo. La sua è una concezione panteista, in qualche modo avvicinabile al panpsichismo rinascimentale, ma in realtà molto diversa nella misura in cui rappresenta non un’intuizione di tipo qualitativo, ma la compiuta espressione di una razionalità deduttiva di carattere geometrico-matematico.

Ma perché è così importante definire la sostanza?

Sostanza, lo abbiamo già visto, è una delle parole-chiave della nostra tradizione filosofica. Capire la sostanza delle cose significa individuare il loro vero essere, ciò che di esse permane al di sotto dei mutamenti accidentali e temporali. Aristotele, il primo pensatore a porre con chiarezza tale questione (e infatti è considerato il padre della metafisica occidentale), pensava a una pluralità di sostanze, tante quante sono gli esseri, Cartesio aveva ridotto tale molteplicità a due sole sostanze: la materia e lo spirito. Spinoza riparte dal concetto classico di sostanza, come «ciò che non ha bisogno di null’altro per esistere», per concludere che la sostanza può essere soltanto una e deve per forza di cose coincidere con Dio, che a sua volta coincide con il mondo.

Dio e il mondo come una cosa sola

«Deus, sive natura» (“Dio, ovvero la natura”): è con questa espressione che Spinoza descrive la propria concezione panteista, che dimostra con una serie di argomentazioni logico-razionali. Vediamo adesso più da vicino la concatenazione dei ragionamenti proposti dal filosofo.

Il punto di partenza – lo abbiamo già visto – è la definizione di sostanza come ciò che esiste in sé e si può concepire senza riferimento ad altro, ciò che è quindi «causa sui», (“causa di se stessa”). Ciò significa che la sostanza non può coincidere con gli enti finiti – le creature limitate che dipendono da altro per la propria esistenza – deve essere invece perfetta, infinita, autosufficiente (perché solo in questo modo potrà essere «causa di se stessa»). Da ciò deriva l’affermazione che può esistere un’unica sostanza, e che tale sostanza coincide con Dio (poiché non è certo pensabile che esistano più sostanze infinite, e la sostanza infinita per definizione è appunto quella divina). Ma una sostanza unica non potrebbe essere tale se ammettesse qualcosa d’altro fuori di sé, quindi non è concepibile un mondo rispetto al quale Dio si ponga come trascendenza.

In aperta opposizione con la tradizione giudaico-cristiana che ritiene Dio trascendente (cioè, esterno) al mondo, Spinoza lo descrive come immanente (cioè, interno), e quindi come perfettamente coincidente con la natura.

Dio e mondo coincidono, ma c’è una distinzione da fare

Spinoza distingue fra «natura naturans» (causa) e «natura naturata» (effetto), ovvero fra Dio, inteso come causa dei singoli esseri finiti, e tali esseri finiti. Quindi, se è vero che Dio e mondo sono un tutt’uno, c’è comunque una distinzione fra gli aspetti diversi di quell’unica sostanza infinita. Una distinzione che serve a fare i conti con l’innegabile differenza fra finito e infinito.

I modi e gli attributi della sostanza

Le due res cartesiane, materia e spirito, ben lungi dal poter essere ancora considerate sostanze, devono essere invece viste come meri attributi (cioè manifestazioni, aspetti) dell’unica sostanza. Mentre tutte le cose finite – compresi noi stessi – sono solo modi, cioè determinazioni, concretizzazioni particolari di tali attributi, e non esistono se non come aspetti della divinità.

Ogni singola cosa è dunque parte di Dio, come suo aspetto o sua modificazione, e intrattiene con Dio la stessa relazione di dipendenza necessaria che un teorema ha nei confronti delle sue premesse.

Panteismo uguale ateismo?

Il panteismo di Spinoza è stato accusato di ateismo. Un’accusa priva di fondamento, in realtà, in quanto Spinoza non nega affatto l’esistenza di Dio; piuttosto, il Dio di Spinoza somiglia ben poco al Dio della tradizione giudaico-cristiana: non possiede intelletto e volontà, e non crea il mondo in base a un atto di libera scelta; e questo perché non ha alcun carattere antropomorfo, cioè non è in alcun modo concepibile come una persona, distinta dal mondo e intenta a programmare e agire in vista di un fine.

Secondo Spinoza, Dio è ben più di tutto ciò: è l’ordine razionale e necessario che pervade ogni cosa. In questo senso, Dio non ha intelletto ma è intelletto.

Un universo privo di libertà

Spinoza pensa all’universo come una grande macchina, in cui ogni cosa accade in modo necessario e meccanico. Una concezione che ha in comune con altri pensatori del Seicento, ma che lui conduce alle estreme conseguenze. Se tutto ciò che accade avviene per necessità, non c’è spazio per la contingenza, per qualcosa che potrebbe (ma potrebbe anche non) accadere. Al contrario, se qualcosa è possibile, sarà in accordo con le inesorabili leggi che governano l’ordine geometrico del cosmo, ma ciò implica anche che finirà inevitabilmente per essere prodotto da queste leggi. Quindi il possibile è reale e il reale è necessario: una conclusione che, ancora una volta, non lascia alcuna illusione di libertà né al cosmo né all’individuo.

Ma che spazio è concesso all’uomo in un mondo retto da un’inesorabile necessità?

Da un punto di vista assoluto, guardando le cose «sub specie aeternitatis» (“nel loro aspetto eterno”), il bene e il male non esistono. Ogni cosa segue semplicemente la propria natura e da essa necessariamente deriva: dal punto di vista infinito dell’universo, Nerone che uccide la madre non è un male, ma soltanto l’esito della natura di Nerone. Dal punto di vista finito dell’uomo, tuttavia, è possibile porsi il problema di una retta via, intesa come quella che a noi può procurare il maggior bene possibile.

Un’etica stoica

L’etica di Spinoza somiglia a quella degli stoici: il filosofo ci invita a guardare il cosmo in modo impersonale e obiettivo, allontanandoci dalle passioni determinate ed elevandoci fino all’ «amore intellettuale di Dio», inteso come una sorta di mistica unione fra l’intelletto umano e quello divino. Si tratta di una visione etica che identifica virtù, razionalità e liberazione dalle passioni. L’obiettivo è una condizione di serenità, di saggia e disincantata contemplazione dell’universo, che l’individuo può raggiungere soltanto dopo aver abbandonato – grazie all’intelletto – la visione limitata e distorta del mondo corrispondente al proprio punto di vista finito.

Contro il potere politico e religioso

«In una libera comunità dovrebbe essere lecito a ognuno pensare quello che vuole e dire quello che pensa»: questa massima riassume il nucleo delle tesi politiche di Spinoza, espresse, suscitando grande scandalo, nel suo Tractatus theologico-politicus. Secondo il filosofo, il potere politico dovrebbe rispettare la libertà di pensiero, evitando di interferire in tutte le questioni che riguardano la coscienza dei singoli. Lo Stato dovrebbe essere laico e dovrebbe essere garantito il diritto a vivere la fede come un fatto esclusivamente privato, interiore. Gli unici veri obblighi sanciti dalla Bibbia, afferma Spinoza, sono la pratica della giustizia e l’amore per il prossimo, mentre gli articoli di fede sono solo strumenti del potere per indurre all’ubbidienza le masse, che sono incapaci di elevarsi all’uso della ragione. Chi è capace di usare l’intelletto, infatti, non ha bisogno del dogmatismo autoritario delle Chiese. Inoltre, seguendo gli unici veri precetti della pura fede, secondo Spinoza, anche gli uomini non avvezzi all’uso della ragione possono essere condotti sulla via della virtù.

Una filosofia scandalosa

Per la prima volta dall’avvento del cristianesimo, viene proposta una visione metafisica della realtà che si distacca radicalmente ed esplicitamente dall’immagine fornita dalle Sacre Scritture: è inevitabile che la filosofia di Spinoza provochi scandalo fra i suoi contemporanei. Inoltre, proprio nel momento in cui in tutta Europa si va affermando l’assolutismo in campo politico, Spinoza si schiera a favore della libertà del singolo individuo, che deve essere difeso dall’oppressione del potere politico e religioso. In seguito, i pensatori illuministi rimprovereranno a Spinoza di aver costruito un sistema filosofico oscuro e metafisico, mentre i romantici apprezzeranno assai la sua identificazione di Dio con la natura.

Buona filosofia e buone riflessioni,
Francesco Galgani,
23 marzo 2020

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