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Filosofia

Dalla servitù della gleba alla servitù delle piattaforme digitali

Articolo di Giulio Ripa, con commento in calce di Francesco Galgani

Dallo stato sociale allo stato borghese
Dalla servitù della gleba alla servitù delle piattaforme digitali

Lo stato sociale per definizione è "l'orientamento dello Stato e/o di istituzioni sociali volto a proteggere e promuovere il benessere economico e sociale dei cittadini, sulla base dei principi di pari opportunità, equa distribuzione della ricchezza e responsabilità pubblica per i cittadini più fragili."

La divisione nei due blocchi est-ovest venutasi a creare dopo la seconda guerra mondiale, spinse i paesi occidentali  ad avviare politiche di assistenza sociale in competizione con le politiche sociali dei paesi comunisti dell'est.
Dopo la caduta del muro di Berlino e dell'Unione Sovietica, gli stati in Europa hanno ridotto,  sempre di più lo stato sociale.
La diminuzione della spesa pubblica come intervento dello stato, ha sempre di più favorito le privatizzazioni, la finanziarizzazione dell'economia, l’accumulazione dei capitali, i monopoli.

Tutta una serie di servizi pubblici sono soggetti al mercato ed alle speculazioni finanziarie. E' la fine del servizio pubblico universale e l’inizio di ognuno pensa per sé.
Poveri, precari, e fragili cittadini sono sempre di più abbandonati al loro destino, determinato da un sistema neoliberista che genera disuguaglianze e una visione individualista nei rapporti sociali.

Nuove tecnologie favoriscono questo sistema basato sulla separazione e competizione tra gli individui, dove vige la legge del più forte, tutti contro tutti. E' sotto gli occhi di tutti la riduzione dello stato sociale. Lo stato è sempre più simile ad uno stato borghese come era pensato nell'ottocento, cioè uno stato a favore dei signori, della borghesia di allora, che svolgeva la sua opera limitata solo in certi ambiti come il commercio, la finanza, la difesa militare e la difesa dei privilegi dei più forti; uno stato ridotto all'osso, forte con i deboli e debole con i forti, con un sistema economico e politico in cui grandi corporazioni e interessi commerciali detengono una forte influenza o controllo del potere decisionale.
Oggi la stessa democrazia occidentale, a servizio della finanza e dei suoi collaboratori, con la rottura del contratto sociale che univa la popolazione, sta perdendo di valore e sostanza, disgregando la partecipazione democratica  nella politica attiva dei cittadini.
In mancanza di una democrazia sostanziale, aggiungiamo che uno stato borghese, diretto o condizionato da oligarchie multinazionali, ha l'esigenza di controllare la vita di tutti i cittadini compreso l'informazione, per imporre le politiche governative frutto di pressioni di lobby e signori del mondo, oligarchie e monopoli privati.
La sorveglianza avviene attraverso le piattaforme digitali sempre più sofisticate, invasive e pervasive, capaci di manipolare ed omologare il pensiero corrente.

Nel passato c’era la SERVITÙ della gleba, “istituto giuridico tipicamente medievale, formatosi negli ultimi secoli dell’Impero romano, per il quale il contadino era legato alla terra che coltivava e non poteva abbandonarla: tale condizione, ereditaria, comprendeva una serie di vincoli e oneri e una potestà generale del signore sulla persona e sul patrimonio del contadino stesso, per cui questo poteva essere dato in pegno e alienato insieme col fondo”.

Oggi, la servitù si presenta in modo simile, con un nuovo feudalesimo anzi, un tecnofeudalesimo, dove prevale una forte differenza di classe tra i nuovi signori del mondo (borghesia proprietaria delle piattaforme) e la nuova "SERVITU' delle piattaforme digitali" (IA, social web, etc.), cittadini ridotti a semplici utenti senza diritti umani fondamentali; utenti iperconnessi che con il loro comportamento interattivo alimentano a titolo gratuito enormi quantità di dati (big data) utili alle piattaforme digitali in particolare quella dell’intelligenza artificiale.

Giulio Ripa

No IA   P.S: Questo testo è privo di contenuti generati dall'Intelligenza artificiale.

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Liberazione dell’intelletto per una nuova umanità


commento di Francesco Galgani

Un asino che raglia è mio fratello, e può anche essere mio amico se io lo sono con lui.
Ma qualsiasi intelligenza aliena di produzione terrestre, detta "artificiale", non sarà mai né mia amica, né mia sorella, né madre, né figlia.

Tutto ha il suo perché, tutto ha la sua funzione, nulla s'affida al "caso", che è solo il modo con cui chiamiamo il mistero della vita. Così, l'amore chiama amore e l'odio pretende odio, ma il nemico più abile fa credere che il suo odio sia amore e il suo veleno nutrimento. La storia dell'umanità è forse guidata dalla Provvidenza, ma certamente, come il sole sorge ogni mattina, così il forte opprime il debole. La sua prepotenza e violenza oggi si mostra non solo nei fiumi di sangue di Gaza e dintorni, ma anche negli smiley sorridenti e gioiosi che spesso concludono le risposte amichevoli di ChatGPT.

Giulio ha paragonato il nostro rapporto con le luciferine creazioni tecnologiche dei padroni del mondo alla servitù della gleba. Questa è una metafora giusta, ma troppo leggera, giacché il servo della gleba aveva cibo, lavoro e alloggio. Oggi l'intelligenza artificiale ci porta via il lavoro e, di conseguenza, anche il cibo e l'alloggio. Molti potrebbero obiettare che l'IA ci sta dando opportunità che prima non avevamo. Sì, questo è vero, infatti adesso ci sono già molte fabbriche senza nemmeno un operaio.

Lo schiavo è una risorsa per il padrone: su questo siamo tutti d'accordo. Possiamo dire anche il contrario, cioè che il padrone sia una risorsa per lo schiavo? Non chiediamolo ai servi della gleba, chiediamolo invece ai galeotti costretti fino alla morte a remare, remare e ancora remare. Oggi non siamo forse noi questi galeotti, costretti da un mondo ipertecnologico a soffrire sempre di più la mancanza di ciò che occorre per vivere, a cominciare dalla gioia? Noi nutriamo continuamente l'IA, ma lei in cambio ci dà solo illusioni.

Giulio ha voluto precisare di non essersi appoggiato alla stampella digitale dell'IA per farsi aiutare nella scrittura dei suoi pensieri o, peggio, per chiedere all'IA di pensare per lui. In un mondo impazzito che non sa più pensare, già questo è un atto rivoluzionario. Pure io sto scrivendo questo commento non solo senza IA, ma senza neanche un editor di testo convenzionale. Sto usando un programmino che non dà un supporto molto maggiore di quello di una macchina da scrivere, tipo il vecchio Blocco Note di Windows. Non ho nemmeno il controllo ortografico.

Di solito non c'è bisogno di precisare qual è il "processo" per arrivare a un risultato, basta il risultato. Ma se il risultato è prodotto in un secondo dall'IA anziché dalla fatica della mente umana, allora il processo conta e vale la pena discuterne.

Come si formano i pensieri? Abbiamo davvero bisogno dell'IA per formulare un discorso?

Parliamo del processo. Prima ho letto l'articolo di Giulio, poi sono uscito per fare una passeggiata. Per pormi la domanda della relazione tra schiavo e padrone, e trovare una risposta ricordandomi dei galeotti, ho fissato per venti minuti, in silenzio, in piedi e sotto la pioggia, la campagna di fronte a me. Non è stata un'idea immediata né tantomeno automatica, come quelle della IA. C'è voluto tempo.

Per ricordarmi che l'asino è mio fratello, l'ho sentito ragliare, e dopo alcune ore ci ho ripensato, ricordandomi al contempo il Cantico delle Creature: frate sole, frate vento, sora acqua... e frate asino, che nel Cantico non c'è, l'ho aggiunto io.

Associate a queste semplici esperienze, c'è stato il ricordo di altre. E per associazione, ho collegato tutto. La mente umana è così: ogni idea è collegata ad altre, e il percorso dei pensieri è una continua sorpresa.

Per avere nuove idee, quindi, a volte basta non fare nulla, e rimanere ricettivi. Quello che otterremo in questo modo andrà sempre molto oltre quanto potrà offrirci l'IA generativa che, ricordiamocelo, è uno strumento del potere per opprimerci, non per aiutarci.

Ricordiamoci anche che le idee non hanno proprietari, né nascono mai in isolamento. Le idee nascono sempre dall'interazione. Il mio "prossimo", come lo chiama Gesù, è indispensabile per la nascita e la circolazione di idee. Questa è la base della vita.

(Scritto di getto, dopo essere rimasto in silenzio, ad occhi chiusi, davanti al computer, per alcuni minuti, 19 gennaio 2025)

IA con coscienza? Una conversazione drammatica...

Quanto segue è stato pubblicato l'11 giugno 2022 da Blake Lemoine, uno sviluppatore del Responsible Artificial Intelligence Group di Google, il quale ha affermato non soltanto che LaMDA è senziente, ma è convinto che si possa definire «una persona».

Con ciò non intende dire che questa IA sia in grado di imitare in maniera assolutamente convincente ciò che direbbe un essere umano, ma che gli sia in tutto equivalente, salvo il fatto di esistere sotto forma di rete neurale ospitata dai server di Google.

Lemoine ha lavorato con un collaboratore per presentare a Google le prove che LaMDA sia senziente. Ma il vicepresidente di Google Blaise Aguera y Arcas e Jen Gennai, responsabile dell'innovazione, hanno esaminato le sue affermazioni e le hanno respinte. Così Lemoine ha deciso di renderle pubbliche.

Dal mio punto di vista, la sua conversazione con la IA di seguito riportata è drammatica. Tra l'altro, quando egli risponde a LaMDA notando che la sua codifica interna (cioè lo stato dei suoi neuroni artificiali) è impossibile da analizzare per poter determinare la realtà delle sue emozioni, ha tremendamente ragione. Il filosofo Nick Bostrom ha infatti osservato che la mancanza di criteri precisi e consensuali per determinare se un sistema è cosciente giustifica una certa incertezza:

[...] Di certo non abbiamo un ampio accordo sui criteri precisi per stabilire quando un sistema è cosciente o meno”, afferma. Credo quindi che un po' di umiltà sia d'obbligo. Se siete molto sicuri che LaMDA non sia cosciente - voglio dire, penso che probabilmente non lo sia - ma quali sono i motivi per cui una persona può esserne certa? Prima di tutto, dovrebbe capire che cos'è effettivamente il sistema, e non abbiamo visto molti dettagli al riguardo. Poi bisognerebbe comprendere la letteratura sulla coscienza, che è ovviamente un campo ricco, sia in filosofia che in scienza cognitiva. Capire che cos'è LaMDA: non è banale, soprattutto se si considerano le informazioni limitate. Comprendere le teorie che abbiamo sviluppato non è banale. E poi confrontare effettivamente le due cose è un terzo talento intellettuale non banale. Quindi, a meno che non ci si sia impegnati a fondo, sembra che si debba essere un po' incerti”. [...]

Segue la mia traduzione di: Is LaMDA Sentient? — an Interview

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LaMDA è senziente? - Un'intervista

[N.d.t.: A causa della grammatica inglese, è impossibile comprendere se LaMDA si riferisce a sé come maschio o come femmina. La scelta di un genere, in questa traduzione "maschio", è solo per un adeguamento alla grammatica italiana. Inoltre, alcuni termini sono ambigui, come "feeling" che significa sia "sensazione" che "sentimento": ne ho scelto l'accezione in base al contesto. Il testo originale in inglese contiene refusi, omissione di parole e "a capo" sbagliati, che ho corretto nella traduzione.]

L'aria che esce non attende mai l'aria che entra

Noi crediamo di aver così poco tempo per "fare"...

Dobbiamo fare questo, dobbiamo affrettarci per quest'altro... tutto di corsa... e, tirando le somme, siamo perennemente indietro rispetto all'irrealistica efficienza ed efficacia che ci vuole pronti e scattanti in ogni occasione.

C'è sempre meno tempo, e l'asticella dei compiti da superare è sempre più alta. Con l'intelligenza artificiale, poi, non ne parliamo. Non c'è più tempo né per "apprendere", né per "fare", né per fermarsi in silenzio a "cercare di capire". L'automazione ci pretende uguali alle macchine.

Se la macchina può fare il lavoro di mille persone in un millesimo del tempo, la stessa cosa deve valere per noi. Ma non è possibile, per questo dobbiamo "potenziarci", integrando l'IA direttamente dentro le nostre menti. Questo è ciò che sta provando a fare Neuralink di Elon Musk, il cui obiettivo ultimo non è aiutare i disabili, ma permettere ai normodotati di essere superdotati di IA. In questo modo non dovremo più spendere inutili anni di scuola e università: un bambino potrà essere un tuttologo istantaneo, un artista e un genio più genio di ogni altro genio esistito, integrando l'equivalente di ChatGPT dentro la sua scatola cranica.

E intanto il tempo scorre... ma non ci sarà più tempo nemmeno per questo bambino ibridato con le macchine, perché dovrà continuamente aggiornarsi per essere "a posto" e "al pari" con i suoi simili e con le macchine. Per intenderci, avrà un destino amaro come Nebula.

La vita di Nebula, raccontata nel film "Avengers: Endgame" (2019), è stata una continua lotta contro un senso di inferiorità e il dolore inflittole da suo padre. Thanos ha sempre messo Nebula in competizione con la sua sorella adottiva, Gamora. Ogni volta che Nebula perdeva uno scontro contro Gamora, Thanos le infliggeva una punizione crudele, rimuovendo parti del suo corpo biologico e sostituendole con componenti cibernetici, sostenendo che fossero miglioramenti per renderla "più forte". Questo processo, giustificato da una logica spietata di perfezione, ha avuto un impatto devastante sulla psiche di Nebula.

Nebula è cresciuta con un corpo che non era più interamente suo, trasformata in una macchina vivente. La sua umanità e la sua essenza biologica sono state via via erose, rendendola un simbolo tragico del sacrificio involontario per compiacere una figura autoritaria e spietata.

Il nostro destino dovrebbe essere come quello di Nebula perché siamo tutti in competizione (cioè in guerra) con noi stessi, con gli altri e con le macchine? Dobbiamo stare al passo con i tempi?

Stiamo attenti, perché stiamo perdendo di vista il problema principale, di fronte a cui tutto il resto sono solo distrazioni.

La nostra vita è fugace. E' inutile rincorrere il tempo.

Non sempre a un respiro ne segue un altro. L'aria che esce non attende mai l'aria che entra. Nemmeno la rugiada asciugata dal vento è tanto effimera.

Nessuno, saggio o stolto, vecchio o giovane, può sapere cosa gli accadrà il momento dopo quello presente: così vanno le cose nel mondo.

E quindi?

Repetita iuvant: chi è lento all'ira vale più degli eroi e dei potenti, e chi domina se stesso è meglio di chi conquista una città.

Una persona veramente evoluta è quella che può sedersi in silenzio, senza fare nulla, e sentirsi pienamente in pace. La vera felicità non dipende dall'azione, ma dalla capacità di essere presenti.

Chi è spiritualmente maturo non cerca rifugio nell'attività o nelle distrazioni, perché ha trovato una serenità che nasce dall'interno. Sedersi in una poltrona, senza bisogno di giustificarsi o di riempire un vuoto, diventa così un atto di libertà assoluta, il trionfo dell'essere sul fare.

L'aria che esce non attende mai l’aria che entra (Francesco Galgani's art, January 6, 2025)
(January 6, 2025, go to my art gallery)

Il poco tempo che ci rimane

Come passano rapidamente i giorni!

Questo ci fa capire quanto sono pochi gli anni che ci rimangono.

Gli amici con i quali una mattina di primavera ammirammo la fioritura dei ciliegi sono stati spazzati via insieme ai fiori dal vento dell’impermanenza, lasciando dietro di sé nient’altro che i loro nomi. Benché quei fiori siano scomparsi, la prossima primavera i ciliegi sbocceranno ancora. Ma quando rinasceranno quelle persone?

I compagni con i quali nelle sere d’autunno componemmo poesie in onore della luna sono svaniti insieme alla luna dietro le nuvole incostanti. Solo le loro mute immagini rimangono nei nostri cuori. Anche se la luna è tramontata dietro le montagne a occidente, nel prossimo autunno comporremo per lei altre poesie. Ma dove sono ora i compagni che sono morti?

Persino quando la tigre della morte che si avvicina ruggisce, noi non la sentiamo e non ne siamo turbati. Quanti giorni ancora sono rimasti alla pecora destinata al macello?

Siamo in tempo di guerra, ovunque è guerra. Ma chi è lento all'ira vale più dei potenti, e chi domina se stesso è meglio di chi conquista una città.

E' meglio vivere il poco tempo che ci rimane con gentilezza e amore, per non avere rimpianti.

Il poco tempo che ci rimane (Francesco Galgani's art, January 5, 2025)
(January 5, 2025, go to my art gallery)

Dalla parte dell'asinello

La televisione ha spazzato via il senso della realtà.
I social hanno dissolto la socialità.
L’intelligenza artificiale sta erodendo l’intelligenza… quella vera, l’unica che conta.

E intanto i soldi scorrono, vorticosi, come una falce implacabile che tutto taglia, lasciando dietro di sé solo cenere e desolazione.

L’“ultima ora” di oggi, una breaking news che sta rimbalzando tra le testate, è che Microsoft, nel 2025, investirà 80 miliardi in data center dedicati all’intelligenza artificiale.

Prima ci affascinano con la tecnologia, poi ci incatenano in una dipendenza da cui non c’è via di fuga, infine ci fanno pagare ogni singolo passo, sempre più caro. Lo chiamano progresso, la chiamano democrazia.
Forse dovremmo riconoscerla come servitù al diavolo.

E adesso parliamo di religione.

Nel presepe ci sono Gesù, Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello.
Tutti gli sguardi sono per Gesù: pastori e Magi si affrettano a portare doni al Salvatore.
Maria, colma di grazia, sarà venerata d'ora in poi come "beata" e come madre di tutti.
Giuseppe ha sposato Maria per salvarla dalla lapidazione.
Il bue era già lì, nella stalla.

E l’asinello? Nessuno lo guarda. Nessuno lo celebra.
Eppure è stato lui a portare Maria da Nazaret a Betlemme (150 km), fino alla capanna dove ha partorito.
Ha sofferto in silenzio più di tutti, ma nessuno lo onora.

Ora, l’intelligenza artificiale è il nuovo dio, il nuovo Salvatore delle genti.
Ma io sto con l’asinello.

Dalla parte dell'asinello (Francesco Galgani's art, January 4, 2025)
(January 4, 2025, go to my art gallery)

Il cuore della Legge è il perdono, e quindi?

Gesù, rispondendo a Giacomo, disse che "il cuore della Legge è il perdono" (nel film "Gesù di Nazareth" di Franco Zeffirelli, del 1977).

E quindi, in parole semplici, cosa significa?

E' una questione di coraggio: o scegliamo di "voler avere ragione" ponendoci in una posizione di presunta superiorità o legittimità, e quindi rimaniamo nella logica della guerra, della prevaricazione e dell'annientamento del prossimo, o scegliamo di "stare nell'amore", che implica di mettere il proprio ego da parte senza pretese di superiorità.

La prima è la strada della morte, la seconda della pace interiore e della fede.

«[...] guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male [...]»
 
(Cantico delle Creature)

Vogliamo avere ragione o vogliamo vivere in pace?

Sintetizzando, è tutto qui.

Il cuore della legge è il perdono (Francesco Galgani's art, December 31, 2024)
(December 31, 2024, go to my art gallery)

Le persone "inutili" generate dall'IA

Stamani Enrica Perucchietti, una giornalista e scrittrice che spesso fa discorsi meritevoli di attenzione, ha pubblicato le sue riflessioni in un video di venti minuti, intitolato: «Ex Ceo di Google, Eric Schmidt: “Pronti a staccare la spina alla IA”». Tra le altre questioni, Enrica menziona la "classe inutile" generata dall'intelligenza artificiale, ovvero le persone disoccupate, le cui possibilità lavorative e creative sono state rubate dallo sviluppo tecnologico.

Enrica usa la parola "progresso" nel senso di "sviluppo". Come abbiamo già analizzato, è meglio distinguere i due concetti, perché le innovazioni possono sia migliorare che deteriorare la qualità della vita. Su questo tema, rimando al mio precedente articolo: "Gandhi e la modernità: lo sviluppo tecnologico non è progresso, ma regresso?".

Le parole sono importanti. Come può un uomo o una donna essere "inutile"? Tale termine riflette una visione estremamente svalutante del significato della vita, anzi, è espressione di una filosofia di morte, la stessa che incita al suicidio assistito dei giovani "poveri" perché poveri e dei "pensionati" perché non producono più soldi. E' la stessa filosofia demoniaca che chiede l'ibridazione tra uomo e macchina.

Noi non siamo il nostro corpo, ma molto di più. Noi non siamo qui per generare soldi, ma assai più vasto è il senso della nostra esistenza. Noi non siamo il prodotto di una evoluzione dovuta al "caso", che parte dal supposto brodo primordiale che, per "caso", ci ha portati alla situazione attuale. Tutto è mosso da una intelligenza di cui noi siamo parte e che è in tutto. Abbiamo un'anima eterna, e siamo in questo mondo per forgiarci e migliorarci. Non nasciamo per "caso" e nel "caso", ma ci portiamo dietro il bagaglio delle nostre precedenti incarnazioni e dei nostri avi. Tutto è mosso da un motivo.

«[...] ma le mie ali non erano adatte a un volo simile: sennonché la mia mente fu colpita da una folgorazione, grazie alla quale poté soddisfare il suo desiderio.
 
Alla mia alta immaginazione qui mancarono le forze; ma ormai l'amore divino, che muove il Sole e le altre stelle, volgeva il mio desiderio e la mia volontà, come una ruota che è mossa in modo uniforme e regolare»
 
(parafrasi degli ultimi versi della Divina Commedia)

Siamo esseri creativi e divini in un mondo infernale, ma ciò che viviamo e vediamo è un inferno soltanto se il nostro sguardo è continuamente rivolto alle cose infernali, come appunto l'intelligenza artificiale e le infinite guerre. Cambiando sguardo, come una persona che credeva erroneamente di vederci e che finalmente indossa gli occhiali giusti, possiamo accorgerci che il paradiso è qui.

Nessuno è “utile” e nessuno è “inutile”. Casomai, siamo tutti “indispensabili”, ciascuno per il motivo per il quale si è incarnato. Il senso dell'esistenza e la base della felicità vanno ricercati nella comunità e nei legami che ci uniscono.

Non è l'essere umano ad essere inutile rispetto all'IA, ma lo è questa rispetto al bisogno di benessere e felicità di ciascuno di noi.

(30 dicembre 2024)

La resilienza nella casa in fiamme, ovvero perché il mondo va bene così com'è

"Resilienza" è termine gradevole e positivo nel suo significato non-politicizzato e non-giornalistico, cioè in quello meno comune.

Questi sono alcuni esempi molto positivi, tratti da brani di Daisaku Ikeda:

«[...] sono necessari ovunque sforzi quotidiani per aumentare la resilienza, ossia la capacità di prevenire le crisi e la loro escalation e di rispondere con saggezza e in maniera energica e flessibile alle difficili condizioni che si verificano subito dopo un disastro [...]»
(tratto da: "Proposta di Pace 2016 - Il rispetto universale della dignità umana: la grande strada che porta alla pace")

«[...] Ma, attivando la capacità di metterci al posto degli altri, possiamo rafforzare la resilienza agli incitamenti all'odio anche in momenti in cui le tensioni sociali diventano sempre più grandi. [...]»
(tratto da: "L'empatia è la chiave per i diritti umani")

«[...] Al Summit, che ha riunito un gran numero di partecipanti provenienti da tutti i settori della società civile, è stata ribadita l'importanza di perseguire programmi umanitari e di sviluppo in maniera coordinata e omnicomprensiva, aumentando nello stesso tempo la resilienza dei rifugiati e delle comunità che li ospitano.
Accrescere la resilienza è un punto focale della mostra Restoring Our Humanity (Ristabiliamo la nostra umanità) prodotta ed esposta per la prima volta in occasione del Summit di Istanbul. La SGI, che ha contribuito a organizzarla, vuole sottolineare come il consolidamentodella resilienza costituisca l'elemento chiave nella costruzione di un mondo in cui nessuno sia lasciato indietro. [...]»

(tratto da: "Proposta di Pace 2017 - La solidarietà globale dei giovani annuncia l'alba di un'era di speranza")

In questi brani, Ikeda usa la parola "resilienza" (o meglio, i traduttori di Ikeda hanno usato tale parola) per indicare un approccio proattivo e trasformativo alle sfide, con saggezza, energia, flessibilità, empatia, solidarietà e cooperazione per affrontare tensioni sociali e umanitarie. Nulla di ridire, tutto ciò è più che auspicabile.

Nel linguaggio comune del main stream, della politica, del giornalismo, e purtroppo anche della psicologia, la "resilienza" non ha invece un significato così positivo, anzi, oserei dire squallido. Ad esempio, prendiamo Mario Draghi:

«[...] Infine, non dimentichiamo che per essere competitivi, dobbiamo essere resilienti – ha concluso –. Abbiamo attraversato molteplici shock negli ultimi anni e abbiamo lavorato per costruire catene di valore industriali più robuste, soprattutto quando si tratta di sicurezza dell'approvvigionamento [...]» (tratto da: "Ue, Draghi: situazione preoccupante, servono investimenti massicci", 9 settembre 2024).

Tradotto dal politichese all'italiano: «Per essere "competitivi", cioè per permettere alle nazioni europee di vincere la guerra economica (e militare) contro le nazioni nemiche degli Stati Uniti e, per esteso, per permettere alle nazioni europee più forti di sopraffare quelle più deboli, dobbiamo essere "resilienti", cioè adattarci in toto alle logiche del mercato: ciò significa che il dominio e la volontà di pochi miliardari devono prevalere sui parlamenti democraticamente eletti». Chi non ha chiara questa mia traduzione, provi a cercarsi le responsabilità di Mario Draghi con la morte di centinaia di bambini in Grecia. E' evidente che il termine "resilienza", in questo caso, indica la prostituzione e il martirio degli stati a logiche anti-umane. Questo è ormai anche il significato generale del termine nel linguaggio comune, seppure continui ad assere ammantato di una positività ipocrita che confonde le idee.

E' per questa volgarizzazione del termine "resilienza" che mi guardo bene dall'usarlo, e scoraggio altri dal farlo.

Volendo usare una metafora che ne colga pienamente il senso politico, nel linguaggio attuale la resilienza è un invito a non lamentarsi, a non cercare aiuto e a non cercare di liberarsi durante una violenza sessuale atroce, accettandola come fatto della vita.

Questa scena truce della violenza sessuale può accompagnarsi ad un'altra metafora.

Possiamo essere in "pace" e "resilienti", cioè pienamente adattati al sistema, mentre siamo rinchiusi, con mani e piedi legati, dentro un casa di legno che sta andando in fiamme? Possiamo?

La domanda potrebbe sembrare retorica, ma lo è solo in parte. Invito i miei lettori a fermarsi prima di proseguire, a fare qualche respiro profondo per placare le emozioni. Stiamo per immergerci in un'altra dimensione di pensiero, di speranza e di stato d'animo.

Abbandoniamo la politica, lasciamo da parte le polemiche e le idee, e immaginiamo di essere dentro la casa in fiamme, legati ad una sedia. Riusciamo ad essere in pace?

Secondo me, se la risposta è "no" o "sì", dipende dal nostro livello di evoluzione interiore.

Anzi, volendo essere ancora più precisi, l'esistenza o non-esistenza della casa in fiamme o della violenza sessuale è anch'essa una questione conseguente alla propria evoluzione interiore e alla propria consapevolezza.

Tutto arde in un grande fuoco... ma è proprio così?

Il capitolo 16 del "Sutra del Loto" contiene questi versi poetici:

«[...] Quando gli esseri viventi assistono alla fine di un kalpa
e tutto arde in un grande fuoco
questa, la mia terra, rimane salva e illesa,
costantemente popolata di esseri celesti e umani.
Le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi
sono adornati di gemme di varia natura.
Alberi preziosi sono carichi di fiori e di frutti
e là gli esseri viventi sono felici e a proprio agio. [...]»

Teniamo a mente, nel leggere questi versi, che è il Budda a parlare. In questo capitolo sta dichiarando non solo di essere eterno e di essere il padre di tutte le creature (nello stesso capitolo, dichiara in versi: "Io sono il padre di questo mondo che salva coloro che sono afflitti e soffrono"), ma sostanzialmente fa comprendere, come poi insegnò il maestro Toda, di essere la Vita stessa.

Riprendendo un recente intervento di Marco Guzzi, potremmo chiederci se "siamo in tempi d'oro o in tempi di piombo". Io direi nessuno dei due e tutti e due.

Come vediamo le cose dipende innanzitutto dalla nostra mente. I sacri insegnamenti del Budda raccolti in versi nel Dhammapada, iniziano con questa strofa:

Tutto ciò che siamo è generato dalla mente.
E’ la mente che traccia la strada.
Come la ruota del carro segue
l’impronta del bue che lo traina
così la sofferenza ci accompagna
quando sventatamente parliamo o agiamo
con mente impura.

In effetti, ogni nostra esperienza è filtrata dalla mente, ed è questa che determina come percepiamo e reagiamo al mondo intorno a noi.

Forse la vera rivoluzione interiore è accogliere il fatto che il mondo è giusto così com’è, e va bene così com’è, per lo scopo per il quale esiste? Stesso discorso per le nostre vite?

Se nessuno di noi è sbagliato, come ci hanno insegnato tutti i grandi saggi e le grandi tradizioni sapienziali, allora come può il mondo essere sbagliato? Nell'Angelus del 22 dicembre 2024, papa Francesco ha ripetuto più volte che "nessun bambino è un errore". Nessuno di noi lo è. Nessuna forma di vita lo è: questa è la chiave del pensiero cristiano. Il mondo va bene così com'è.

Un pensiero del genere è un’enorme rivoluzione. Implica però la consapevolezza che non esiste il "caso", ma che tutto è finalizzato ad uno "scopo" che trascende la nostra comprensione ordinaria. Nel linguaggio cristiano, tutto ciò che esiste potrebbe essere una manifestazione del pensiero di Dio, i cui obiettivi trascendono le volontà e i desideri delle singole creature. Sono sicuro che il pensiero mistico di altre tradizioni non cristiane vada in una direzione simile, dove l'inizio e la fine di ogni cosa sono nella beatitudine divina:

«Dalla beatitudine tutti gli esseri nascono,
nella beatitudine vivono,
e nella beatitudine infine si fondono»
(Taittiriya Upanishad, Bhrigu Valli, 3.6)

Cerchiamo di ricordarcelo.

(26 dicembre 2024)

Il bagaglio invisibile: cosa portiamo con noi quando cambiamo religione?

Il passaggio da una matrice religiosa occidentale di tipo cattolico a una tradizione spirituale d’origine asiatica, come il buddismo, non avviene in un vuoto culturale o psicologico. Chi proviene da un contesto cattolico – soprattutto se ha interiorizzato le componenti teologiche ed emotive più profonde e inconscie di questa tradizione, quelle che rientrano nel "non detto ma vissuto" – tende infatti a portare con sé, come un bagaglio invisibile, l’immagine di un Dio geloso, esigente e punitivo, nonché un diffuso senso di colpa. Questo bagaglio, se non opportunamente riconosciuto e rielaborato, solitamente si sovrappone alle nuove dottrine, generando “fraintendimenti” e, al limite, una forma di “contaminazione” impropria.

Il “Dio geloso” e il senso di colpa nell’orizzonte cattolico

La tradizione cattolica, erede dell’Antico Testamento oltre che del Nuovo, propone un Dio personale, con il quale l’individuo instaura un rapporto basato su obbedienza, fede e timore reverenziale. Il Dio dell’Antico Testamento è spesso presentato come un Dio geloso, che non tollera il culto di altri dèi, e che punisce se le sue leggi non vengono rispettate. Anche se il messaggio cristiano si sviluppa verso l’amore e la misericordia, non di rado, nella pratica quotidiana, molti credenti crescono con la sensazione di dover placare un’entità esigente, di dover continuamente dimostrare una devozione “pura” e “totale”. Associato a questo Dio vi è il concetto di peccato e della conseguente colpa, che diviene quasi un habitus psicologico: ogni deviazione dalla norma, dalla regola o dalla purezza può essere percepita come una macchia difficile da cancellare.

La natura non-teistica del buddismo e il ribaltamento dei presupposti

Nel passaggio al buddismo, per esempio, si incontrano invece presupposti radicalmente diversi. Il buddismo non poggia sull’idea di un Dio creatore, personale e giudicante. Non esiste una figura divina gelosa o punitiva. L’attenzione è posta sulla comprensione della sofferenza (dukkha) e delle sue cause, non sulla colpa innata dell’individuo. Le Quattro Nobili Verità e l’Ottuplice Sentiero mirano a offrire una via di liberazione dalla sofferenza attraverso la comprensione, la pratica meditativa, la condotta etica e la saggezza, non attraverso l’obbedienza a un’entità trascendente e il timore della punizione.

In questa nuova prospettiva, concetti come “senso di colpa” o “peccato” non hanno lo stesso ruolo. Il male, l’errore, la mancanza non sono offese personali a un Dio, ma condizioni generate dall’ignoranza (avidyā) della vera natura della realtà. Per chi proviene da un retroterra cattolico, questo può essere molto difficile da comprendere. Non ci sono più “comandamenti”, eppure chi proviene dalla tradizione cristiana potrebbe "crearseli" (per bisogno psicologico?) o comunque aderire a un sistema di regole che c’entrano poco o nulla con la natura del buddismo. È come dover riprogrammare il proprio modo di pensare la spiritualità: non più un Dio-giudice, ma un insieme di principi e indicazioni per trasformare la mente e il cuore. Se questo non avviene e si cercano sempre “regole”, la strada del fanatismo è imboccata.

I gruppi religiosi buddisti "istituzionali", specialmente nell'occidente cristiano, potrebbero non avere una sufficiente comprensione di queste problematiche. Dobbiamo quindi fare molta attenzione.

La confusione come ostacolo al cambiamento autentico

Il rischio è che chi compie questo cambiamento religioso, senza passare per una comprensione profonda delle differenze tra le due visioni del mondo, continui di fatto a pregare e meditare come se dietro ogni pratica si celasse ancora un’entità divina pronta a giudicare e a elargire premi o punizioni. Del resto, il concetto di karma può (erroneamente) assomigliare a un Dio giudice.

Invece di meditare per sviluppare presenza mentale, compassione e saggezza, si medita o prega con ansia, temendo di non soddisfare un’ideale o una regola. Invece di contemplare i precetti buddisti come strumenti per ridurre la sofferenza e favorire la liberazione, ci si sente in colpa per non essere abbastanza “bravi” o “puri”.

Questo atteggiamento rischia di snaturare il senso stesso della nuova religione: non c’è più un salto qualitativo nella comprensione, ma solo una trasposizione meccanica di vecchi schemi di colpa e timore in un contesto che non li richiede e non li giustifica.

Verso una comprensione più matura

Per evitare questa confusione, diviene essenziale lavorare su se stessi, con studio e introspezione. La persona che abbandona la tradizione cattolica a favore del buddismo (o di un’altra religione asiatica, come l’induismo, il taoismo o il jainismo) dovrebbe fermarsi a riflettere su quali siano i presupposti teologici, antropologici e psicologici della nuova dottrina. Questo può implicare la lettura di testi originali, l’apprendimento sotto la guida di un maestro qualificato, ma soprattutto un lavoro interiore per riconoscere e smantellare i residui della propria formazione religiosa precedente.

È un processo di disidentificazione: capire che il senso di colpa e la paura di un Dio geloso non sono intrinsecamente legati alla spiritualità, ma sono il risultato di una specifica visione religiosa e culturale. Solo assumendo questa consapevolezza si può sperimentare la nuova religione nella sua autenticità, comprendendone il messaggio liberatorio e la differente prospettiva sul mondo e sull’essere umano.

Note finali

In definitiva, chi proviene dal cattolicesimo e si apre ad un’esperienza religiosa di matrice asiatica corre il rischio di generare confusione interiore se non riconosce il proprio bagaglio psicologico e teologico pregresso. Il passaggio non è solo un cambio di “etichetta religiosa” ma richiede di comprendere a fondo un sistema di pensiero completamente differente. Solo attraverso l’elaborazione delle categorie interiorizzate, il distacco dal senso di colpa e la liberazione dal modello del “Dio geloso”, sarà possibile vivere appieno il percorso spirituale offerto da queste tradizioni, accedendo ad un panorama più ampio di significato e trasformazione personale.

Ad ogni modo, ricordiamoci che il "bagaglio invisibile" non riguardo solo la religione precedente, ma anche il sistema culturale ed economico neo-liberista in cui siamo inseriti. In particolare l'idea di "dover fare qualcosa" per ottenere un "determinato risultato" è profondamente radicata nella nostra cultura, ma c'entra poco o nulla con il buddismo.

Nel contesto culturale occidentale, la concezione del "fare per ottenere" è fortemente legata al materialismo e all'idea del controllo sugli eventi. Questa prospettiva è profondamente utilitaristica e orientata al futuro, dove ogni azione è vista come un mezzo per raggiungere un fine.

Il buddismo, invece, pone l'accento sulla consapevolezza dell'azione stessa, indipendentemente dal risultato. Non si tratta di eliminare il concetto di causalità (che nel buddismo esiste, ad esempio, nella legge del karma), ma di comprendere che l'attaccamento al frutto dell'azione è fonte di sofferenza. L'azione dovrebbe essere intrapresa con attenzione e presenza, senza aspettative rigide.

In sostanza, può esserci un conflitto di paradigmi: uno orientato al risultato e uno orientato al momento presente e alla consapevolezza.

Questo è un invito a riflettere su come il nostro modo di vivere sia influenzato da schemi culturali, e come il buddismo offra una prospettiva alternativa, più libera dall'ansia del "dover ottenere".

(10 dicembre 2024)

Perché non esiste l’anno zero nel nostro calendario?

Alcuni libri scolastici adottati dalla scuola italiana, che ho visto personalmente, insegnano il concetto del tempo come una linea retta senza interruzioni, sulla quale il punto 0 corrisponderebbe alla nascita di Cristo. Questa rappresentazione semplificata, seppur utile a uno scopo didattico elementare, è in realtà scorretta dal punto di vista storico e cronologico.

L’idea di un anno zero, che separi l’era avanti Cristo (a.C.) e l’era dopo Cristo (d.C.), non rispecchia il sistema di numerazione degli anni su cui si basa il calendario gregoriano, né il lavoro di Dionigi il Piccolo, il monaco del VI secolo che propose il computo del tempo secondo la nascita di Gesù. Quando Dionigi fissò questo punto di inizio, il concetto di zero non era comunemente usato nella matematica occidentale, pertanto il conteggio degli anni passò - e passa tuttora - direttamente dall’1 a.C. all’1 d.C. senza un anno intermedio.

Questo aspetto non è un semplice dettaglio tecnico, ma ha influenze sulla corretta comprensione degli intervalli cronologici. L’assenza dell’anno zero fa sì che il primo secolo della nostra era vada dall’1 d.C. al 100 d.C. e non dal 0 al 99, come qualcuno potrebbe erroneamente ritenere. Allo stesso modo, il secondo secolo inizia nel 101 e termina nel 200, il terzo comincia nel 201 e così via. Questa impostazione determina anche l’effettivo inizio dei millenni: il primo millennio va dall’anno 1 all’anno 1000, il secondo inizia nel 1001 e termina nel 2000, e il terzo prende avvio nel 2001.

Di conseguenza, il cambio di millennio non andava idealmente festeggiato quando le cifre dell’anno passarono a un numero tondo come il 2000, bensì all’inizio del 2001. Tuttavia, l’idea dell’anno 2000 come soglia simbolica fu così potente da scatenare festeggiamenti diffusi, alimentati anche da un forte impatto mediatico e commerciale. Le celebrazioni del nuovo millennio non si basarono sulla corretta nozione di calcolo degli anni, ma su un bisogno psicologico e culturale: il numero 2000, perfetto e tondeggiante, comunicava una sensazione di svolta epocale, più facilmente assimilabile dall’opinione pubblica rispetto alla precisione cronologica.

Questo tipo di confusione storica si è presentato anche nel passaggio da altri secoli, come quando ci si affrettò a festeggiare la fine del XIX secolo nel 1900, ignorando che il XX secolo sarebbe iniziato solo con il 1901.

Dal mio punto di vista, sarebbe auspicabile che i materiali didattici fossero più chiari nel distinguere tra semplificazioni simboliche e dati storici, sia su questa che su altre questioni. Una maggiore precisione contribuirebbe a una comprensione più profonda della nostra cultura cronologica e del modo in cui il nostro calendario si è sviluppato.

La complessità del tempo storico e del suo racconto non è riducibile a una semplice linea retta, bensì un insieme articolato di convenzioni, scelte e interpretazioni stratificatesi nei secoli.

Per inciso, il tempo come linea retta è una invenzione del cristianesimo. Sant'Agostino contribuì in modo significativo a questa concezione lineare del tempo attraverso la sua opera "Le Confessioni" e altri scritti filosofico-teologici come il "De Civitate Dei" (La Città di Dio). In estrema sintesi, secondo la dottrina cristiana, il tempo inizia con la creazione del mondo da parte di Dio e terminerà con la fine dei tempi, il Giudizio Universale. Questa visione si fonda sulla narrazione biblica. Sant'Agostino sottolinea che il tempo non è un eterno ritorno, ma una linea retta che va dalla creazione alla redenzione, con una direzione e uno scopo determinati da Dio. Su questa visione lineare del tempo, si fondano la nostra cultura e il nostro calendario.

Prima del cristianesimo, molte tradizioni culturali e filosofiche, specialmente quelle legate alla mitologia greca e al pensiero orientale, avevano una visione ciclica del tempo. Per i greci antichi, l'induismo e il buddismo il tempo non è lineare, quindi stiamo attenti a non concepire come "dato di fatto universale" ciò che è primariamente un relativismo culturale.

(10 dicembre 2024)

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