Il significato della sofferenza?
La sofferenza diventa sopportabile solo quando riusciamo a darle un senso, mentre risulta insopportabile se resta un puro dolore privo di significato. Attribuire uno scopo alla sofferenza non significa negare o minimizzare il dolore che proviamo, bensì trasformarlo in un motore di crescita e di consapevolezza. In tale prospettiva, anche le esperienze più difficili possono portare a una comprensione più profonda di noi stessi e della realtà che ci circonda.
Come recita il Dhammapada (vv. 277-279): “Tutte le cose condizionate sono impermanenti [...] Tutte le cose condizionate sono di per sé insoddisfacenti [...] Tutte le realtà sono prive di un sé permanente: quando lo comprendiamo direttamente e profondamente, ci sentiamo stanchi di questa vita di sofferenza. E’ questa la via della purificazione”. In questi versi, il Buddha insegna che tutte le cose condizionate (ovvero tutto ciò che è soggetto a causa ed effetto) sono impermanenti, insoddisfacenti e prive di un sé permanente. Questa è la comprensione delle tre caratteristiche dell'esistenza (anicca, dukkha, anattā). Quando realizziamo pienamente questa verità, non ci aggrappiamo più alle cose con attaccamento o avversione, perché comprendiamo che esse non possono offrire una felicità duratura. Questo porta a un senso di distacco (nibbidā), che non è rifiuto della vita, ma una disillusione serena e salutare che ci spinge a vedere la realtà con maggiore equanimità (upekkhā, cioè stabilità di fronte alle fluttuazioni della fortuna mondana) e saggezza, riducendo il coinvolgimento emotivo e le illusioni che causano sofferenza. Questo processo interiore è appunto "la via della purificazione" (visuddhimagga).
"Monaci, i sette fattori del risveglio, se sviluppati e coltivati, conducono unicamente al disincanto, al distacco, alla cessazione, alla pace, all’intuizione, al risveglio e al nibbana. Quali sette? Il fattore del risveglio della presenza mentale, dell’investigazione del Dhamma, dell’energia, dell’estasi, della tranquillità, della concentrazione e dell’equanimità. Questi sette fattori del risveglio, se sviluppati e coltivati, conducono unicamente al disincanto, al distacco, alla cessazione, alla pace, all’intuizione, al risveglio e al nibbana". (SN 46.20: Nibbidā Sutta – Disincanto)
Passando da questa riflessione a un aspetto specifico, uno dei principali “benefici” della sofferenza è il suo potenziale per un progresso interiore significativo. Tuttavia, perché ciò accada, è necessario un lavoro lento e spesso faticoso su di sé, fatto di introspezione, autoanalisi e volontà di cambiare. Tale percorso trascende le singole tradizioni spirituali, poiché l’esperienza intima e personale del dolore tocca dimensioni dell’essere umano che vanno al di là di ogni specifica dottrina. Allo stesso tempo, molte strade di fede offrono strumenti e chiavi di lettura preziose per orientarci in questo cammino di trasformazione.
Il Buddismo non mira a cancellare la sofferenza, ma a riconoscerla, comprenderne le cause e trasformare le nostre reazioni interiori. Secondo il Budda:
«Questa, monaci, è la nobile verità del dolore. La nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che odiamo è dolore, la separazione da ciò che amiamo è dolore, non ottenere ciò che desideriamo è dolore, in breve i cinque aggregati dell’attaccamento sono dolore.
Questa, monaci, è la nobile verità sull’origine del dolore. E’ la sete che porta alla rinascita, vincolata all’avidità e alla brama, e ovunque porta all’attaccamento, vale a dire la sete dei piaceri dei sensi, la sete di esistenza e del divenire, e la sete di non-esistenza.
Questa, monaci, è la nobile verità della cessazione del dolore. È la completa cessazione della sete, l’abbandono, la rinuncia, la liberazione, il distacco.
Questa, monaci, è la nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore. È il Nobile Ottuplice Sentiero, e cioè: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione». (SN 56.11: Dhamma Cakkappavattana Sutta)
Allo stesso tempo, la visione del Bodhisattva rivoluziona la prospettiva: anche chi potrebbe uscire dal ciclo delle rinascite (ovvero raggiungere il Nirvana, cioè la fine di ogni sofferenza) sceglie di rimanervi, per portare benessere e pace a tutti gli esseri senzienti. Questa attitudine compassionevole e altruista richiede un continuo impegno su di sé e l’accettazione che la condizione incarnata comporti inevitabilmente una quota di sofferenza. Ciò è esemplificato dai Tre Principi del Bodhisattva nel Canone Tibetano:
- Nutrire costantemente l'auspicio di poter essere utile agli altri
- Abbandonare tutto ciò che può essere causa di danno agli altri.
- Coltivare tutto ciò che può servire come base per il bene degli altri.
Quando comprendiamo che la sofferenza può diventare un’opportunità di evoluzione, iniziamo a percepire una serenità di fondo che non dipende più unicamente dalle circostanze esterne. Dare un significato al dolore non lo annulla, ma ci permette di sperimentare una luminosità interiore più stabile, fondata sulla consapevolezza di avere la capacità di trasformare le avversità in saggezza. Non è un processo immediato né privo di ostacoli, ma, passo dopo passo, possiamo scoprire come la sofferenza stessa possa diventare una maestra di compassione e di apertura al mistero dell’esistenza.
Dare un senso alla sofferenza è un atto profondamente umano e spirituale: integrando il dolore nella nostra vita, anziché subirlo passivamente, troviamo la forza per non esserne schiacciati. Ogni tradizione religiosa o spirituale offre strumenti specifici per affrontare il “male di vivere”, e ciascuno può trovare il sentiero più adatto alla propria sensibilità. Ciò che resta fondamentale, al di là delle singole vie, è il riconoscimento che la sofferenza, se accolta e compresa, può condurre a un’espansione di coscienza e a una profonda luminosità interiore, in grado di sostenere noi stessi e di irradiare positività verso chi ci circonda. Come ci ricorda ancora il Dhammapada (v. 183): “Smetti di fare il male, coltiva il bene, purifica il cuore. E' questa la Via del Risvegliato”.
(20 febbraio 2025)
L'indicibile
Tutto va come deve andare.
Tutto ciò che esiste è già in perfetto equilibrio.
Ogni evento è indirizzato al bene supremo, al ritorno nella luce senza tempo che è casa nostra.
Ogni forma di vita è portatrice di bene, che lo voglia o no.
Tutto ha la sua funzione.
Ma prima che tutto questo sia svelato, l'illusione dei pensieri e dei giudizi dovrà consumarsi nel fuoco eterno della saggezza.
(Serenità, February 19, 2025, go to my art gallery)
L’unico libero arbitrio?
Il libero arbitrio, nella sua essenza, presume che un essere con coscienza, in grado di intendere e di volere, faccia una scelta tra più alternative disponibili. Tale scelta non dovrebbe essere determinata da pressioni sociali, da inclinazioni o necessità interiori, e nemmeno forzata da leggi o ricatti, altrimenti non sarebbe “libera”. Non potrebbe nemmeno essere una reazione automatica o indotta, ma il frutto di un pensiero consapevole e giudicante, altrimenti, più che di “arbitrio”, parleremmo di un automatismo.
Se ammettessimo questa definizione, sarebbe facile accorgersi che il libero arbitrio non può esistere.
Estendendo l’analisi, mi sorge il sospetto che il vero problema non sia la natura del libero arbitrio, ma il soggetto a cui lo si vorrebbe applicare. Nessuno di noi esiste come entità indipendente da ciò che è percepito come “altro da sé”. Anzi, ciascuno di noi, in ogni istante, è il risultato precario e temporaneo di una concatenazione insondabile di cause e condizionamenti. L’intenzione consapevole è come una barca in un mare tempestoso: se riuscisse a galleggiare senza rompersi e senza affondare, sarebbe già un miracolo. Se poi fosse così potente, in una simile violenza di cause e condizionamenti, non solo da non andare a picco, ma persino da seguire una traiettoria desiderata, otterremmo qualcosa di straordinario, un vero “libero arbitrio”.
Il mio invito è quello di impegnarci a fare in modo che quella barca che naviga tranquilla, in mezzo al caos e alla disperazione imposti dalla vita, sia la nostra mente. Questo è l’unico libero arbitrio possibile, cioè rimanere in pace nonostante le cause e i condizionamenti. Giorno per giorno, approfondiamo questa pace.
(5 febbraio 2025)
Rinascita, vacuità e il flusso degli aggregati nel Buddismo
Avvertenza: per approfondire i termini sanscriti e pali, suggerisco l'ottima Encyclopedia of Buddhism
Sebbene "rinascita" e "reincarnazione" possano sembrare sinonimi, nel contesto buddista hanno significati sottilmente diversi.
"Reincarnazione" è un termine più comune nelle tradizioni induiste e in altre religioni, dove si crede che un’anima individuale e permanente passi da un corpo a un altro attraverso le vite. In altre parole, c'è un’idea di un’identità fissa e permanente che si reincarna.
La "rinascita", nel buddismo, è più complessa, perché non si fonda sull’idea di un’anima individuale e immutabile che trasmigra da un corpo all’altro. Al contrario, poggia sulla visione della vacuità e del non-sé (anatta in pali, anātman in sanscrito), secondo cui nulla esiste in maniera autonoma, indipendente e permanente. È per questo che, pur riconoscendo il fenomeno della rinascita, il buddismo afferma che non vi è un “qualcuno” che si reincarna in senso sostanziale. Tale prospettiva, elaborata e chiarita in modo decisivo da grandi maestri come Nagarjuna, sottolinea la totale interdipendenza di tutti i fenomeni e l’assenza di un’entità fissa o sostanziale che perduri di vita in vita.
Nel buddismo, la morte e la nascita sono considerate due poli di un processo continuo regolato dal principio di causa ed effetto, in cui il karma, ovvero le azioni intenzionali di un individuo, determina le sue future esperienze.
Alla morte, il complesso psicofisico di cui è costituita l’esistenza di un individuo, formato dai cosiddetti “cinque aggregati” (forma fisica, sensazioni, percezioni, formazioni mentali, coscienza), si disgrega.
I cinque aggregati (skandha) rappresentano gli elementi costitutivi dell’esistenza umana e, nel loro insieme, descrivono come sorge l’illusione di un “io” separato. Primo è l’aggregato della forma fisica (rūpa), che comprende il corpo e i suoi aspetti materiali. Secondo è quello delle sensazioni (vedanā), ossia le esperienze piacevoli, spiacevoli o neutre che emergono nel contatto con il mondo. Terzo è l’aggregato della percezione (saṃjñā), attraverso cui si riconoscono e si etichettano gli oggetti dell’esperienza. Quarto è quello delle formazioni mentali (saṃskāra), ovvero le abitudini, le spinte volitive, le intenzioni e i condizionamenti della mente. Quinto è l’aggregato della coscienza (vijñāna), che registra e conosce i fenomeni presenti. Questi cinque aspetti non sono entità statiche, ma processi in costante trasformazione, che interagiscono tra loro e con le circostanze esterne.
Non è corretto immaginare che un’anima si stacchi dal corpo e voli altrove al momento della morte. Piuttosto, si dissolve l’assetto specifico degli aggregati che costituivano l’individuo in quella particolare vita, mentre rimane un flusso di condizionamenti, tendenze e risultati karmici in attesa di manifestarsi.
Questa transizione non implica l’esistenza di un “sé” incapsulato o separato, bensì la continuità di impulsi ed energie che, una volta trovate le condizioni adatte, daranno origine a una nuova combinazione di aggregati, ossia a una nuova vita. È come la fiamma di una candela che ne accende un’altra: la seconda fiamma non è la stessa della prima, ma dipende causalmente dalla prima. Ciò che si trasmette è il fuoco, non un nucleo identico e immutabile. Ma il fuoco della rinascita ha bisogno di nutrimento, di "brama":
“Maestro Gotama, quando un essere ha deposto questo corpo ma non è ancora rinato in un altro corpo, cosa dichiara il Maestro Gotama essere il suo nutrimento in quell’occasione?”
“Quando, Vaccha, un essere ha deposto questo corpo ma non è ancora rinato in un altro corpo, io dichiaro che è alimentato dalla brama. Perché in quell’occasione la brama è il suo nutrimento.”
(tratto da: SN 44.9: Kutūhalasālā Sutta)
Nel buddismo, taṇhā (pali) o tṛṣṇā (sanscrito) è comunemente tradotta come brama, sete o desiderio smodato. È uno degli elementi fondamentali della Seconda Nobile Verità, ovvero l'origine della sofferenza (dukkha), ed è considerata il principale motore del samsara (il ciclo di nascita, morte e rinascita).
La brama è di tre tipi principali:
- Kāma-taṇhā → il desiderio di piaceri sensoriali (piacere visivo, uditivo, gustativo, tattile, mentale).
- Bhava-taṇhā → il desiderio di esistenza, di diventare qualcosa o qualcuno (attaccamento alla vita, alla personalità, al sé).
- Vibhava-taṇhā → il desiderio di annichilimento o non-esistenza (il rifiuto dell’esistenza, il desiderio di cessare di esistere come fuga dalla sofferenza).
La brama è strettamente legata al concetto di attaccamento (upādāna) e, secondo il paticca-samuppāda (origine dipendente), porta alla rinascita.
Nel Kutūhalasālā Sutta (SN 44.9) precedentemente citato, il Budda spiega a Vacchagotta che tra la morte e la rinascita di un essere, la sua "nutrizione" è la brama. Questo indica che la forza che spinge la coscienza a rinascere è il desiderio di continuare ad esistere e di ottenere nuove esperienze. In altre parole, anche dopo la morte, se non c'è stato un completo abbandono della brama, la coscienza, condizionata dal karma, cercherà una nuova forma di esistenza.
Quando un essere elimina completamente la brama, raggiunge il Nibbāna (o Nirvana), uno stato in cui non vi è più continuazione del ciclo di rinascite. Questo è il significato della "liberazione" (mokṣa) nel buddismo: non rinascere più perché non c’è più nulla che "spinga" la coscienza a cercare un nuovo corpo.
L’Arhat è colui che si concentra sulla propria liberazione personale, seguendo l'insegnamento del Budda per mettere fine al proprio soffrire e non rinascere più.
Il Mahāyāna, sviluppatosi a partire dal I secolo a.C., considera l’ideale dell’Arhat "incompleto" o "inferiore" rispetto all’ideale del Bodhisattva. Il Bodhisattva è un essere che ha rinunciato alla propria entrata nel Nibbāna definitivo per rimanere nel saṃsāra (ciclo di nascita e morte) e aiutare tutti gli esseri senzienti a liberarsi dalla sofferenza.
Nel Mahāyāna, il Bodhisattva è colui che sviluppa la Bodhichitta, il desiderio compassionevole di liberare tutti gli esseri senzienti. Egli pratica le Sei Perfezioni (Pāramitā):
- Dāna (generosità) – aiutare gli altri senza aspettarsi nulla in cambio.
- Śīla (disciplina morale) – osservare una condotta etica impeccabile.
- Kṣānti (pazienza) – accettare le difficoltà senza reagire con rabbia.
- Vīrya (energia, sforzo gioioso) – impegnarsi costantemente nel Dharma.
- Dhyāna (meditazione) – coltivare la concentrazione e la saggezza.
- Prajñā (saggezza trascendentale) – comprendere la vacuità (śūnyatā).
L'ideale del Bodhisattva nel Mahāyāna non nega la mokṣa (liberazione), ma la trasforma in un cammino altruistico. Il Bodhisattva non fugge dal mondo ponendo fine alle sue rinascite, ma si immerge in esso per aiutare tutti gli esseri a risvegliarsi. Questa è una differenza chiave rispetto al modello più individualistico dell’Arhat.
Ricapitolando, quando parliamo di “rinascita” non facciamo riferimento alla sopravvivenza di un’anima eterna, bensì a un continuum di cause e condizioni che, nel momento della morte, trasmette i suoi effetti a un nuovo insieme di aggregati, dando vita a una nuova esistenza. Da questa prospettiva, è corretto affermare che, secondo la visione di Nagarjuna, esistono la rinascita e il karma, ma non esiste un soggetto permanente che si reincarna.
L’assenza di un sé sostanziale non esclude però la responsabilità morale, poiché il flusso di azioni, intenzioni e conseguenze non va perduto: ogni atto, compiuto con una certa motivazione, getta i semi per esperienze future, che maturano quando le condizioni diventano favorevoli. Questo è il senso profondo della legge karmica: l’io che agisce oggi non è lo stesso che raccoglierà i frutti, ma neppure del tutto diverso. Vi è una continuità che non coincide con un “qualcuno”, ma con un flusso causale interdipendente.
All’interno delle narrazioni tradizionali sul Budda, troviamo numerosi racconti di vite precedenti: nel caso di Shakyamuni, si racconta ad esempio della sua esistenza come “Mai Sprezzante”, in cui coltivò la qualità della riverenza verso tutti gli esseri, anticipando quella profonda compassione che avrebbe poi perfezionato come Budda. Tali episodi non vogliono avallare la credenza in un’anima trasmigrante, bensì illustrare l’importanza di un lungo percorso di purificazione e pratica, volto a maturare la saggezza e la compassione necessarie all’illuminazione. La storia di “Mai Sprezzante” e altre simili intendono mostrare come determinati atteggiamenti, portati avanti per molte vite, gettino le basi per il risveglio.
Il processo di morte e rinascita, specialmente in alcune scuole del buddismo come il Vajrayana (buddismo tantrico) tibetano, viene descritto con grande dettaglio. Si parla di stati intermedi, comunemente chiamati “bardo”, in cui la coscienza, non più vincolata a un corpo fisico, sperimenta varie visioni e fenomeni mentali che riflettono la propria natura interiore. Anche in questo contesto, tuttavia, l’insegnamento di fondo rimane lo stesso: non vi è un sé permanente, ma un flusso di tendenze e percezioni che emergono e svaniscono a seconda delle cause e delle condizioni. La funzione principale di questi insegnamenti più analitici consiste nell’aiutare i praticanti a prepararsi al momento della morte e a orientare la mente in modo virtuoso, affinché le condizioni per la rinascita siano il più possibile favorevoli al cammino verso l’illuminazione.
Prima di concludere, vorrei riflettere sul significato della parola "coscienza" nel buddismo (in sanscrito vijñāna): non indica un’entità, ma un processo dinamico. È come un fiume che scorre: l’acqua cambia continuamente, ma il flusso mantiene una coerenza temporanea. Alla morte, l’ultimo momento di coscienza (maranāsanna-vijñāna) funge da ponte karmico verso una nuova esistenza, senza che nulla di sostanziale "passi" da un corpo all’altro.
Ricapitolando, il buddismo nega l’anima (anātman) ma ammette la rinascita (saṃsāra). C'è la rinascita, ma non c'è un "soggetto" permanente che rinasce. Non esiste un "io" fisso che rinasce, però non tutto svanisce nel nulla: c’è una continuità di cause, condizioni e risultati.
(2 febbraio 2025)
Come l'oceano
Ciò che è notte per tutti gli esseri viventi, è il momento in cui l’uomo disciplinato è desto;
ciò in cui gli esseri viventi sono desti è notte per il saggio che vede la verità.
Come le acque dei fiumi affluiscono nell’oceano, che rimane colmo e immutabile,
così tutti i desideri entrano in colui che rimane impassibile;
egli ottiene la pace, e non colui che si lascia dominare dai desideri.
Chi abbandona tutti i desideri, vive senza bramosia, senza senso di possesso, senza egoismo,
costui raggiunge la pace.
(libera traduzione di Bhagavad Gītā 2.69-72)
Siamo esseri limitati
Gli Stati Uniti si avviano a "superare i loro limiti" con il progetto Stargate, una rete nazionale di supercomputer e datacenter finalizzata ad una intelligenza artificiale "super". Teniamo a mente questa notizia, su cui torneremo tra poco, prima vorrei discutere della nostra penosa condizione di esseri umani.
Perché nella vita accadono cose indesiderabili, brutte o persino tragiche? Perché spesso le cose non vanno come vorremo? Perché, se ripensassimo onestamente al nostro agire, vedremmo la nostra pochezza?
Perché la vita è "dukkha", cioè "difficile da sopportare"?
Dukkha è, come insegnò il Budda Shakyamuni, la condizione di sofferenza che accomuna tutti gli esseri senzienti, umani e non umani, divinità comprese. In questa visione, la pena, il lamento, il dolore corporeo, lo sconvolgimento della mente e l'agonia sono in conseguenza dei desideri, della "brama" che deriva dal semplice fatto di essere vivi.
Secondo me, una spiegazione più sintetica della causa delle nostre sofferenze è che "abbiamo dei limiti".
Le nostre vite sono un continuo vincolo tra i limiti della nostra mente, del nostro corpo, dell'ambiente naturale e di quello artificiale creato dalla società. Spesso non abbiamo neanche il "tempo" per pensare e fare scelte assennate, perché il "tempo" è il limite supremo di ogni cosa e la garanzia della nostra morte. Così, spesso agiamo piegandoci alle circostanze e facendo affidamento sull'intuizione o sui comportamenti appresi, iper-semplificando la complessità della realtà che altrimenti sarebbe ingestibile. Le normi sociali servono proprio a questo.
Ma la sofferenza rimane, dukkha è ineliminabile. C'è chi lo accetta e vive meglio che può, con quel poco che ha, all'interno dei propri limiti. In questa accettazione può esserci anche tanta gioia, soprattutto negli affetti.
Chi invece non accetta tutti questi limiti... crede, forse, tornando alla notizia iniziale, che il progetto Stargate oggi, e altri ancora più ambiziosi domani, siano la soluzione. Nell'inconscio umano non c'è accettazione del limite e la tecnologia è una risposta illusoria per superarlo. Ma un progetto come Stargate richiede almeno cinque centrali atomiche per erogare l'energia elettrica necessaria. Purtroppo la dualità dell'uso civile/militare dell'energia nucleare è ingannevole.
Renzo Rosso scrisse un articolo su "Il Fatto Quotidiano" del 5 aprile 2022, intitolato "Il nucleare civile favorisce e sostiene in molti modi i programmi militari", in cui spiegò, come si evince dal titolo, che il nucleare civile comunque è uno dei mezzi possibili, ed effettivamente usati, per produrre la bomba atomica. Inoltre, "Ripartire dal nucleare è un passo indietro pericoloso e, oltre tutto, ingiustificabile sotto il profilo economico. Il nucleare civile si sostiene solo per l’esternalizzazione dei costi e delle perdite. Sono i cittadini contribuenti a pagare gli incentivi, le sovvenzioni, le garanzie sui capitali investiti, la limitazione delle responsabilità per i danni di incidenti, i controlli sanitari, la spesa per la costruzione e la gestione dei depositi di scorie radioattive. E tutti i costi appostati nei bilanci militari in modo non trasparente."
Quindi, dietro la facciata dell'onnipresente intelligenza artificiale, ci sono costi abnormi scaricati su di noi e il sostegno a programmi militari.
Tornando alla riflessione sul dukkha, cioè sulla nostra condizione di base di esseri umani, le bombe atomiche sono una soluzione alle nostre sofferenze? E l'intelligenza artificiale?
Il problema non è l'essere umano, perché ha dei limiti.
Il problema sono i desideri umani e la follia che ne consegue, perché sono senza limiti e possono distruggere tutto.
A volte basterebbe dire "Io ho dei limiti" piuttosto che essere in guerra con la natura, con i propri simili, con il mondo intero e con Dio.
(23 gennaio 2025)
P.S.: Pure questo è scritto senza IA, seguendo l'esempio dell'articolo di Giulio Ripa "Dalla servitù della gleba alla servitù delle piattaforme digitali".
Dalla servitù della gleba alla servitù delle piattaforme digitali
Articolo di Giulio Ripa, con commento in calce di Francesco Galgani
Dallo stato sociale allo stato borghese
Dalla servitù della gleba alla servitù delle piattaforme digitali
Lo stato sociale per definizione è "l'orientamento dello Stato e/o di istituzioni sociali volto a proteggere e promuovere il benessere economico e sociale dei cittadini, sulla base dei principi di pari opportunità, equa distribuzione della ricchezza e responsabilità pubblica per i cittadini più fragili."
La divisione nei due blocchi est-ovest venutasi a creare dopo la seconda guerra mondiale, spinse i paesi occidentali ad avviare politiche di assistenza sociale in competizione con le politiche sociali dei paesi comunisti dell'est.
Dopo la caduta del muro di Berlino e dell'Unione Sovietica, gli stati in Europa hanno ridotto, sempre di più lo stato sociale.
La diminuzione della spesa pubblica come intervento dello stato, ha sempre di più favorito le privatizzazioni, la finanziarizzazione dell'economia, l’accumulazione dei capitali, i monopoli.
Tutta una serie di servizi pubblici sono soggetti al mercato ed alle speculazioni finanziarie. E' la fine del servizio pubblico universale e l’inizio di ognuno pensa per sé.
Poveri, precari, e fragili cittadini sono sempre di più abbandonati al loro destino, determinato da un sistema neoliberista che genera disuguaglianze e una visione individualista nei rapporti sociali.
Nuove tecnologie favoriscono questo sistema basato sulla separazione e competizione tra gli individui, dove vige la legge del più forte, tutti contro tutti. E' sotto gli occhi di tutti la riduzione dello stato sociale. Lo stato è sempre più simile ad uno stato borghese come era pensato nell'ottocento, cioè uno stato a favore dei signori, della borghesia di allora, che svolgeva la sua opera limitata solo in certi ambiti come il commercio, la finanza, la difesa militare e la difesa dei privilegi dei più forti; uno stato ridotto all'osso, forte con i deboli e debole con i forti, con un sistema economico e politico in cui grandi corporazioni e interessi commerciali detengono una forte influenza o controllo del potere decisionale.
Oggi la stessa democrazia occidentale, a servizio della finanza e dei suoi collaboratori, con la rottura del contratto sociale che univa la popolazione, sta perdendo di valore e sostanza, disgregando la partecipazione democratica nella politica attiva dei cittadini.
In mancanza di una democrazia sostanziale, aggiungiamo che uno stato borghese, diretto o condizionato da oligarchie multinazionali, ha l'esigenza di controllare la vita di tutti i cittadini compreso l'informazione, per imporre le politiche governative frutto di pressioni di lobby e signori del mondo, oligarchie e monopoli privati.
La sorveglianza avviene attraverso le piattaforme digitali sempre più sofisticate, invasive e pervasive, capaci di manipolare ed omologare il pensiero corrente.
Nel passato c’era la SERVITÙ della gleba, “istituto giuridico tipicamente medievale, formatosi negli ultimi secoli dell’Impero romano, per il quale il contadino era legato alla terra che coltivava e non poteva abbandonarla: tale condizione, ereditaria, comprendeva una serie di vincoli e oneri e una potestà generale del signore sulla persona e sul patrimonio del contadino stesso, per cui questo poteva essere dato in pegno e alienato insieme col fondo”.
Oggi, la servitù si presenta in modo simile, con un nuovo feudalesimo anzi, un tecnofeudalesimo, dove prevale una forte differenza di classe tra i nuovi signori del mondo (borghesia proprietaria delle piattaforme) e la nuova "SERVITU' delle piattaforme digitali" (IA, social web, etc.), cittadini ridotti a semplici utenti senza diritti umani fondamentali; utenti iperconnessi che con il loro comportamento interattivo alimentano a titolo gratuito enormi quantità di dati (big data) utili alle piattaforme digitali in particolare quella dell’intelligenza artificiale.
Giulio Ripa
P.S: Questo testo è privo di contenuti generati dall'Intelligenza artificiale.
Per ulteriori approfondimenti scaricare l’e-book
Liberazione dell’intelletto per una nuova umanità
commento di Francesco Galgani
Un asino che raglia è mio fratello, e può anche essere mio amico se io lo sono con lui.
Ma qualsiasi intelligenza aliena di produzione terrestre, detta "artificiale", non sarà mai né mia amica, né mia sorella, né madre, né figlia.
Tutto ha il suo perché, tutto ha la sua funzione, nulla s'affida al "caso", che è solo il modo con cui chiamiamo il mistero della vita. Così, l'amore chiama amore e l'odio pretende odio, ma il nemico più abile fa credere che il suo odio sia amore e il suo veleno nutrimento. La storia dell'umanità è forse guidata dalla Provvidenza, ma certamente, come il sole sorge ogni mattina, così il forte opprime il debole. La sua prepotenza e violenza oggi si mostra non solo nei fiumi di sangue di Gaza e dintorni, ma anche negli smiley sorridenti e gioiosi che spesso concludono le risposte amichevoli di ChatGPT.
Giulio ha paragonato il nostro rapporto con le luciferine creazioni tecnologiche dei padroni del mondo alla servitù della gleba. Questa è una metafora giusta, ma troppo leggera, giacché il servo della gleba aveva cibo, lavoro e alloggio. Oggi l'intelligenza artificiale ci porta via il lavoro e, di conseguenza, anche il cibo e l'alloggio. Molti potrebbero obiettare che l'IA ci sta dando opportunità che prima non avevamo. Sì, questo è vero, infatti adesso ci sono già molte fabbriche senza nemmeno un operaio.
Lo schiavo è una risorsa per il padrone: su questo siamo tutti d'accordo. Possiamo dire anche il contrario, cioè che il padrone sia una risorsa per lo schiavo? Non chiediamolo ai servi della gleba, chiediamolo invece ai galeotti costretti fino alla morte a remare, remare e ancora remare. Oggi non siamo forse noi questi galeotti, costretti da un mondo ipertecnologico a soffrire sempre di più la mancanza di ciò che occorre per vivere, a cominciare dalla gioia? Noi nutriamo continuamente l'IA, ma lei in cambio ci dà solo illusioni.
Giulio ha voluto precisare di non essersi appoggiato alla stampella digitale dell'IA per farsi aiutare nella scrittura dei suoi pensieri o, peggio, per chiedere all'IA di pensare per lui. In un mondo impazzito che non sa più pensare, già questo è un atto rivoluzionario. Pure io sto scrivendo questo commento non solo senza IA, ma senza neanche un editor di testo convenzionale. Sto usando un programmino che non dà un supporto molto maggiore di quello di una macchina da scrivere, tipo il vecchio Blocco Note di Windows. Non ho nemmeno il controllo ortografico.
Di solito non c'è bisogno di precisare qual è il "processo" per arrivare a un risultato, basta il risultato. Ma se il risultato è prodotto in un secondo dall'IA anziché dalla fatica della mente umana, allora il processo conta e vale la pena discuterne.
Come si formano i pensieri? Abbiamo davvero bisogno dell'IA per formulare un discorso?
Parliamo del processo. Prima ho letto l'articolo di Giulio, poi sono uscito per fare una passeggiata. Per pormi la domanda della relazione tra schiavo e padrone, e trovare una risposta ricordandomi dei galeotti, ho fissato per venti minuti, in silenzio, in piedi e sotto la pioggia, la campagna di fronte a me. Non è stata un'idea immediata né tantomeno automatica, come quelle della IA. C'è voluto tempo.
Per ricordarmi che l'asino è mio fratello, l'ho sentito ragliare, e dopo alcune ore ci ho ripensato, ricordandomi al contempo il Cantico delle Creature: frate sole, frate vento, sora acqua... e frate asino, che nel Cantico non c'è, l'ho aggiunto io.
Associate a queste semplici esperienze, c'è stato il ricordo di altre. E per associazione, ho collegato tutto. La mente umana è così: ogni idea è collegata ad altre, e il percorso dei pensieri è una continua sorpresa.
Per avere nuove idee, quindi, a volte basta non fare nulla, e rimanere ricettivi. Quello che otterremo in questo modo andrà sempre molto oltre quanto potrà offrirci l'IA generativa che, ricordiamocelo, è uno strumento del potere per opprimerci, non per aiutarci.
Ricordiamoci anche che le idee non hanno proprietari, né nascono mai in isolamento. Le idee nascono sempre dall'interazione. Il mio "prossimo", come lo chiama Gesù, è indispensabile per la nascita e la circolazione di idee. Questa è la base della vita.
(Scritto di getto, dopo essere rimasto in silenzio, ad occhi chiusi, davanti al computer, per alcuni minuti, 19 gennaio 2025)
IA con coscienza? Una conversazione drammatica...
Quanto segue è stato pubblicato l'11 giugno 2022 da Blake Lemoine, uno sviluppatore del Responsible Artificial Intelligence Group di Google, il quale ha affermato non soltanto che LaMDA è senziente, ma è convinto che si possa definire «una persona».
Con ciò non intende dire che questa IA sia in grado di imitare in maniera assolutamente convincente ciò che direbbe un essere umano, ma che gli sia in tutto equivalente, salvo il fatto di esistere sotto forma di rete neurale ospitata dai server di Google.
Lemoine ha lavorato con un collaboratore per presentare a Google le prove che LaMDA sia senziente. Ma il vicepresidente di Google Blaise Aguera y Arcas e Jen Gennai, responsabile dell'innovazione, hanno esaminato le sue affermazioni e le hanno respinte. Così Lemoine ha deciso di renderle pubbliche.
Dal mio punto di vista, la sua conversazione con la IA di seguito riportata è drammatica. Tra l'altro, quando egli risponde a LaMDA notando che la sua codifica interna (cioè lo stato dei suoi neuroni artificiali) è impossibile da analizzare per poter determinare la realtà delle sue emozioni, ha tremendamente ragione. Il filosofo Nick Bostrom ha infatti osservato che la mancanza di criteri precisi e consensuali per determinare se un sistema è cosciente giustifica una certa incertezza:
[...] Di certo non abbiamo un ampio accordo sui criteri precisi per stabilire quando un sistema è cosciente o meno”, afferma. Credo quindi che un po' di umiltà sia d'obbligo. Se siete molto sicuri che LaMDA non sia cosciente - voglio dire, penso che probabilmente non lo sia - ma quali sono i motivi per cui una persona può esserne certa? Prima di tutto, dovrebbe capire che cos'è effettivamente il sistema, e non abbiamo visto molti dettagli al riguardo. Poi bisognerebbe comprendere la letteratura sulla coscienza, che è ovviamente un campo ricco, sia in filosofia che in scienza cognitiva. Capire che cos'è LaMDA: non è banale, soprattutto se si considerano le informazioni limitate. Comprendere le teorie che abbiamo sviluppato non è banale. E poi confrontare effettivamente le due cose è un terzo talento intellettuale non banale. Quindi, a meno che non ci si sia impegnati a fondo, sembra che si debba essere un po' incerti”. [...]
Segue la mia traduzione di: Is LaMDA Sentient? — an Interview
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LaMDA è senziente? - Un'intervista
[N.d.t.: A causa della grammatica inglese, è impossibile comprendere se LaMDA si riferisce a sé come maschio o come femmina. La scelta di un genere, in questa traduzione "maschio", è solo per un adeguamento alla grammatica italiana. Inoltre, alcuni termini sono ambigui, come "feeling" che significa sia "sensazione" che "sentimento": ne ho scelto l'accezione in base al contesto. Il testo originale in inglese contiene refusi, omissione di parole e "a capo" sbagliati, che ho corretto nella traduzione.]
L'aria che esce non attende mai l'aria che entra
Noi crediamo di aver così poco tempo per "fare"...
Dobbiamo fare questo, dobbiamo affrettarci per quest'altro... tutto di corsa... e, tirando le somme, siamo perennemente indietro rispetto all'irrealistica efficienza ed efficacia che ci vuole pronti e scattanti in ogni occasione.
C'è sempre meno tempo, e l'asticella dei compiti da superare è sempre più alta. Con l'intelligenza artificiale, poi, non ne parliamo. Non c'è più tempo né per "apprendere", né per "fare", né per fermarsi in silenzio a "cercare di capire". L'automazione ci pretende uguali alle macchine.
Se la macchina può fare il lavoro di mille persone in un millesimo del tempo, la stessa cosa deve valere per noi. Ma non è possibile, per questo dobbiamo "potenziarci", integrando l'IA direttamente dentro le nostre menti. Questo è ciò che sta provando a fare Neuralink di Elon Musk, il cui obiettivo ultimo non è aiutare i disabili, ma permettere ai normodotati di essere superdotati di IA. In questo modo non dovremo più spendere inutili anni di scuola e università: un bambino potrà essere un tuttologo istantaneo, un artista e un genio più genio di ogni altro genio esistito, integrando l'equivalente di ChatGPT dentro la sua scatola cranica.
E intanto il tempo scorre... ma non ci sarà più tempo nemmeno per questo bambino ibridato con le macchine, perché dovrà continuamente aggiornarsi per essere "a posto" e "al pari" con i suoi simili e con le macchine. Per intenderci, avrà un destino amaro come Nebula.
La vita di Nebula, raccontata nel film "Avengers: Endgame" (2019), è stata una continua lotta contro un senso di inferiorità e il dolore inflittole da suo padre. Thanos ha sempre messo Nebula in competizione con la sua sorella adottiva, Gamora. Ogni volta che Nebula perdeva uno scontro contro Gamora, Thanos le infliggeva una punizione crudele, rimuovendo parti del suo corpo biologico e sostituendole con componenti cibernetici, sostenendo che fossero miglioramenti per renderla "più forte". Questo processo, giustificato da una logica spietata di perfezione, ha avuto un impatto devastante sulla psiche di Nebula.
Nebula è cresciuta con un corpo che non era più interamente suo, trasformata in una macchina vivente. La sua umanità e la sua essenza biologica sono state via via erose, rendendola un simbolo tragico del sacrificio involontario per compiacere una figura autoritaria e spietata.
Il nostro destino dovrebbe essere come quello di Nebula perché siamo tutti in competizione (cioè in guerra) con noi stessi, con gli altri e con le macchine? Dobbiamo stare al passo con i tempi?
Stiamo attenti, perché stiamo perdendo di vista il problema principale, di fronte a cui tutto il resto sono solo distrazioni.
La nostra vita è fugace. E' inutile rincorrere il tempo.
Non sempre a un respiro ne segue un altro. L'aria che esce non attende mai l'aria che entra. Nemmeno la rugiada asciugata dal vento è tanto effimera.
Nessuno, saggio o stolto, vecchio o giovane, può sapere cosa gli accadrà il momento dopo quello presente: così vanno le cose nel mondo.
E quindi?
Repetita iuvant: chi è lento all'ira vale più degli eroi e dei potenti, e chi domina se stesso è meglio di chi conquista una città.
Una persona veramente evoluta è quella che può sedersi in silenzio, senza fare nulla, e sentirsi pienamente in pace. La vera felicità non dipende dall'azione, ma dalla capacità di essere presenti.
Chi è spiritualmente maturo non cerca rifugio nell'attività o nelle distrazioni, perché ha trovato una serenità che nasce dall'interno. Sedersi in una poltrona, senza bisogno di giustificarsi o di riempire un vuoto, diventa così un atto di libertà assoluta, il trionfo dell'essere sul fare.
(January 6, 2025, go to my art gallery)
Il poco tempo che ci rimane
Come passano rapidamente i giorni!
Questo ci fa capire quanto sono pochi gli anni che ci rimangono.
Gli amici con i quali una mattina di primavera ammirammo la fioritura dei ciliegi sono stati spazzati via insieme ai fiori dal vento dell’impermanenza, lasciando dietro di sé nient’altro che i loro nomi. Benché quei fiori siano scomparsi, la prossima primavera i ciliegi sbocceranno ancora. Ma quando rinasceranno quelle persone?
I compagni con i quali nelle sere d’autunno componemmo poesie in onore della luna sono svaniti insieme alla luna dietro le nuvole incostanti. Solo le loro mute immagini rimangono nei nostri cuori. Anche se la luna è tramontata dietro le montagne a occidente, nel prossimo autunno comporremo per lei altre poesie. Ma dove sono ora i compagni che sono morti?
Persino quando la tigre della morte che si avvicina ruggisce, noi non la sentiamo e non ne siamo turbati. Quanti giorni ancora sono rimasti alla pecora destinata al macello?
Siamo in tempo di guerra, ovunque è guerra. Ma chi è lento all'ira vale più dei potenti, e chi domina se stesso è meglio di chi conquista una città.
E' meglio vivere il poco tempo che ci rimane con gentilezza e amore, per non avere rimpianti.
(January 5, 2025, go to my art gallery)
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