In quest'epoca di grandi incertezze e conflitti, i mass media sono dediti a dare visibilità quasi esclusivamente agli aspetti peggiori dell'essere umano, solitamente distorcendo la realtà e coltivando negli individui senso di disperazione, di impotenza, di rabbia e di odio. Ma la visione del mondo proposta da TV e giornali non è l'unica, per fortuna: molte persone, spesso dietro le quinte, senza ricevere né lodi né visibilità, sono dedite alla giustizia, alla verità, al diffondere pace, con un impegno vero in grandi battaglie non-violente. Per tale ragione, pubblico volentieri l'intervista seguente a Martina Pignatti Morano, presidente dell'associazione pacifista "Un ponte per..." (www.unponteper.it).
Fonte originale: Buddismo e Società n.175 - marzo aprile 2016 (link all'articolo originale)
Autorizzazione alla ripubblicazione nel presente blog concessa dall'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai
Intervista a Martina Pignatti Morano
Pianeta Terra. Nessun essere umano è illegale
di Monica Piccini
Piazza Vittorio, Roma. Sulle scale in ardesia nera (come solo i tetti di Parigi!) con l'odore di curry nell'androne di un decaduto palazzo sotto i portici, Roma sembra il centro del mondo. Capace di attrarre un'energica ragazza di 36 anni che partita dal Friuli, dov'è nata, passando da Pisa (dove ha frequentato l'università Sant'Anna e tuttora vive con due figli e un marito), Siena e Oxford (per il dottorato) e una serie di città mediorientali, dal 2006 presiede l'associazione pacifista "Un ponte per..." che ha sede appunto nella Capitale. Un'organizzazione presente in Iraq da 25 anni che, oltre ai progetti tipici delle ONG, si distingue per il sostegno agli attivisti locali. Che significa, per esempio, pagare avvocati e cauzioni di chi finisce in carcere, studiare insieme proposte e disegni di legge. Ma anche solo, semplicemente, esserci. Non lasciare sole le popolazioni colpite dalle guerre. Perché un altro mondo è possibile solo rafforzando i legami di fiducia tra i popoli.
Sei entrata in "Un ponte per..." nel 2006. E prima?
Come studentessa di dottorato in Economia Politica facevo ricerca sull'economia partecipativa in India. Nello stesso periodo co-dirigevo la rivista di studi sul metodo nonviolento Quaderni Satyagraha. In quegli anni ho rinunciato alla carriera accademica per fare la cooperante e lavorare sui progetti di pace e solidarietà internazionale. Nel 2005, insieme con l'ex presidente di "Un ponte per..." Fabio Alberti, abbiamo organizzato un programma di formazione sulla nonviolenza attiva per attivisti iracheni di etnie diverse che, per la prima volta, si ritrovavano insieme ad Amman in Giordania, cioè fuori dal loro paese in guerra (la seconda guerra del Golfo era iniziata nel 2003), cercando innanzitutto di fidarsi l'uno dell'altro.
Secondo lo psicologo evoluzionista Steven Pinker, autore de Il declino della violenza, stiamo vivendo probabilmente l'epoca più pacifica della storia. L'essere umano ha perfezionato le regole della convivenza pacifica?
Personalmente non sono molto ottimista sulla capacità, oggi, dell'umanità di gestire i conflitti con modalità nonviolente. Credo anzi che le popolazioni continuino a essere vittime dei governi, delle lobby dell'industria bellica e comunque dell'incapacità di visione della classe politica, che non sa immaginare un futuro di pace né mettere in piedi un sistema di diplomazia internazionale all'altezza dei propri compiti. Inoltre, le istituzioni nutrono scarsa fiducia verso la società civile nel costruire la pace. Da molto tempo "Un ponte per..." sta cercando invece di sostenere organizzazioni che mirano a mettere in piedi "eserciti di pace", che Gandhi chiamava Shanti Sena, operatori che lavorano in zone di conflitto con modalità nonviolente. Noi lo facciamo con interventi umanitari, campagne per i diritti umani e azioni di peacebuilding per la riconciliazione e la coesistenza.
Qual è stata la lungimiranza di Gandhi?
Avere la certezza che semplicemente affermando la verità e la giustizia con modalità nonviolente si può trasformare la situazione politica e la vita di milioni di persone. Anche con gesti simbolici di pochi "persuasi" dalla nonviolenza che possono trascinare processi molto potenti. Tante trasformazioni politiche, tanti momenti di svolta, dipendono da singole persone decise a cambiare punti di vista, atteggiamenti e quindi interessi.
E raramente queste persone sono i governanti...
Alcune volte sono anche i politici. Credo nella necessità di spingere parlamentari e membri del governo a modificare i loro atteggiamenti. Sicuramente devono rispondere a logiche di pressione dei propri elettori e finanziatori molto più potenti delle nostre; però è anche vero che, come esseri umani, possono decidere di agire per fini di giustizia. Inoltre, spesso non hanno accesso a un'informazione imparziale e sul campo. Penso quindi che sia responsabilità dei gruppi della società civile continuare ad avere fiducia nel dialogo con le istituzioni.
Suona molto simile a quanto, nella Proposta di pace 2009, scrive Daisaku Ikeda: «Solo dal dialogo, che non segue mai schemi prestabiliti e va oltre le definizioni arbitrarie e superficiali, può nascere il nuovo». E aggiunge: «Il filosofo Gabriel Marcel utilizza il termine "spirito di astrazione". Secondo il suo pensiero si può fare la guerra solo se prima si nega il carattere umano dell'avversario e lo si riduce a un concetto astratto, come il fascista, il comunista, il sionista, il fondamentalista islamico...». Sei d'accordo?
Assolutamente sì, la prima immagine che mi viene in mente è il soldato che controlla un drone o un'arma micidiale a distanza. Chi li pilota viene indotto a pensare di star giocando a un videogioco. E anche se sa benissimo che dall'altra parte ci sono esseri umani in carne e ossa, per proteggere la sua incolumità psicologica tenta di astrarsi dal contesto. Questo è uno dei rischi delle nuove guerre, uno dei motivi per cui - dicevo - non sono così ottimista. Pensavo anche a un'altra astrazione, quella del fondamentalista che vede il diverso come una persona che non ha diritto di vivere. Non parlo solo del fondamentalista islamico ma anche del razzista xenofobo, una tipologia di persona che si sta diffondendo anche da noi in Italia. Mi fanno paura entrambe.
A proposito di razzismo xenofobo, su La Stampa ho letto che ci sono persone che organizzano "banglatour", azioni punitive nei confronti di negozianti del Bangladesh. «L'incitamento all'odio - scrive ancora Ikeda (BS, 170) - sta diventando un serio problema sociale in molte nazioni. [...] Nessuno giudicherebbe accettabile la violenza o l'oppressione sulla base di un pregiudizio verso qualche persona o la sua famiglia. Ma quando sono dirette verso altre etnie o popolazioni, non è insolito che le persone le considerino giustificate in base a qualche difetto o mancanza da parte delle vittime».
È anche conseguenza di processi storici, non solo di attitudini individuali. In Iraq per esempio lavoriamo contro quello che si chiama hate speech, il linguaggio dell'odio. Organizziamo conferenze e festival sulle minoranze per superare i pregiudizi tra le persone, ma anche per convincere i media a stare più attenti al linguaggio. In Iraq l'odio o il desiderio di vendetta che esiste tra comunità sciita e sunnita è stato costruito dal 2003 in poi, da errori dell'occupazione americana e dai successivi governi locali. Secondo gli americani infatti fomentare questa divisione doveva servire a gestire meglio il potere assegnandone una quota a ogni fazione e invece ha causato il disastro. Dopo la seconda guerra del Golfo il potere è stato messo in mano a partiti sciiti islamisti che hanno negato ogni diritto alla minoranza sunnita, che era quella che faceva capo prima a Saddam. Quest'ultima, assistendo a tutta una serie d'ingiustizie come l'uso della pena di morte da parte del governo per motivi politici, un po' alla volta si è rivolta alle milizie fondamentaliste come DAESH. Che è il nome con cui preferiamo chiamare lo stato islamico, al posto del più conosciuto ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) per non innescare l'islamofobia. Perché quando la gente sente dire "stato islamico" pensa all'Islam. Invece DAESH (adattamento di DAIISH, acronimo dell'arabo Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wal Sham) è il termine usato nel mondo arabo, in realtà in senso dispregiativo (i miliziani di DAESH usano il termine arabo al-Dawla, ossia "lo stato", ndr). Parole arabe come Al Qaeda o Boko Haram non sono mai state tradotte. Perche DAESH invece sì? Titoli di giornale tipo "Le guerre islamiche" fanno pensare che tutti gli islamici siano lì pronti ad attaccarci. È terribile.
Presenti in Iraq da un quarto di secolo, potevate prevedere l'avvento del Califfato?
Quando nel febbraio di 25 anni fa è nata la nostra campagna di solidarietà per la popolazione irachena "Un ponte per... Bagdad" l'Iraq era uno stato laico. Le ragazze all'università andavano tutte senza velo e con le gonne al ginocchio. Adesso sono quasi tutte coperte fino ai piedi. Il processo d'islamizzazione è stato molto rapido dal 2003 in poi. Lo immaginavano solo gli analisti della CIA che dal tempo dei talebani avevano deciso di appoggiare gruppi fondamentalisti jihadisti per combattere i loro avversari sul campo. Con l'amministrazione Obama non c'è stato un cambiamento significativo e i bombardamenti aerei continuano a seminare odio, perché dovunque si colpisca dall'alto si fanno vittime civili senza riuscire a sconfiggere la forza militare presente sul territorio (14 anni di Afghanistan lo dimostrano!).
Che tu sappia, il governo americano si rivolge mai a consulenti di pace o non ne tengono minimamente conto?
Di solito tengono conto dei centri di alti studi della difesa che però offrono il punto di vista di chi ha sempre studiato strategia militare.
Ci sono pochissimi paesi che si avvalgono di ricercatori che studiano la trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici.
Mi viene in mente il sociologo norvegese Johan Galtung, fondatore dell'International Peace Research Institute, che con Daisaku Ikeda ha scritto il libro Scegliere la pace...
Lo conosco. Spesso sono gli enti locali che trovandosi a gestire i conflitti tra comunità ascoltano persone come Galtung. Ad esempio in Iraq ora stiamo collaborando con il Consiglio del governatorato di Ninive, la prima area occupata dai miliziani di DAESH. Con loro, esperti di peacebuilding stanno immaginando come superarele vendette tra le comunità per far rientrare gli sfollati, perché chi rientra accusa le comunità sunnite locali di aver appoggiato DAESH. A livello istituzionale, paesi come la Norvegia e la Svezia finanziano studi sulla pace, utilizzando poi i ricercatori per formare il proprio corpo diplomatico. È ciò che abbiamo chiesto alle istituzioni italiane con una proposta di legge per la quale abbiamo già consegnato alla Camera più di 50 mila firme. La proposta prevede l'istituzione di un Dipartimento di difesa civile non armata e nonviolenta e di un Istituto nazionale di ricerche sulla pace e sul disarmo e corpi civili di pace.
Composti da chi?
Da professionisti volontari che si recano nelle zone di conflitto a sostegno degli attori locali che sanno come trasformare i loro conflitti. Quindi portando non soluzioni bensì idee creative, esempi di buone pratiche da altri paesi, protezione e visibilità. La nostra mission principale è infatti rafforzare le associazioni locali.
Qualche esempio pratico?
Ne faccio tre. Nella provincia di Ninive, in Iraq, abbiamo appena terminato una formazione alle attiviste, giornaliste e funzionarie pubbliche sul ruolo delle donne nella gestione della pace e della sicurezza. Spesso in materia di sicurezza non si chiede il loro parere. Mentre nell'iconografia dei media le donne di Mosul sono le schiave di DAESH, che è una realtà tristissima, nessuno è andato a chiedere alle altre donne della provincia: come sconfiggiamo DAESH? Dopo un training iniziale su come le donne in Irlanda o in Ruanda abbiano svolto un ruolo chiave per la trasformazione dei loro conflitti, stiamo finanziando dei miniprogetti di coesistenza pacifica, come un centro giovanile gestito da ragazzi e ragazze in uno dei distretti appena liberato da DAESH. Il secondo esempio è in Palestina dove inviamo corpi civili di pace a sostegno dei comitati di resistenza popolare nonviolenta palestinesi contro la presenza del muro dell'apartheid che Israele ha costruito per l'85 per cento dentro il territorio palestinese. Spesso quando i contadini vanno a raccogliere le olive nei propri campi a ridosso del muro vengono minacciati e picchiati dai coloni israeliani degli insediamenti vicini. La presenza di volontari internazionali quindi fa sì che diminuisca drasticamente il livello di violenza. Un altro gruppo di volontari, poi - terzo esempio - all'inizio di gennaio è andato nell'isola di Lesbo, in Grecia, a fare accoglienza ai migranti che arrivano sui gommoni.
«Con il progredire della globalizzazione - scrive Ikeda nella proposta di pace 2015 - un numero sempre maggiore di persone si sposta oltre frontiera e molti sono stati costretti a riconoscere quel tipo di sguardo discriminatorio che avevano gettato inconsapevolmente su altri gruppi quando vivevano nel loro paese di origine. Questo rende ancora più importante che le persone si allenino a comprendere gli altri e a vedere le cose attraverso i loro occhi». Che cosa dire a chi ritiene le migrazioni in atto una pericolosa minaccia?
Io credo che solo chi ha vissuto vicino a persone che provengono da culture differenti può sentire il fascino di stare, per esempio, su un autobus con gente di tutto il mondo. E invece c'è chi si sente minacciato. È un peccato, frutto dell'ignoranza e della povertà. È responsabilità dei nostri governanti che non dedicano abbastanza risorse al benessere della popolazione. Se la gente fosse un po' meno affogata dalle difficoltà probabilmente avrebbe anche più voglia di guardarsi intorno e capire che i migranti sono compagni di un destino comune che si può cambiare insieme.
Martina Pignatti Morano
«Noi ci riteniamo prima di tutto un'associazione di volontariato - spiega la presidente di "Un Ponte per..." - che poi ha deciso di registrarsi anche come ONG e di pagare dei cooperanti per gestire in maniera professionale i progetti di cui ci occupiamo». L'associazione, che attualmente conta quattrocento collaboratori (la maggior parte dei quali siriani, giordani, iracheni), considera imprescindibili gli interventi di solidarietà a favore delle popolazioni colpite dalle guerre, l'impegno politico per incidere sulle cause scatenanti dei conflitti e la costruzione di legami tra società civili.
Martina Pignatti Morano è anche è referente nazionale del Tavolo Interventi Civili di Pace ed è attiva in Rete Italiana Disarmo, con cui organizza campagne per potenziare il peacebuilding civile e sostenere politiche di disarmo. A livello internazionale gestisce la segreteria dell'Iraqi Civil Society Solidarity Initiative e partecipa al processo del Forum Sociale Mondiale. Fa parte del Board of Advisors di NOVACT (International Institute for Nonviolent Action) e partecipa ai lavori dello European Peacebuilding Liaison Office.