Le persone di solito si sentono libere di esprimersi sui social network, considerandoli uno spazio comune. Il problema è che, dal punto di vista sia giuridico sia sostanziale, questi grandi mezzi di comunicazioni sono tutto fuorché pubblici, liberi e men che mai democratici: eludono le nostre leggi e ogni spazio di libertà e di rispetto dei diritti umani. Per l’appunto, è notizia di questi giorni che Facebook istituirà una sorta di Corte Suprema interna per decidere in maniera inappellabile (senza processi, senza tribunali, senza avvocati difensori) sulle questioni relative alla libertà di espressione. Stesso discorso per tutti gli altri attori del potere mondiale tecnocratico, ad es. Google, che può decidere in maniera unilaterale e senza bisogno di giustificarsi cosa può stare sulle sue piattaforme e cosa no.
In questi ultimi giorni Facebook ha chiuso (sul suo omonimo social e su Instagram) le pagine di Casapound e dei relativi associati, di Forza Nuova e dei relativi associati, di Diego Fusaro e del suo nuovo partito Vox Italia, e di un museo curato da Vittorio Sgarbi. Da notare che le motivazioni addotte sono irrilevanti (e nei casi specifici pure sbagliate): il problema di fondo è che i social, come nei casi citati, si stanno sostituendo allo stato di diritto e alla nostra Costituzione, il cui art. 21 comanda: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». L'articolo costituzionale, dove fa riferimento a divieti e sequestri, si riferisce sempre all'autorità giudiziaria e alle leggi dello Stato: i social, invece, si comportano impunemente come se essi stessi fossero l'autorità giudiziaria, la polizia, e lo stato.
Il fascismo, con Mussolini, si era impadronito dello stato italiano, governando con una dittatura che non lasciava nessuna possibilità di opposizione. Facebook, una multinazionale privata che possiede non solo l’omonimo social, ma anche Instagram e Whatsapp, invece si è impadronita dell'anima di miliardi di persone, governando con la seduzione della tecnologia che non lascia alcuna possibilità di opposizione (seduzione che fa innanzitutto leva sul narcisismo e, in generale, sulle forze distruttive dell'ego umano). E quel che è peggio è che oggi le persone sarebbero disposte a morire pur di difendere l’esistenza e l’uso delle tecnologie a cui sono abituate, mentre è assai più difficile che muovano un dito per difendere i propri diritti umani e la nostra Costituzione Italiana.
In tutte le pagine del mio blog compare il pulsante "You won't find me on Facebook", che rimanda all'articolo "Riflessioni su Facebook", in cui, tra le altre cose, ho scritto che «[...] I social network sono molte cose e sovente spingono le persone a chiudersi in un mondo sempre più ristretto, gestito da algoritmi su cui non hanno alcun controllo. I social network sono un esempio di psicologia applicata alle masse, una dimostrazione di come sia possibile ingannare milioni di persone, facendole sentire libere dopo aver messo loro guinzaglio e paraocchi. Sono una sorta di droga, tossica come la cocaina e l'eroina e con danni ad esse equiparabili. I più danneggiati sono i giovani, che sono la speranza e il futuro di questo mondo. [...] Nel frattempo, l'intento di Facebook per allargare il proprio dominio, il proprio controllo e il proprio business è chiaro: rendere il web sempre più simile a Facebook, perché tutta la connettività delle persone "deve" (?!) iniziare con Facebook e finire con Facebook. I numeri dimostrano che in effetti questo è ciò che la massa degli internauti desidera [...] Molti si sentirebbero persi senza Facebook, come se un proprio pezzo di vita venisse meno. [...]».
Cinque anni fa scrissi l'articolo "Facebook NON è democrazia: l'auto-censura e la censura vera e propria", a cui rimando perché nel momento in cui scrivo (settembre 2019) è ancora attuale e, in prospettiva futura, continuerà ad esserlo (con l'aggravante che gli spazi per esprimersi liberamente si stanno riducendo sempre di più).
Ma andiamo ancora più indietro nel tempo. Torniamo a quello che Guido Scorza scrisse ben nove anni fa, nel settembre 2010, in un articolo dal titolo "Facebook e l'illusione della libertà": «Il gigante di Zuckerberg nelle condizioni generali relative all’utilizzo delle sue pagine , al punto 1, racconta che le pagine sono uno strumento per promuovere organizzazioni e campagne anche politiche ma, poi, al punto 4, aggiunge “Quando l’utente pubblica contenuti o informazioni su una Pagina, noi non siamo obbligati a distribuire tali contenuti o informazioni agli altri utenti”.
“Noi non siamo obbligati”. Non c’è criterio, non c’è regola, non c’è un elenco di divieti, non c’è nulla di nulla che limiti la discrezionalità del “padrone di casa” – e non già, semplicemente, del portiere della piazza virtuale – di decidere quali organizzazioni – anche politiche – hanno diritto di cittadinanza e parola nella comunità globale che amministra e quali campagne, poco importa se ideologiche, sociali o politiche, possano esservi combattute e quali no, né sino a quando ciò sia possibile».
Ad ogni modo, sembra che la lezione non sia mai stata imparata: chi usa Facebook (e gli altri social) ne accetta le condizioni, per poi lamentarsene solo nel caso in cui scopra di esserne coinvolto direttamente, ad es. con la chiusura del proprio account o con la cosiddetta "censura morbida", che sostanzialmente significa che il proprio account rimane attivo ma gli altri utilizzatori di Facebook non vedranno i propri post (un esempio di censura morbida è raccontato nel video riportato in calce, oltre ad altri casi di censura vera e propria).
Nel titolo dell'articolo ho citato i social più noti e popolari almeno in occidente (Facebook, Twitter, Instagram, Youtube), per sottolineare che il problema è lo stesso per tutti quanti. A ciò va aggiunto che, nel corso degli anni, ogni tanto compaiono notizie di chi ha perso il proprio lavoro (dai commessi nei negozi fino ai docenti universitari) per aver scritto qualcosa su qualcuno di questi social (in Italia). Nel resto del mondo, invece, un commento online può costare anche il carcere, la tortura o altre barbarie (frustrate, decapitazioni, ergastoli, ecc., anche a persone giovanissime). Il video riportato in calce racconta anche il caso di un docente italiano che ha perso il lavoro per un tweet.
Come aveva scritto Fabio Chiusi, quasi quattro anni fa, nell'articolo "Censura, sorveglianza, violazione dei diritti: web sempre meno libero, anche nei paesi democratici": «[...] La nuova (ma non nuovissima, a dire il vero) tendenza individuata da Freedom House come caratteristica degli ultimi dodici mesi si applica anche ai paesi democratici: quando non censurano direttamente, è sufficiente per i governi obbligare i soggetti privati che mediano le nostre comunicazioni - i fornitori di servizi e contenuti - a farlo al posto loro. [...]».
Oggi ci sono molti movimenti rivoluzionari. Secondo la mia opinione, la prima azione rivoluzionaria sarebbe quella di esistere al di fuori dei social, perché se è vero che ciò che conta è il messaggio, altrettanto importante è il mezzo usato per portare tale messaggio.
I social intrappolano le persone in una gabbia per matti, controllati dall'arroganza di algoritmi che sono così "intelligenti" da passare come un carro armato sulla testa delle persone. Questo è solo l'antipasto di una società che delega la propria intelligenza alle macchine, senza nemmeno essere sfiorata dal dubbio che l'intelligenza artificiale non avrà mai una sua "umanità", ma è solo il risultato di un calcolo che fa un algoritmo senz'anima. A proposito, qualcuno ricorda la mia poesia "Profezia"? Si trova anche all'interno della Religione dell'Ultima Lotta.
Eppure la soluzione esiste: uscire dai social, perché oltre ad essere inutili e dannosi per il benessere individuale e sociale, calpestano sistematicamente i nostri diritti umani. I social, infatti, favoriscono il deterioramento della qualità della vita e dei rapporti umani, in primis perché il nutrimento affettivo di cui l’essere umano ha un innegabile e a volte disperato bisogno non può in alcun modo essere mediato dalla tecnologia (cfr. "La tecnologia “ruba” energia, tempo, possibilità alle relazioni umane", par. 3.4 della mia tesi di laurea "Solitudine e Contesti Virtuali").
Prima o poi ci renderemo conto, come specie vivente, che i social non sono la nostra casa comune? Casomai lo è il pianeta Terra, quello fisico intendo, non quello in stile Second Life. Qualcuno si ricorda il "Decalogo Slow-Internet" di Giulio Ripa? Magari è il momento di rileggerlo. A proposito, questo è il link al suo archivio.
Il video seguente, di Claudio Messora, è tratto dal servizio di ByoBlu "L'era della grande censura virtuale":
Quest'altro video, che completa sia questo mio articolo sia il precedente video, con un quadro storico dell'evoluzione di Internet dal punto di vista del potere politico, finanziario e militare è anch'esso tratto da ByoBlu, dal servizio "CONTROLLATI SOCIALI: dentro alla "Global Communication". Glauco Benigni":
Francesco Galgani,
26 settembre 2019