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Filosofia

Non è una questione di tecnologia, ma di pensiero

Dal grande chiacchiericcio tra chi osanna l'intelligenza artificiale e chi la disprezza come una delle massime abilità umane di auto-perculamento, mi allontano, in silenzio.

Serve altro.

Non è un problema di tecnologia, perché su quella non possiamo più fare nulla. Sì, certo, c'è il "software libero", ma... ormai qualsiasi flusso di dati, privato o pubblico, decente o indecente, sensato o incomprensibile, finisce nell'incurabile e insaziabile ingordigia delle intelligenze artificiali, che imparano da noi e su di noi per ogni stronzata che diciamo o scriviamo.

Da questo non c'è più scampo, così come non c'è altra possibilità per chi sta in basso dall'essere violentato e umiliato da chi sta in alto. La politica non è questione di destra o sinistra, ma di alto e basso, di caporali sopra e poveri disgraziati sotto. I caporali possono spegnere le nostre vite quando e come vogliono, e non mi riferisco solo al fu "green pass", che tra le tante aberrazioni neonaziste è la meno grave. Guardiamoci attorno... oggi ho visto alcuni filmati da Gaza. Chi non li sta vedendo se li cerchi. Da tutto questo non c'è tecnologia che possa salvarci.

L'unica alternativa, ammesso che un'alternativa possa esistere, sta nel "retto pensiero", che a sua volta è parte dell'ottuplice sentiero. Sulla Treccani, alla voce Buddismo, leggiamo: «[...] l’errata concezione di un’individualità distinta e costante nel tempo e l’attaccamento a questa è la principale causa di duḥkha [...]». Duḥkha vuol dire sofferenza, nel senso di insoddisfazione presente in ogni istante delle nostre vite. Tutto qua, sentirci individui separati è la causa principale delle nostre sofferenze, questo è il riassunto di due millenni e mezzo di buddismo. La soluzione parte dal "retto pensiero".

E qual è questo "retto pensiero"? Quando siamo titubanti sul da farsi, ricordiamoci di «aiutare l'altro, chiunque sia, anche sconosciuto», perché è un povero cristo come me, come te, come tutti gli altri, costretto a infinite umiliazioni, ingiustizie, violenze. Certo, il Vangelo di Matteo ha usato parole più raffinate e forse imbarazzanti nella loro grandiosità: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Ama il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti». Detto così fa paura?

Basterebbe anche molto meno. Quando facciamo un gesto o una scelta che a noi toglie poco o nulla, o che comunque è facilmente sopportabile, ma che può essere di grande aiuto per qualcun altro... beh, abbiamo vinto sulla natura demoniaca del potere. Quando invece ci sentiamo in competizione con tutti, cioè in guerra, nel senso che non ce ne frega più nulla di aiutare qualcun altro, se non per nostro tornaconto economico o di altro genere, allora abbiamo perso, perché stiamo lavorando per quel potere che ci vuole proprio così, divisi e infelici.

Per chi volesse approfondire il "retto pensiero" nel senso inteso dal buddismo, esso si riferisce a sviluppare una mente libera da avidità e desiderio ossessivo, a coltivare pensieri di gentilezza amorevole (mettā) e compassione verso tutti gli esseri senzienti, senza malanimo né odio, e all'intenzione di non fare del male, di non danneggiare gli altri, né con le parole né con le azioni.

Non è difficile, anzi, è una sana medicina per tutti noi.

(7 dicembre 2024)

Il significato essenziale di tutti gli insegnamenti di Budda?

Nella tradizione buddista tibetana, i "Tre Aspetti Principali del Sentiero", recentemente discussi dal Dalai Lama nel video tradotto in italiano del 30 settembre 2024, rappresentano le fondamenta essenziali per il percorso verso l'illuminazione. Esposti dal venerato maestro Je Tsongkhapa (1357-1419), questi tre aspetti sono:

  • Rinuncia
  • Bodhicitta
  • Saggezza che realizza la vacuità

1. Rinuncia

La rinuncia è un invito a guardare oltre le apparenze superficiali della vita, a sondare le profondità della nostra esistenza con sincerità e coraggio. Non si tratta di abbandonare le gioie o le responsabilità del mondo, ma di sviluppare una consapevolezza profonda della natura insoddisfacente e transitoria dell'esistenza ciclica, conosciuta come samsara.

Riflettendo sulla natura della sofferenza, possiamo contemplare le quattro nobili verità insegnate dal Budda: la verità della sofferenza, l'origine della sofferenza, la cessazione della sofferenza e il sentiero che conduce alla sua cessazione. Osserviamo come le esperienze piacevoli siano fugaci e come l'attaccamento a esse generi ansia e delusione. Comprendiamo che ogni aspetto della nostra vita è soggetto all'impermanenza: le relazioni cambiano, il corpo invecchia, le circostanze mutano.

Questa consapevolezza non deve portarci al pessimismo, ma piuttosto a un desiderio genuino di liberazione. Riconosciamo che la ricerca incessante di soddisfazioni temporanee non può appagare il desiderio innato di una felicità duratura. La rinuncia diventa quindi una scelta di liberarsi dalle illusioni e dalle abitudini mentali che ci tengono imprigionati nel ciclo della sofferenza.

2. Bodhicitta

Bodhicitta, la "mente dell'illuminazione", è il cuore pulsante del sentiero Mahayana. È l'intenzione altruistica di raggiungere l'illuminazione non solo per il proprio beneficio, ma per liberare tutti gli esseri dalla sofferenza. Questa aspirazione nasce dalla compassione e dall'amore universale, riconoscendo l'interconnessione profonda che condividiamo con ogni forma di vita.

Meditando sulla compassione, apriamo il nostro cuore alle esperienze degli altri. Immaginiamo le sofferenze che molti affrontano: la paura, la solitudine, il dolore. Comprendiamo che, proprio come noi desideriamo essere felici e liberi dalla sofferenza, così fanno tutti gli esseri senzienti. Questo riconoscimento alimenta un desiderio sincero di aiutare e servire.

Attraverso pratiche tipicamente tibetane come lo "scambio del sé con gli altri" (tonglen), sviluppiamo l'empatia e la capacità di vedere il mondo dalla prospettiva altrui. Ci esercitiamo a mettere gli interessi degli altri al pari dei nostri, se non al di sopra. Questo non significa trascurare noi stessi, ma espandere il nostro senso di identità per includere tutti gli esseri.

La pratica dello "scambio del sé con gli altri" (tonglen) non l'ho trovata in testi italiani, per approfondire posso segnalare:

Per concludere questa parte, vorrei segnalare una questione linguistica e culturale. La presenza o assenza del termine "bodhicitta" nelle varie scuole buddiste dipende dalle loro origini storiche, testi sacri di riferimento e pratiche enfatizzate. Nel buddismo tibetano, la bodhicitta è centrale per il percorso del bodhisattva. In altre tradizioni, come la Soka Gakkai (focalizzata sul Sutra del Loto e la recitazione di "Nam-myoho-renge-kyo"), il Buddismo Zen (centrato sulla meditazione zazen), il Buddismo della Terra Pura (devozione ad Amida Budda) e altre scuole, pur condividendo l'obiettivo dell'illuminazione e della compassione verso gli altri, si utilizzano terminologie e pratiche differenti per esprimere questi ideali.

3. Saggezza che realizza la vacuità

Nota: La vacuità (in sanscrito śūnyatā), come elaborata da Nāgārjuna nella sua opera fondamentale, il Mūlamadhyamakakārikā ("Versi fondamentali sulla Via di Mezzo"), rappresenta uno dei concetti centrali del buddismo Mahayana, di cui il buddismo tibetano è un importante erede. Questo concetto è poco compreso e talvolta frainteso nel mondo occidentale, in parte anche a causa della complessità della filosofia buddista e della difficoltà di tradurre i suoi principi in termini occidentali. Suggerisco di rileggere gli appunti sulla vacuità di Giulio Ripa.

La saggezza che realizza la vacuità è la comprensione profonda della natura ultima della realtà. La vacuità non implica che nulla esiste, ma che i fenomeni non possiedono un'esistenza intrinseca, indipendente e permanente. Tutto ciò che esiste è interdipendente, sorgendo in relazione a cause, condizioni e concetti mentali.

Attraverso la meditazione analitica, esploriamo la natura dei fenomeni. Indaghiamo se le cose esistono così come appaiono o se la nostra percezione è influenzata dalle nostre proiezioni mentali. Riconosciamo che gli oggetti e gli eventi sono "come riflessi in uno specchio", reali nella loro manifestazione, ma privi di sostanza autonoma.

Immaginiamo di guardare un riflesso in uno specchio. Vediamo immagini dettagliate: il nostro volto, gli oggetti nella stanza, il paesaggio dietro di noi. Queste immagini appaiono vivide e reali, ma sappiamo che non hanno sostanza propria all'interno dello specchio. Non possiamo toccare o interagire fisicamente con il riflesso: è un'apparenza priva di esistenza autonoma.

Il riflesso esiste solo in dipendenza di varie condizioni: la presenza dello specchio, la luce, l'oggetto riflesso e la posizione dell'osservatore. Se una di queste condizioni cambia o viene a mancare, il riflesso scompare. Allo stesso modo, secondo il buddismo, tutti i fenomeni esistono in dipendenza di cause e condizioni. Nulla esiste per sé stesso, isolato o permanente.

Questa metafora sottolinea che, sebbene i fenomeni appaiano solidi e indipendenti, la loro natura ultima è vacua di esistenza intrinseca. La nostra percezione attribuisce una solidità e una permanenza che in realtà non ci sono. Come il riflesso nello specchio, le cose appaiono ma non possiedono una realtà autonoma.

Questa realizzazione dissolve le radici dell'ignoranza, che è la causa fondamentale della sofferenza. Comprendendo la vacuità, liberiamo la mente dalle afflizioni mentali e dai concetti limitanti. La saggezza diventa allora una luce che illumina il cammino, permettendoci di interagire con il mondo con chiarezza, compassione e libertà.

Ho approfondito il concetto di vacuità in "La Via di Mezzo (Nagarjuna) e il conseguimento della Buddità in questa esistenza (Nichiren Daishonin)".

Anche in questo caso, vorrei fare alcune annotazioni di tipo culturale. Sebbene il Sutra del Loto includa insegnamenti sulla vacuità, la Soka Gakkai, basata sugli insegnamenti di Nichiren Daishonin, adotta un approccio diverso nell'interpretazione e nella pratica di questo sutra. Questo riflette un intento culturale di Nichiren Daishonin di fornire strumenti immediati per affrontare le sofferenze della vita quotidiana, senza approfondimenti filosofici sulla natura della realtà. La comprensione della vacuità è invece centrale nel buddismo tibetano, attraverso studi approfonditi e pratiche meditative sulla natura della realtà. La vacuità è intrinseca anche alla pratica meditativa Zen.

Testo completo: "I tre aspetti principali del sentiero", di Je Tsongkhapa Lobzang Drakpa

(traduzione e note di Giulia Castello)

Lode ai venerabili e virtuosi maestri

Illustrerò, secondo le mie capacità,
il significato essenziale di tutti gli insegnamenti di Buddha
il sentiero trasmesso dai Bodhisattva
e la via d’accesso per i privilegiati;
coloro che desiderano la liberazione.

Tu che respingi le gioie dell’esistenza
E ti sforzi per rendere efficaci le condizioni favorevoli e le libertà
Tu che segui il sentiero che ha esaudito tutti i Buddha,
Ascolta bene, Fortunato, e con mente pura.

Senza una vera intenzione di rinuncia all’esistenza ciclica,
non v’è modo di porre fine alla continua ricerca degli effetti del piacere
nell’oceano dell’esistenza,
e poiché gli esseri senzienti sono vincolati dall’attaccamento ad essa
Tu devi cercare sin da subito di allontanarti dall’esistenza ciclica.

La liberazione e le condizioni favorevoli sono difficili da ottenere e la vita è breve.
Consapevole di ciò, stravolgi l’immagine che hai di questa esistenza.
Pensa ininterrottamente agli effetti inevitabili del karma e alla sofferenza del samsara,
stravolgi, così, la percezione delle vite future.

Meditando in questo modo
spera che i desideri per piaceri del samsara non si manifestino neanche per un istante,
e quando avrai coltivato giorno e notte l’inclinazione alla liberazione,
allora in quel momento sorgerà la vera rinuncia.

La vera rinuncia, inoltre,
non può esistere senza l’unione con una mente pura che desidera l’illuminazione (Bodhicitta)
diversamente non sarebbe la causa che genera
il piacere perfetto della suprema illuminazione.
Così il saggio dovrebbe generare la suprema aspirazione altruistica dell’illuminazione (Bodhicitta)

Gli esseri senzienti sono continuamente trasportati dalle poderose quattro correnti [1]
Legati dalle strette e indistruttibili catene del karma,
intrappolati nella fitta rete di ferro dell’egoismo,
sono completamente offuscati dalle profonde tenebre dell’ignoranza.

Nati innumerevoli volte nel samsara,
le tre sofferenze [2] li tormentano incessantemente.
Questa è la condizione di tutte le tue madri nelle vite precedenti
contempla questo stato e genera bodhicitta.

Privo della saggezza che riconosce la natura intrinseca di tutte le cose,
pur avendo coltivato la vera rinuncia e il bodhicitta,
non potrai tagliare la radice dell’esistenza,
sforzati a riconoscere la legge di interdipendenza.

Colui che riconosce l’affidabilità della causa e dell’effetto di tutti i fenomeni
del samsara e del nirvana, distrugge così ogni percezione errata
ed entra nel sentiero che esaudisce il Buddha.

Affinché tu consideri distinte le due conoscenze:
l’apparenza, ossia l’inevitabilità dell’interdipendenza
e la vacuità, priva di ogni argomentazione,
la saggezza di Buddha non potrà realizzarsi.

Quando queste saranno simultanee e non si alterneranno,
la conoscenza perfetta oblierà il modo errato di percepire le cose
attraverso l’infallibile legge dell’interdipendenza,
e così in quel momento il discernimento della via sarà completo.

Quando sarai consapevole che l’apparenza elimina l’estremo dell’esistenza
mentre la vacuità rimuove l’estremo della non esistenza, [3]
e quando comprenderai che la vacuità appare come causa ed effetto
non sarai più sopraffatto da visioni scorrette.

Nel momento in cui avrai realizzato i punti essenziali dei tre aspetti fondamentali del sentiero,
dimora in solitudine, genera il potere dell’entusiasmo
e raggiungi la tua meta, figliuolo!

note:

  1. Secondo Ngulchu Dharmabhadra i quattro fiumi del samsara si riferiscono sia alle sofferenze dell’esistenza: nascita, vecchiaia, malattia e morte sia ai “quattro fiumi del samsara” come definito nella letteratura dell’Abhidharma: ignoranza, punto di vista, divenire e brama.

  2. Sofferenza della sofferenza, sofferenza del cambiamento e sofferenza onnipresente.

  3. E’ comunemente riconosciuto nella filosofia buddhista che le cose sorgono, appaiano. Questa concezione elimina sia l’estremo del nichilismo sia un credo sulla completa non esistenza di tutte le cose, mentre dall’altra parte il concetto di vacuità elimina l’estremo dell’eternalismo e la credenza che tutte le cose abbiano una realtà intrinseca. Tsonkhapa in questo testo va oltre e afferma che il fatto che le cose appaiono elimina l’estremo di considerare le cose come veramente esistenti, perché per apparire non possono avere un’esistenza inerente. Inoltre, il fatto che le cose siano vuote elimina la concezione della non esistenza, poiché è solo perché le cose sono vuote che possono apparire.

Con l'auspicio di pace e guarigione per tutti,
24 novembre 2024

Dall'affanno terreno alla serenità spirituale

«Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena».
(
Matteo 6,25-34)

"E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?"

Questa domanda, posta con una semplicità disarmante, ci mette di fronte alla nostra fragilità e alla grandezza di ciò che trascende l’umano. In un mondo sempre più orientato al controllo e alla performance, queste parole squarciano l’illusione che la nostra volontà sia onnipotente, rivelando invece una verità più profonda: non siamo padroni del nostro destino. Per quanto possiamo sforzarci, impegnarci, accumulare conoscenze e strategie, rimaniamo creature limitate, intrecciate a un disegno più grande che non possiamo dominare. Eppure, in questa consapevolezza non c’è condanna, ma una promessa di liberazione.

L’uomo, nella sua superbia, ha sempre cercato di imporsi sulla natura e sulla vita stessa, convinto che la tecnologia, la scienza o la pura determinazione possano rispondere a ogni domanda e risolvere ogni problema. Questa mentalità, apparentemente pragmatica e rassicurante, nasconde un inganno sottile, ovvero l’idea che siamo sufficienti a noi stessi. Tuttavia, anche le conquiste più straordinarie non possono cambiare il fatto che la vita è un dono fragile e misterioso. Nessun farmaco, nessuna dieta, nessun esercizio può garantire di aggiungere anche un solo istante al tempo che ci è concesso. Ogni nostro respiro è un miracolo che non ci appartiene, e riconoscere questo fatto ci aiuta a liberarci dall'ansia di dover controllare tutto.

Questa ansia di controllo, che permea le nostre vite, nasce dall’ignoranza. Di solito, chi cerca di darsi da fare esclamando che «Tutto dipende da noi» dimentica che, specularmente, «Noi dipendiamo da tutto». L'io non esiste se non nella relazione con tutto il resto del creato. Nel buddismo questo è espresso dai concetti di Anātman (non-sé), Śūnyatā (vacuità) e Pratītyasamutpāda (origine dipendente).  Ignorare questa realtà è una forma di cecità che ci impedisce di vedere il quadro più grande, ovvero l'esistenza di forze invisibili e interconnesse che regolano l’universo. In ogni cosa che esiste si manifesta un ordine superiore, una sapienza divina che sfugge alla nostra comprensione, ma non per questo è meno reale. Pensare che tutto dipenda esclusivamente dai nostri sforzi significa vivere in una gabbia mentale fatta di limiti autoimposti. Riconoscere invece che esistono cause e condizioni che vanno oltre noi stessi non è una resa, ma un atto di umiltà che ci permette di entrare in armonia con la realtà.

Affidarsi all’Amore divino non significa rinunciare ad agire, ma agire con una nuova consapevolezza. È un modo per liberarsi dall’affanno e dall’ossessione di ottenere risultati a ogni costo. Questa fiducia ci restituisce la libertà di vivere nel presente, di accogliere ciò che ci viene donato senza angosciarci per ciò che non possiamo avere. È un invito a smettere di guardare alla vita come a un campo di battaglia e iniziare a vederla come un giardino in cui tutto cresce secondo un ordine perfetto, anche quando noi non riusciamo a comprenderlo.

Questo atteggiamento non è esclusivo del cristianesimo, ma trova eco in molte tradizioni spirituali. Il buddismo, ad esempio, insegna l’importanza del distacco e della consapevolezza del momento presente. La meditazione sul respiro, così semplice e profonda, è un promemoria della transitorietà di ogni cosa e della necessità di abbracciare la vita così com’è, senza volerla modificare o controllare a tutti i costi. Nel Taoismo, l’insegnamento del "wu wei", il non-agire, invita a vivere in accordo con il flusso naturale delle cose, senza forzature, senza resistenze. Anche l’Islam, con il concetto di "Inshallah", ci ricorda che ogni cosa avviene se e quando Dio vuole, e che la nostra esistenza trova senso solo nella sottomissione fiduciosa alla volontà divina. Queste prospettive, pur provenendo da culture e contesti diversi, convergono nel sottolineare la necessità di abbandonare l’ego e di accogliere la vita con umiltà e gratitudine.

Quando ci affidiamo a questa fiducia, cambia anche il modo in cui percepiamo la nostra esistenza. Non siamo più individui separati, in lotta per affermarci, ma parte di un disegno universale che ci chiama a essere strumenti dell’Amore divino. Ogni nostra azione, per quanto piccola, diventa significativa quando è vissuta in sintonia con questa chiamata. Non siamo qui per accumulare beni materiali o per cercare la gloria personale, ma per partecipare a un’opera più grande, per essere canali attraverso cui il divino si manifesta nel mondo. Questo non significa rinunciare ai propri desideri o alle proprie passioni, ma viverli con la consapevolezza che sono mezzi e non fini, sono strumenti per crescere.

La paura della morte, che tanto condiziona la nostra esistenza, si dissolve quando comprendiamo che la vita non si esaurisce con il corpo fisico. Siamo parte di un flusso eterno, di un Amore che ci ha creati e che continuerà a guidarci attraverso le epoche e le esistenze. Ogni momento della nostra vita è un’opportunità per avvicinarci a questa realtà, per lasciare che il divino agisca attraverso di noi, per imparare a essere sempre più strumenti di amore, pace e compassione.

Questa prospettiva non solo dà senso alla nostra vita, ma ci libera da un peso insopportabile, quello di dover essere sempre perfetti, sempre performanti, sempre vincenti. Ci invita a vivere con leggerezza, a confidare nel fatto che ciò che è veramente necessario ci sarà dato. È un invito a guardare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, a imparare da loro la bellezza dell’abbandono e della fiducia. E quando smettiamo di preoccuparci di aggiungere ore alla nostra vita, scopriamo che la vita stessa diventa più piena, più ricca, più vera. Non perché abbiamo fatto di più, ma perché abbiamo imparato ad accogliere di più. E in questo accoglimento, troviamo la pace che il nostro cuore ha sempre cercato.

Dedico questo mio quadro a Madre Natura, agli "uccelli del cielo" e ai "gigli del campo" del Vangelo succitato e alla pace che la ricerca dell'armonia con il Tutto può darci:

Madre Natura (Francesco Galgani's art, November 22, 2024)
(November 22, 2024, go to my art gallery)

Essere pace, vivere la pace, in tempo di guerra

Visto che c'è aria di grande guerra mondiale, magari è l'occasione giusta per rileggere il libro "Per il bene della pace. Sette sentieri verso l'armonia globale. Una prospettiva buddista", di Daisaku Ikeda, pubblicato integralmente in questo blog nel 2016.

Il testo è corredato di mp3 per ascoltare il libro.

Una piccola citazione dal secondo capitolo "La via del dominio di sé":

«[...] La capacità di percepire gli aspetti negativi di noi stessi ci permette di percepire i lati positivi degli altri. Le relazioni tra le nazioni, come quelle fra individui, non possono essere gestite con maturità se una parte insiste sul proprio punto di vista senza considerare la posizione dell’altra. Non intendo sostenere una concezione manichea del dualismo bene-male ma solo sottolineare la necessità di riconoscere il bene e il male all’interno di ognuno di noi. Anche se ci scontriamo con un rivale, dovremmo cercare di manifestare il bene e annullare il male. La capacità di autocontrollo ci può aiutare a evitare il conflitto e l’ostilità e permetterci di assumere il giusto atteggiamento di accettazione reciproca e di rispetto. [...]»

E un'altra citazione dalla "Prefazione":

«[...] Io sono contro la guerra! Sono assolutamente contrario alla guerra!
Il governo militare incitava molti giovani della mia generazione a recarsi fieramente al fronte per dare la propria vita. Le famiglie rimaste a casa venivano lodate per il loro sacrificio, come “madri di militari”, e “famiglie di soldati al fronte”, espressioni considerate sinonimo di grande onore.
Ma in realtà i loro cuori erano tormentati dall’agonia e dal dolore! E quelle false lodi e la simpatia degli altri, inconsapevoli di quel tormento interiore, infliggevano ferite ancor più profonde ai cuori già dolenti delle madri e dei figli rimasti a casa.
L’amore di una madre, la saggezza di una madre è troppo grande per essere ingannata da frasi artificiose come «per il bene della nazione [...]»

Queste mi sembrano le giuste risposte ai manuali di preparazione alla guerra continentale che in questi giorni stanno venendo inviati ai cittadini svedesi. Mi sembrano anche le giuste risposte a tutti i fanatismi e agli schieramenti di parte.

Il potere costituito vuole prepararci alla guerra. Ma noi possiamo prepararci alla pace, innanzitutto quella interiore.

(22 novembre 2024)

La scelta di fronte ai Cavalieri dell’Apocalisse, tra cristianesimo e buddismo

Inganno, dominio tirannico, guerra, carestia, malattia, disastri e morte sono costanti nell'esperienza umana. I Cavalieri dell'Apocalisse camminano sempre tra di noi, e ci seducono. Folle oceaniche sono sempre pronte a servirli.

Proviamo a fermarci, a staccarci dall’avvelenamento informativo, dai mostri che la propaganda continua a introiettarci per renderci più simili ai servi del male. Odio e rabbia, per quanto possiamo giustificarli, sono sempre al servizio delle forze oscure, anche quando rivolti verso chi commette mostruosità. La saggezza del «porgi l’altra guancia» deve essere scaturita da una simile considerazione.

Rimaniamo in silenzio e osserviamo i nostri pensieri, senza giudicarli, lasciamoli fluire come le nuvole in cielo.

Che tipo di linguaggio interiore stiamo sentendo? E’ fortemente connesso al linguaggio esteriore?

Ovunque io vada, per strada, nei bar, nei mezzi pubblici, nei canali informativi più popolari, sento turpiloquio e miseria spirituale. Questo linguaggio serve solo a nutrire i nostri demoni e a spianarci la strada verso una sorte peggiore dell’attuale. Le parole creano la realtà, per questo hanno un potere immenso.

Un linguaggio gentile, fiducioso e positivo crea un ambiente sereno e accogliente in cui è bello vivere, migliorando il nostro e l’altrui benessere. Al contrario, parole volgari, aggressive, ruvide o negative danneggiano la qualità dei nostri legami con gli altri, la nostra salute, e il nostro stare al mondo diventa ogni giorno più difficile.

Chi si fida e si affida all’Amore divino non ha bisogno di usare parole pesanti né di fare previsioni negative. La fiducia in un Amore universale, cosmico, che tutto crea e tutto abbraccia ci rende sopportabile ogni peso e ci fa guardare oltre le contingenze. Ci alleniamo così a osservare gli altri come creature meravigliose di quello stesso Amore che ha creato noi. «Ama il prossimo tuo come te stesso» comincia così ad avere significato.

Animati da una tale fiducia nella vita, potremmo chiederci perché esista il male. A tal riguardo, sono circa quattordici anni che ho intuito due questioni fondamentali conseguenti alla mia fede nella Legge buddista, che ho espresso in molteplici occasioni:

1. Il male non viene mai per nuocere.
2. Il male si autodistrugge senza bisogno di combatterlo direttamente, basta rimanere nel bene.

In realtà nessun maestro buddista che io conosca si è mai espresso in questi termini così diretti, in quanto fraintendibili. Queste sono soltanto due mie convinzioni interiori che trascendono l’esperienza quotidiana e che si fondano su una visione a lunghissimo termine, che può tranquillamente andare oltre l’esperienza corporea. La mia intuizione è che il male esista per darci il libero arbitrio e che, alla luce della Legge mistica buddista, comunque tutto alla fine si trasformi in bene, è solo questione di impegno personale e di tempo. Dal mio punto di vista ciò è in accordo, anche se in modo indiretto e sottile, con la “Parabola della pioggia benefica” narrata dal Budda nel capitolo 5 del Sutra del Loto.

In questa parabola, la pioggia cade indiscriminatamente su tutti gli esseri viventi, che siano in condizioni favorevoli o meno, e ognuno ne trae il beneficio massimo possibile secondo la propria natura. Possiamo estendere questo principio alla sofferenza, nel senso che anche ciò che ci appare come un “male” è in realtà parte della pioggia del Dharma, cioè dell’insegnamento del Budda, il quale, nel capitolo 16 del Sutra del Loto, definisce se stesso come un essere eterno e come “il padre di questo mondo che salva coloro che sono afflitti e soffrono”. Tale definizione fa coincidere il Budda con la vita stessa e le sofferenze della vita come un insegnamento di cui “abbiamo bisogno”. Questa prospettiva, tra l’altro, non è molto diversa da quella panteistica di un dio immanente, molto simile a quella del “Deus sive Natura” (lett. “Dio ossia la Natura”) del filosofo olandese Benedetto Spinoza (1632-1677).

Sono certo che molti buddisti occidentali non sono d’accordo con quanto ho appena scritto, in quanto fondano il loro credere sugli insegnamenti del Budda sul non-credere in un dio. La confusione linguistica nasce non solo dal diverso contesto culturale, ma anche dalla differenza tra il “dio-persona” esterno al creato (trascendente), e il “dio-tutto” che è il creato (immanente). In senso lato, sto sovrapponendo il modo con cui il Budda definisce se stesso con ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il principio che lo regge.

Tornando al tema centrale, sto deducendo dall’insegnamento del Budda che ogni situazione, anche negativa, ha un’origine e uno scopo “per noi benefico” che possiamo trasformare in qualcosa di positivo attraverso una fede corretta, un retto pensiero e giuste azioni. Una sofferenza oggi può portare a un grande risveglio domani. La “trasformazione del veleno in medicina” è un concetto sviluppato soprattutto nella tradizione buddista di Nichiren Daishonin.

Facendo il possibile per unire due tradizioni religiose così distanti, come buddismo e cristianesimo, vorrei citare che uno più grandi maestri della Chiesa Cattolica, Sant’Agostino d'Ippona (354-430), è giunto a conclusioni analoghe.

Sant’Agostino ha infatti sviluppato una concezione del male che cerca di rispondere alla domanda fondamentale su come possa esistere il male in un mondo creato da un Dio onnipotente e completamente buono, un Dio è che Amore.

Sant’Agostino concepisce il male come “privatio boni”, cioè privazione o assenza di bene (cfr. cap. 1 "Sant'Agostino, La libertà e il male morale" di "Bene e Male" di Marco Salvioli). Per Sant’Agostino, il male non è una sostanza o un’entità indipendente, piuttosto è la mancanza o la corruzione di un bene preesistente. Questa idea è stata fondamentale per la teologia cristiana, perché ha permesso di spiegare l’esistenza del male senza attribuirne la creazione diretta a Dio. In altre parole, Dio ha creato tutto ciò che esiste e tutto ciò che ha creato è buono, mentre il male si manifesta solo quando qualcosa si allontana dal suo stato di bontà o integrità originale.

Un elemento centrale della visione agostiniana è il ruolo del libero arbitrio. Sant’Agostino sostiene che il male morale esista a causa delle scelte libere delle creature dotate di volontà, come gli esseri umani e gli angeli. Queste creature sono state create da Dio con la libertà di scegliere il bene o il male. Quando scelgono il male, cioè quando si allontanano volontariamente dalla legge divina e dalla bontà, contribuiscono all’esistenza del male nel mondo. Pertanto, Sant’Agostino difende la bontà di Dio sostenendo che il male non è attribuibile alla volontà divina, ma alla cattiva scelta delle creature.

Un’altra importante idea di Sant’Agostino è che il male esista nel contesto di un ordine universale più grande, che Dio permette per scopi che spesso vanno oltre la comprensione umana. Sant’Agostino sostiene che Dio può trarre il bene anche dalla presenza del male, mantenendo un equilibrio nella creazione che conduce al bene ultimo. Questa concezione di Sant’Agostino è stata ripresa anche in questo passaggio della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino (1224-1274), che cito letteralmente:

«Ad primum ergo dicendum quod, sicut dicit Augustinus in Enchiridio: Deus, cum sit summe bonus, nullo modo sineret aliquid mali esse in operibus suis, nisi esset adeo omnipotens et bonus, ut bene faceret etiam de malo. Hoc ergo ad infinitam Dei bonitatem pertinet, ut esse permittat mala, et ex eis eliciat bona.»

Tradotto: «Alla prima obiezione si deve dunque rispondere che, come dice Agostino nell'Enchiridion: Dio, essendo sommamente buono, in nessun modo permetterebbe che ci fosse del male nelle sue opere, se non fosse così onnipotente e buono da trarre bene anche dal male. Questo dunque appartiene all'infinita bontà di Dio, che Egli permetta l'esistenza dei mali e ne tragga dei beni.»

Questa visione cerca di dimostrare che, pur essendo presente, il male contribuisce indirettamente al disegno divino finale di bontà e redenzione.

Sant’Agostino crede anche che il male sia autodistruttivo per natura. Poiché il male è una deviazione dalla bontà e dalla verità di Dio, non ha una vera essenza o solidità e non può durare indefinitamente. Quando le creature scelgono il male, tendono alla corruzione e alla morte, perché si allontanano dalla fonte della vita, che è Dio. Di conseguenza, il male porta inevitabilmente alla sua stessa rovina, poiché si basa su un’assenza piuttosto che su una sostanza.

Possiamo quindi notare delle sovrapposizioni tra cristianesimo e buddismo nel concezione del male, che in entrambi i casi diventa strumento del bene. Ma alla fine, la nostra scelta di fronte ai Cavalieri dell’Apocalisse, se servire il male o essere strumenti dell’Amore divino, è e rimane personale. Entrambe le scelte hanno un costo molto alto. La terza via, quella degli ignavi che “visser sanza infamia e sanza lodo” (Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto III) non la auguro a nessuno.

(20 novembre 2024)

Fidarsi e affidarsi all'Amore divino, non occorre altro

Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: "Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno". Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».

Buon Samaritano (Francesco Galgani's art, November 17, 2024)
(November 17, 2024, go to my art gallery)

Tutto ciò che non è umiltà è menzogna

L'idea di un "memento mori" (lett. "ricordati che devi morire") era profondamente radicata nella cultura romana. Quando un imperatore celebrava trionfante una vittoria, mostrando tutta la sua gloria per le strade di Roma, uno schiavo era incaricato di tenere una corona d'alloro sopra la sua testa e di ricordargli ripetutamente: "Tu sei solo un uomo, ricordati che devi morire". Anche se le parole esatte forse non erano queste, lo era il senso.

La nostra vera forza non è nell’ego, ma nell'anima che fa parte di una comunità di anime e che aspira di unirsi al tutto.

(15 novembre 2024)

Oltre il fare e l'essere, dove poniamo l'attenzione?

Simili a un cane che si morde la coda, siamo ossessionati dalla domanda "Perché?", cui subito segue la sua gemella, non meno ossessiva, "Come?", nel senso di come fare per cambiare. Non a caso, tutte le propagande elettorali del mondo parlano sempre di "cambiamento", solitamente proponendo intenzioni irrealistiche, ma persuasive. Stesso discorso per la nostra mente, in cui sovente idee vagabonde fanno a gara in una propaganda elettorale continua, proponendo ciò che non c'è. Tali idee, tra l'altro, sono abili nel nascondere la loro origine.

In questo tumultuoso moto interno, comune alla maggior parte di noi, fatta eccezione per quei pochi che già da tempo si sono pacificati, la ricerca della felicità non è altro che la ricerca di risposte alle domande sbagliate.

Il primo inganno sta nel senso dell'esistenza, che nessuno mai ci spiega, o se lo fa nasconde interessi o bisogno di conferme, come nel caso del proselitismo religioso, dell'indottrinamento ideologico o del patriottismo coercitivo. In tutti questi casi, l'obiettivo è quello di sostituire la coscienza individuale con quella del gruppo, eludendo completamente di affrontare quale sia il senso dell'esistenza.

Questa assenza di spiegazioni è sostituita da indicazioni subliminali ma estremamente potenti. La propaganda neoliberista ci accompagna dalla culla alla tomba, convincendoci che la risposta al "nulla", cioè ad una vita di per sé senza significato se non quello del caso o del caos, sta nel "fare" e nell'"emergere", cioè competere in una guerra infinita per essere visibili. Le anime meno ingenue possono tentare di sostituire la priorità del "fare" con quella dell'"essere", salvo poi dover comunque sottostare alle necessità del vivere quotidiano che spingono in tutt'altra direzione. Del resto, "fare" ed "essere" si sovrappongono quasi come se fossero sinonimi nella ricerca della propria identità sociale.

Ma qual è il soggetto dei verbi "fare" ed "essere"? E' l'ego in eterna guerra con il mondo, anche nel caso delle persone più docili che mai ammetterebbero a se stesse una simile banalità, preferendola sotterrata nel punto più buio dell'inconscio. Ma anche se non lo ammettiamo a noi stessi, questo ego ci comanda, ci motiva, ci protegge dall'annientamento, inventando e insistendo con ostinata fedeltà ai suoi veri scopi. Si oppone alla ragionevolezza facile ai compromessi e spesso ci obbliga alla devianza e alla bizzarria, specialmente quando ci sentiamo non visti, non riconosciuti, non apprezzati, trascurati o contrastati. Questo, tra l'altro, è il motore dei cambiamenti nei costumi sociali, dell'originalità dei geni e di tutti coloro che innescano grandi cambiamenti o che storicamente li precedono.

In tutto ciò, di per sé, non c'è nulla di male, però prevale sempre un "Io", "Io", e ancora "Io" che mai troverà pace, né senso di se stesso.

Il grande inganno è che la felicità sia uno stato ideale dell'Io da raggiungere o che sia necessario "fare" qualcosa per essere felici. A conferma che si tratti di una suggestione fuorviante, basterebbe notare che la consapevolezza del senso della propria esistenza è già essa stessa felicità, perché è la risposta al perché dei perché, a quell'unica domanda essenziale che in tutti i modi scacciamo via con mille distrazioni, con il lavoro, con l'impegno sociale e familiare, con lo studio, con lo sport o, in alternativa, con un disimpegno rinunciatario da tutto ciò pari a quello di un clochard che va avanti per inerzia.

La vita è relazione e non esiste vita al di fuori della relazione, quindi il senso della vita è nella relazione, nella comunità terrena e in quella visibile solo con gli occhi della fede, nella qualità dei legami che costruiamo e nella gentilezza e attenzione con cui li curiamo. In questa "giusta attenzione" sta il senso delle nostre esistenze, che trascendono l'individualità e che si trovano all'interno di una grande rete di legami visibili e invisibili. Nessuna vita ha senso di per sé, perché di per sé non esiste. Non c'è nessun "fare" o "essere" da rincorrere. Esistiamo tutti insieme.

Anche l'eremita si relaziona, solitamente con la natura, con le divinità e gli angeli, e ciò gli è sufficiente per essere felice e in pace.

«Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.

Ad te solo, Altissimu, se konfàno et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui; et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle: in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si', mi' Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.

Laudato si', mi' Signore, per sor'aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si', mi' Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si', mi' Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione.

Beati quelli che 'l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali.

Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male.

Laudate et benedicete mi' Signore et ringratiate et serviateli cum grande humilitate.»

(Cantico delle Creature di San Francesco D'Assisi)

Inoltre:

«Non cercate la legge nelle vostre scritture, perché la legge è vita mentre la scrittura è cosa morta. […] Dio non scrisse le sue leggi sulle pagine dei libri ma nel nostro cuore e nel nostro spirito».

(Gesù, Vangelo Esseno della Pace)

(8 novembre 2024)

Oltre le teorie separative, siano esse di genere, di politica o di religione

Mentre l'umanità affonda nelle sue discariche, conta poco se siamo femminili, maschili o un misto dei due. Scompariremo tutti insieme. Questioni ben più pressanti che non il genere invocano la nostra attenzione. Stesso discorso per le prese di posizione faziose in difesa di una specifica religione o parte politica.

I miei lettori potrebbero pensare che io mi stia riferendo alle guerre divenute massacri senza regole, o alla distruzione così terribile dell'ecosistema d'aver reso agonizzante quanto di più bello il creato ci abbia donato, con grande sofferenza per tutte le sue creature. O ancora allo spettro nucleare o alla distruzione e glebalizzazione delle società e delle famiglie per il tramite dell'annientamento dello stato sociale, dello stato di diritto e della spinta potentissima alla gestione delle nostre vite con "menti metalliche" senza anima (più comunemente note come intelligenze artificiali). O ancora alla crescente miseria che si traduce in disperazione e criminalità. L'elenco potrebbe continuare con altri temi.

Orbene, questa volta no, non mi stavo riferendo a queste serie e tristi problematiche.

Le questioni più pressanti a cui alludevo si trovano altrove:

- Chi siamo?

- Dove siamo?

- Cosa stiamo facendo?

- Perché esistiamo?

- Cosa siamo venuti a fare in questo mondo? Ovvero, perché ci siamo incarnati?

- Com'è la vita nell'altro mondo, cioè quello oltre la morte, e in che modo è legata al nostro mondo?

- Perché gli esseri umani sono l'unica specie vivente sul pianeta senza un habitat specifico e incapaci di integrarsi nell'equilibrio delicato e precario nella natura?

- In che rapporto siamo con le altre forme di vita che da sempre chiamiamo angeli, demoni, e divinità? E più in generale, con le forme di vita che non vediamo ma che sappiamo esserci?

- Perché, come esseri umani, abbiamo una straordinaria tendenza a ubbidire, credere e combattere, anche se di solito le guerre che combattiamo non sono a beneficio dei diretti interessati? Dov'è la nostra coscienza? Perché introiettiamo così facilmente idee e convinzioni non nostre?

- In che modo la "fede", qualunque essa sia, è il punto di partenza o di arrivo di tutte le domande precedenti?

- Il punto di arrivo delle filosofie e delle scienze è l'accettazione della loro incapacità di descrivere la totalità, contraddittorietà e vacuità del reale, oltre la quale c'è solo la fede?

- Perché le esperienze dei mistici di tutto il mondo, di ogni cultura, fede ed epoca, si assomigliano tutte?

Forse, tenere spesso a mente anche una sola di queste domande, può bastare.

(2 novembre 2024)

Message to the unemployed, the poor, the excluded and the needy

[vai alla versione in italiano]

So many voices and official studies are warning us that the ever-widening adoption of artificial intelligence is increasing and will continue to increase unemployment, misery and social exclusion. Artificial intelligence is accentuating the concentration of wealth in the hands of a few companies and individuals. Let us look around, for everywhere we can see misery and degradation, material and moral, provided we have eyes to see, a mind to understand and a heart to feel.

We have known since the last century that sooner or later artificial intelligence would replace us in many jobs, creating a cascade of problems. This awareness has been heightened in recent years, even before the advent of ChatGPT. Then, when ChatGPT was made known to the whole world, the great enthusiasm made us forget the slavery of human beings to their technological artifacts. It has been like this for millennia, forever. Every new technology creates enthusiasm, addiction, blind adherence, seduction, but very few critical voices are heard.

Even now many jobs are being wiped out by artificial intelligence. But in the end the real problem is not the machines, but the trust we place in them. The more we trust technology, the less we trust ourselves and other people. Technology will never be able to give us what we need, which is affection and love, or explain or solve the mysteries of birth and death. No artificial intelligence will be able to tell us why we exist or what we came to this world to do. The answers to these questions are not computational objects of algorithms, not computable by artificial neurons, nor graspable with our ordinary cognitive tools. We can approach them only with a faith capable of penetrating the ineffable.

All this is happening while the world is engaged in great wars, great horrors that continue the tragedies and logics of the last century, with the externally induced desire to take sides. But those who fail to have compassion for all, victims and perpetrators, suffer from the learned inability to love, that same inability that divides the world into good and bad. In this scenario, so many people are waiting for the Apocalypse as a deliverance from misery and relentless suffering, and they are not ashamed to say so, wishing for a real nuclear conflict as soon as possible. But even if the worst of cataclysms happened, would we be better off afterwards?

In this valley of tears and darkness, there is hope, however. In the end, perhaps those who have a true passion for life, those who seldom give too much ground to fear and though never to being blackmailed, will be able to survive with dignity. When the time comes, these will be the ones best suited to go fearlessly to the weighing of the heart in the court of Anubis. Indeed, those who are creative, passionate and courageous, those who are not easily treated as puppets maneuvered by the psychopathies and perversions of others, will know how to find their way. The faith and courage that emerge from a clean and light heart enable us to face adversity, including misery, unemployment and illness.

Everything is temporary, everything is impermanent. Many jobs are in crisis, but no crisis is forever; everything transforms.

Suspended above the palace of the god Indra, a symbol of the natural forces that nurture and protect life, is a vast web. To each of its nodes is tied a jewel. Each jewel reflects in itself the image of all the others, making the net wonderfully luminous. Each of us is one of these jewels.

With wishes for faith and courage,
October 25, 2024

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