Perché la tecnica ci piace più della natura?
L'essere umano, creatura fragile e consapevole della propria finitezza, sviluppa un'attrazione profonda per i propri manufatti tecnologici. Essi sono visti come esempi di perfezione, bellezza e desiderabilità, tanto che, spesso, vorremmo essere come loro, cioè immutabili, esenti dal dolore e dalle imperfezioni che caratterizzano la nostra condizione. Come specie vivente siamo particolarmente inclini, rispetto alle altre creature, a cercare rifugio nell'artificiale e a preferirlo al naturale. Anzi, siamo l'unica forma di vita terrestre ad avere questa tendenza. Indubbiamente questo fenomeno è alimentato dalla natura della nostra mente, che rispetto agli altri primati è l'unica ad avere interesse per il pensiero simbolico, che è alla base del linguaggio e del pensiero astratto. Ma dietro questo comportamento così innaturale di prendere rifugio nell'artificiale c'è molto altro.
Il problema risiede nella natura stessa della nostra esistenza, che ci appare fondamentalmente misera e imperfetta. Siamo esseri nati senza saperne il perché, tra sangue, urina e talvolta feci, come qualsiasi altro mammifero. O meglio, a questo "perché" diamo tante risposte più o meno consolatorie, che hanno a che fare con il karma, con Dio, con il caso, con il caos, con l'amore, con la reincarnazione, con la necessità o con la scelta volontaria, con la sola biologia o con il nulla cosmico, ma, a prescindere dalle tante possibili spiegazioni tra loro alternative, la nostra venuta al mondo è sporca e dolorosa, e così è la nostra fine, destinati a tornare alla terra, a decomporci nel putridume. Tra l'inizio e la fine, siamo soggetti a innumerevoli malattie, sofferenze e problemi, e nessuno di noi, che sia re o suddito, può sfuggire a questa realtà. Siamo tutti ugualmente esposti alla crudezza della vita.
La tecnologia, in questo senso, diventa un rifugio. La sua presenza ci circonda e ci rassicura, offrendoci l'illusione di poter sfuggire, almeno temporaneamente, alla brutalità della nostra condizione. Il prodotto tecnologico, essendo non-vivo, è un ideale, una perfezione cristallizzata, esente dalle degenerazioni che affliggono la carne. Non nasce, non invecchia, non si ammala, non muore, permane così com'è, sfuggendo al tempo e alla decadenza. E in questa sua imperturbabilità, troviamo una rassicurazione quasi religiosa.
Non è forse vero che, fin dall'alba dei tempi, abbiamo cercato di proiettare nell'ideale divino queste stesse caratteristiche? L'eternità, l'incorruttibilità, l'infallibilità sono attributi che, nella nostra immaginazione, abbiamo sempre attribuito alle divinità, e in fondo, la tecnologia non è che una nuova forma di divinità laica. In un mondo sempre più secolarizzato, ciò che un tempo cercavamo nel cielo oggi lo troviamo nei nostri dispositivi, nei nostri sistemi intelligenti, nelle nostre macchine.
Un esempio evidente è l'intelligenza artificiale. La sua (apparente?) capacità di elaborare informazioni, risolvere problemi e migliorare costantemente se stessa senza mai invecchiare o ammalarsi, esistendo in un non-luogo (quello delle idee) e in un non-tempo (come qualsiasi altro software), la rende simile a un ideale platonico: pura forma, pura funzionalità. Il nostro pensiero simbolico, precedentemente accennato e unico fra le creature terrestri, ci suggerisce, se non addirittura ci "obbliga a credere", che il mondo materiale non sia la vera realtà, ma solo una copia imperfetta di una realtà superiore.
Una volta questa realtà superiore era proiettata solo nella vita ultraterrena, come esemplificato da questo passo del Corano: «Questa vita terrena non è altro che gioco e trastullo. La dimora ultima è la [vera] vita, se solo lo sapessero!» (Sura 29, Versetto 64). Pensieri simili si trovano in tutte le religioni e filosofie antiche. Tutti i mistici cercano di fondersi con questa realtà superiore e molte forme di meditazione fanno altrettanto. Oggi, tuttavia, noi esseri comuni, confusi e immersi nei problemi, siamo persuasi e illusi di vedere un riflesso di questa realtà superiore nella tecnologia.
Ma non è solo una questione di intelligenza artificiale. La stessa fascinazione vale per le opere d'arte, le costruzioni architettoniche, i macchinari, le poesie. Ogni creazione umana, che sia una macchina, un dipinto, un romanzo, una musica o una voce registrata è una sfida lanciata all'impermanenza e alla morte. Ciò vale persino per i primi disegni (scarabocchi?) di un bambino, che chi li osserverà con amore vedrà pari a capolavori. Con ogni nostro prodotto creativo cerchiamo di fissare un istante, di fermare il tempo, di catturare un momento di bellezza che non sfugga alla corruzione e alla dissoluzione.
In questo senso, la tecnica e l'arte si uniscono in un medesimo progetto: offrirci un'illusione di eternità. Ma c'è una sottile ironia in tutto questo. Pur creando oggetti che sembrano liberarci dalle catene della nostra mortalità, in realtà non facciamo altro che riaffermare la nostra condizione. La nostra adorazione per la tecnologia e l'arte rivela, alla fine, una profonda nostalgia, ovvero il desiderio di un mondo che non sia soggetto alle leggi della biologia, un mondo dove non si nasca e non si muoia, dove il dolore e la sofferenza siano assenti. È un sogno di eternità, di permanenza, di astrazione e di purezza che (per fortuna?) resterà sempre confinato al regno delle idee e delle speculazioni fantasiose di altri mondi, mentre la realtà, quella della carne e della natura, continuerà a mostrarci la sua indifferenza alle nostre illusioni, con la sua durezza, con il suo corso ineluttabile di piccole gioie e grandi tragedie. E' possibile che l'attrazione per mondi e creature a noi sconosciuti e alieni, o per enti puramente spirituali, nasca proprio dalla speranza, cioè dall'illusione, che altrove tutta questa sofferenza non ci sia o che sia stata risolta.
A ben vedere, però, se anche dessimo per certo l'Aldilà, popolato dalle anime dei nostri cari defunti, da angeli, da demoni, e da innumerevoli tipi di creature che neanche immaginiamo e che potrebbero provenire da altri mondi o creazioni, perché mai dovremmo pensare che non soffrano come noi o più di noi? Giusto per fare un esempio e non parlare solo di teorie, basterebbe notare che chi pratica i cosidetti "viaggi astrali", detti anche "Out of Body Experience" (OBE), riferisce scene e situazioni che sono simili a quelle della vita quotidiana terrestre, incluso il mangiare, socializzare, lavorare o esplorare ambienti familiari. C'è anche chi riferisce di aggressioni, violenze e di eventi terrificanti. Quindi sembrerebbe che l'Aldilà non sia così diverso dall'Aldiqua. Potrebbe non esserci nessun rifugio dalla sofferenza, né di qua, né di là.
E così, nel frattempo, in attesa di morire, ci aggrappiamo ai nostri manufatti, sperando di trovare in essi una risposta, un conforto, un modo per trascendere la nostra condizione. Ma forse, nel farlo, stiamo solo scambiando la verità per un'illusione di eternità, senza mai affrontare davvero la nostra finitudine.
A questi motivi di fascinazione della tecnologia, possiamo aggiungere la sua incorruttibilità morale, in quanto non soggetta alle debolezze, tentazioni e perversioni di chi, avendo coscienza, anima e carne, può scivolare nelle peggiori bassezze di cui l'essere umano ha grande e impareggiabile esperienza. In questo senso, un'intelligenza artificiale non aggredibile dalle suggestioni del diavolo sembra più divina e più suggestiva della resistenza di Gesù alle tentazioni di Satana durante i quaranta giorni di digiuno nel deserto. Anzi, a dirla tutta, mentre è raro che qualcuno prenda il digiuno e la resistenza alle tentazioni come modello di vita, e ancor meno probabile che ambisca a finire in croce, è molto più verosimile che tante anime sofferenti sognino di potersi anche solo un po' avvicinare alla "grandezza" (?) dei nostri artefatti tecnologici, come ChatGPT e altri. Da qui nasce l'ideale del transumanesimo e la sua ambizione di trasformare radicalmente la natura umana per il tramite dell'ibridazione con la macchina. L'impianto di dispositivi elettronici nel cervello umano (BCI, Brain-Computer Interface), come già stanno facendo Neuralink, Synchron, Blackrock Neurotech, CereGate, Kernel, Paradromics, BrainCo e altre aziende è solo l'inizio.
Forse l'unica via per superare questo grande inganno, questa nostra autodistruzione motivata dalla preferenza di ciò che è morto (la tecnologia) rispetto a ciò che è vivo (la natura), sta nell'accettare la miseria e lo schifo delle nostre vite per quello che è, con la consapevolezza che quello che c'è di bello è proprio all'interno dei limiti delle nostre deboli esistenze e dei nostri deboli sentimenti. Oltre quei limiti, non c'è nulla, se non la seduzione di ciò che non c'è e che mai potrà esserci.
Anche la ricerca della felicità, ammesso che essa possa avere qualche significato nel piano infernale dell'esistenza in cui, come genere umano, ci ritroviamo, ha senso soltanto entro tali limiti, oltre i quali ci saranno soltanto disperazione e stridore di denti, a causa della nostra non-volontà di accettare la vita per quello che è. Se ponessimo fine alla nostra cruenta e inutile guerra contro la natura e i suoi limiti, forse saremmo già felici.
Oserei dire che la felicità inizia con l'accettazione della sofferenza e delle sue molteplici forme, malattie e morte comprese. Del resto, i saggi e i santi non hanno mai rifiutato i dolori fisici ed emotivi. Ne abbiamo un'infinità di esempi, per chi li vuol vedere. Le loro vite sembrano creare una sovrapposizione tra le parole "felicità" e "fede", ma le parole sono troppo limitate e solo l'esperienza vissuta è maestra.
Stiamo attenti alle nostre illusioni e alle sofferenze inutili che ne derivano.
(10 ottobre 2024)
Il concetto di Sé nel buddismo e di Anima nella filosofia occidentale
L'idea di un "Sé" o di un'"Anima" è centrale nelle riflessioni filosofiche e spirituali sia dell'Oriente che dell'Occidente. Nel Buddismo, il concetto di Anatta (Pali) o Anatman (Sanscrito), traducibile come "non-sé", sfida l'idea di un'entità permanente, mentre la filosofia occidentale ha spesso sostenuto l'esistenza di un'anima immortale e individuale.
Il Sé nel Buddismo
Secondo gli insegnamenti buddisti, ciò che percepiamo come "sé" è in realtà un insieme di fenomeni in continua evoluzione.
Il Budda disse: “Ho insegnato una cosa e una sola: la sofferenza e la fine della sofferenza”. I suoi insegnamenti sull'anātman sono improntati su questa linea. Nel "Anattalakkhaṇa Sutta" (secondo discorso pubblico del Budda dopo la sua illuminazione), egli affermò:
"Tutti i fenomeni sono privi di un sé; quando ciò viene compreso con saggezza, allora si abbandona la sofferenza."
All'epoca del Budda, la ricerca spirituale era in gran parte vista come la ricerca dell'identificazione e della liberazione del vero Sé di una persona. Tale entità era considerata la natura interiore permanente di una persona, la fonte della vera felicità e il “controllore interiore” autonomo delle azioni, degli elementi interiori e delle facoltà di una persona. Dovrebbe anche avere il pieno controllo di se stesso. Nel brahmanesimo, questo ātman era visto come un Sé universale identico a Brahman, mentre nel giainismo, ad esempio, era visto come il “principio-vita” individuale (jīva). Il Budda sosteneva che tutto ciò che è soggetto al cambiamento, tutto ciò che è coinvolto nella disarmonia del dolore mentale, tutto ciò che non è autonomo e totalmente controllabile dalla volontà propria o del proprietario, non può essere un vero Sé perfetto o ciò che in qualche modo gli appartiene. Inoltre, considerare qualsiasi cosa come tale significa porre le basi per molte sofferenze; infatti, ciò che si considera con affetto il proprio Sé permanente ed essenziale, o il suo possesso sicuro, in realtà cambia in modi indesiderati.
Sebbene le Upaniṣad (testi filosofici e spirituali dell'antica tradizione indiana che esplorano la natura della realtà ultima "Brahman", del sé "Ātman" e della liberazione spirituale "mokṣa") riconoscessero molte cose come non-Sé, ritenevano che si potesse trovare un vero e proprio Sé. Ritenevano che, una volta trovato e riconosciuto come identico a Brahman, la base di tutto, questo avrebbe portato alla liberazione. Nei Sutra buddisti, invece, tutto è visto come non-Sé, persino il Nirvana. Quando questo viene conosciuto, la liberazione - il Nirvana - viene raggiunta attraverso il totale non-attaccamento. Quindi sia le Upaniṣad che i Sutra buddisti vedono molte cose come non-Sé, ma i Sutra lo applicano a tutto.
L'insegnamento sui fenomeni come non-Sé non intende solo minare i concetti brahmanici o giainisti di Sé, ma anche concezioni molto più diffuse e sentimenti radicati di Io. Sentire che, per quanto si cambi nella vita dall'infanzia in poi, una parte essenziale rimane costante e immutata come il “vero io”, significa credere in un Sé permanente. Agire come se solo gli altri morissero e ignorare l'inevitabilità della propria morte significa agire come se si avesse un Sé permanente. Mettere in relazione i fenomeni mentali mutevoli con un Sé sostanziale che li “possiede” - “sono preoccupato ... felice ... arrabbiato” - significa avere un tale concetto di Sé. Costruire un'identità basata sul proprio aspetto corporeo o sulle proprie capacità, o sulle proprie sensibilità, idee e credenze, azioni o intelligenza, ecc., è considerarle parte di un “Io”.
Il Budda accettava molti usi convenzionali della parola “sé”, come “te stesso” e “me stesso”. Questi li considerava semplicemente dei modi convenienti per riferirsi a un particolare insieme di stati mentali e fisici. Ma all'interno di questo sé convenzionale ed empirico, egli insegnava che non si poteva trovare un Sé metafisico permanente, sostanziale e indipendente. Questo è ben spiegato da una delle prime monache, Vajirā: come la parola “carro” è usata per indicare un insieme di oggetti in relazione funzionale, ma non una parte speciale di un carro, così il termine convenzionale “un essere” è propriamente usato per riferirsi ai "pañca skandha" (cinque aggregati) in relazione tra loro. Nessuno di tali skandha è un “essere” o un “Sé”, ma questi sono semplicemente etichette convenzionali usate per indicare l'insieme dei skandha funzionanti.
I cinque skandha, o cinque cumuli o cinque aggregati, sono cinque aggregati psicofisici che, secondo la filosofia buddista, sono alla base dell'affermazione del sé. Essi sono:
- rupa-skandha - aggregato della forma
- vedana-skandha - aggregato delle sensazioni
- saṃjñā-skandha - aggregato di riconoscimento, etichette o idee (percezione, cognizione)
- saṃskāra-skandha - aggregato di formazioni volitive (desideri, volontà e tendenze)
- vijñāna-skandha - aggregato della coscienza
I cinque skandha sono essenzialmente un metodo per comprendere che ogni aspetto della nostra vita è un insieme di esperienze in continua evoluzione. Non esiste un aspetto veramente solido, permanente o unico. Tutto è in movimento. Tutto dipende da molteplici cause e condizioni.
L'insegnamento del non-Sé non nega la continuità del carattere nella vita e, in una certa misura, da una vita all'altra. Ma i tratti persistenti del carattere sono semplicemente dovuti al ripetersi di certi citta, o “atteggiamenti mentali”. Il citta nel suo complesso viene talvolta definito un “sé” (empirico), ma mentre questi tratti caratteriali possono essere duraturi, possono comunque cambiare e cambiano, e quindi sono impermanenti, e quindi “non-Sé”, insostanziali.
Una “persona” è un insieme di processi mentali e fisici in rapida evoluzione e interazione, con modelli caratteriali che si ripresentano nel tempo. Su questi processi si può esercitare un controllo solo parziale: quindi spesso cambiano in modi indesiderati, portando alla sofferenza. Essendo impermanenti (e dolorosi), non possono essere un Sé permanente.
Le diverse scuole buddiste hanno interpretato l'Anatta, cioè il non-Sé, in modi vari. Il Theravada sottolinea la pratica della meditazione e l'analisi dei fenomeni per realizzare l'assenza di un sé. Il Mahayana, invece, attraverso testi come i "Prajñāpāramitā Sutra" (è una raccolta di circa quaranta testi composti in India tra il 100 a.C. e il 600 d.C. circa), introduce il concetto di vacuità (śūnyatā), estendendo l'assenza di essenza intrinseca a tutti i fenomeni. Su questo tema, rimando i miei lettori ad un approfondimento su Nagarjuna, che ho già estesamente trattato in questo blog.
Vale comunque la pena di notare che una parte del buddismo contemporaneo, che potremmo definire "occidentalizzato" e "iper-semplificato", sembra ignorare del tutto questi concetti fondanti del pensiero buddista, aderendo più all'idea dell'Anima, come storicamente intesa in Occidente, che al non-Sé come insegnato dal Budda.
L'Anima nella filosofia Occidentale
In Occidente, l'idea di un'anima immortale ha radici profonde nella filosofia greca e nella tradizione giudaico-cristiana. Platone (428-348 a.C.) sosteneva che l'anima è eterna e preesiste al corpo. Nel dialogo "Fedone", discute l'immortalità dell'anima e la sua capacità di accedere al mondo delle idee pure.
Aristotele (384-322 a.C.), allievo di Platone, offre una visione diversa. Nel suo trattato "De Anima", definisce l'anima come la forma del corpo, il principio che dà vita e funzionalità all'organismo. Per Aristotele, l'anima non può esistere separatamente dal corpo, differenziandosi così dal dualismo platonico.
Con l'avvento del Cristianesimo, l'anima assume una dimensione morale e trascendente. Sant'Agostino (354-430) combina la filosofia platonica con la teologia cristiana, enfatizzando la natura immateriale e immortale dell'anima, destinata al giudizio divino. Nelle "Confessioni", esplora la relazione tra l'anima e Dio.
Nel Medioevo, San Tommaso d'Aquino (1225-1274) integra il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana. Nella "Summa Theologiae", argomenta che l'anima razionale è la forma sostanziale del corpo umano, immortale e capace di esistere indipendentemente dopo la morte.
In epoca moderna, René Descartes (1596-1650) propone il dualismo cartesiano, separando nettamente mente e corpo. Nel "Meditazioni Metafisiche", afferma: «Io penso, dunque sono». Per Descartes, l'anima (mente) è una sostanza distinta dal corpo fisico, capace di esistere indipendentemente.
Confronto tra le due prospettive
Il Buddismo e la filosofia occidentale offrono visioni contrastanti sulla natura del sé o dell'anima. Nel Buddismo, l'assenza di un sé permanente è fondamentale per liberarsi dalla sofferenza. L'attaccamento all'idea di un sé immutabile è visto come illusorio e fonte di dolore.
Al contrario, la filosofia occidentale tradizionale considera l'anima come essenza dell'identità personale, fondamentale per questioni etiche, morali e metafisiche. L'idea di un'anima immortale ha influenzato profondamente concetti come responsabilità morale, vita dopo la morte e salvezza.
Comprendere queste differenze arricchisce il dialogo interculturale e offre strumenti per riflettere sulla nostra identità, sul significato della vita e sul percorso verso la saggezza.
(2 ottobre 2024)
Navigare la dualità della vita
Mentre la Via di Mezzo di Nagarjuna ci offre l’opportunità per camminare tra lo spazio indefinito che si trova tra l’esistenza e la non esistenza, rigettando la fondatezza di entrambe, e al contempo non potendola negare, in una sorta di uscita dalla dualità, il mondo duale in cui siamo immersi va avanti secondo le regole dello scontro tra i poli della dualità. Rifuggire questa realtà significa rifiutare l’esperienza della vita.
Detto in altri termini, la nostra presenza in questo mondo, qualunque ne sia la ragione e missione, ha bisogno di accettare le regole della materialità, dell'apparente separazione duale e dello scontro tra entità interdipendenti se vuole trovarsi nella condizione di poter agire, apprendere e seguire il proprio daimon senza essere annientata troppo presto.
In parole più grezze e brutali, la guerra, cioè il suddetto scontro tra entità interdipendenti, è uno dei fondamenti dell’esistenza umana, sia a livello storico che personale. Sia ben inteso, non è l’unico pilastro esistenziale, altrimenti come specie ci saremmo già estinti pochi attimi dopo la nostra comparsa in questo mondo. La guerra è un principio di base, radicato nella dualità, che non può essere negato, a meno che non si voglia negare la vita stessa su questo piano materiale. Nel qual caso, tanto sarebbe valso non incarnarsi o reincarnarsi, ammesso che di scelta si sia trattato.
A ben vedere, però, anche negli altri e alti piani dell’esistenza è guerra. Se volessimo fare un riferimento alla tradizione ebraica, basterebbe notare che l'arcangelo Mika'el è a guida delle schiere celesti in battaglia. Nella teologia cristiana, gli angeli sono anche guerrieri, nella misura in cui ciò fa parte del loro ruolo di proteggere e servire Dio e i suoi disegni: arcangeli, cherubini, angeli del Signore e schiere celesti sono tutte forze guerriere. Non voglio dilungarmi in esempi di altre tradizioni culturali, che comunque abbondano. In generale, il concetto di battaglia tra il bene e il male, non solo spirituale ma anche armata, è spesso rappresentato da forze soprannaturali o divine pronte a proteggere l’ordine cosmico. I ruoli di “bene” e di “male” possono anche essere più o meno legittimamente invertiti, nel senso che possiamo anche considerarli come etichette arbitrarie di due fazioni in lotta, però la guerra è necessaria, appunto, per l’ordine cosmico. Ciò è sorprendente, ma al contempo dà ragione di essere alle parti in lotta: l’esistenza di una parte in guerra dipende dall’esistenza del suo avversario. Ne segue che la guerra non potrà mai essere vinta o persa in senso definitivo, almeno fino alla fine dei tempi. Cessata la guerra, cesserà anche il cosmo.
Prospettive simili si trovano anche Bhagavadgītā, in cui Krishna (incarnazione del dio Vishnu, colui che preserva l'ordine cosmico) spiega ad Arjuna (il più valoroso tra i guerrieri Pandava) che la sua partecipazione alla guerra è un dovere divino (dharma). Arjuna si trova in un dilemma morale prima della grande battaglia di Kurukshetra, poiché deve affrontare i suoi stessi familiari, amici e maestri sul campo di battaglia. Krishna, però, gli insegna che il suo dovere (dharma) come kṣatriya, ovvero come guerriero, è combattere per la giustizia, senza attaccamento ai risultati delle sue azioni. Però, gli spiega anche che:
«Chi pensa che l'entità vivente sia l'uccisore o che venga uccisa non capisce. Chi è in conoscenza sa che il sé non uccide e non viene ucciso. Per l'anima non c'è mai nascita né morte. Né, essendo stata una volta, cessa di essere. È non nata, eterna, sempre esistente, imperitura e primordiale. Non viene uccisa quando il corpo viene ucciso»
(Bhagavadgītā 2:19-20).
Krishna sottolinea anche che i concetti di bene e male, piacere e dolore sono dualità che l'uomo deve trascendere:
«O figlio di Kunti, il contatto tra i sensi e gli oggetti sensoriali dà luogo a percezioni fugaci di felicità e angoscia. Queste non sono permanenti e vanno e vengono come le stagioni invernali ed estive. O discendente di Bharat, bisogna imparare a tollerarle senza essere disturbati. O Arjuna, il più nobile tra gli uomini, la persona che non è influenzata dalla felicità e dall'angoscia e rimane stabile in entrambe, diventa idonea alla liberazione»
(Bhagavadgītā, 14-15).
La liberazione, o mokṣa, a cui Krishna fa riferimento, è la liberazione dal ciclo di nascita e morte (saṃsāra). Secondo questa prospettiva, ciascuno di noi deve entrare in guerra, ma accettando con equanimità tutto ciò che accade, senza desiderio né avversione.
Tornando alle nostre guerre terrestri, meno mitologiche, meno romanzate, meno “da interpretare spiritualmente” e purtroppo ben più deplorevoli, ripugnanti e pericolose per l’intero ecosistema, sia ben chiaro che non sto facendo un elogio alla violenza, né legittimando le barbarie attuali o del passato. Ne sto soltanto osservando l’ineluttabilità.
Basterebbe notare che per vivere occorre mangiare, cioè uccidere, e ciò vale anche per gli erbivori e per le creature più miti e innocue. La vita stessa è violenta per tutti i limiti, le angosce e le stringenti necessità che ci impone, e non c’è creatura che non conosca o che non abbia conosciuto una sofferenza atroce. I propositi di non-violenza, cari a tradizioni come il buddismo e ancor di più al jainismo, nascono proprio da questa consapevolezza, e mi auguro che nei nostri cuori essi siano sempre benvenuti.
Purtroppo, però, per come è fatto il mondo e per tutti i vincoli e le necessità che ci impone, la non-violenza rimane un ideale non raggiungibile. Prendiamo un’eccezione storica come Gandhi, che è problematica da più punti di vista:
«Gandhi aveva paura di presenze invisibili e del buio, perché il daimon che teneva in mano il suo destino sapeva delle cariche coi manganelli della polizia indiana e dei tentativi di linciaggio in Sudafrica, delle lunghe carcerazioni in celle buie, e sapeva che la morte sarebbe stata la sua costante compagna di strada. Nella sceneggiatura di Gandhi era scritto il suo assassinio»
(James Hillman, Il codice dell’anima, p. 44, ISBN 9788845923630).
La non-violenza di Gandhi non si è forse tradotta in violenza verso se stesso, e violenza subita da coloro che lo seguivano, con spargimenti di sangue e morti? La dedizione totale di Gandhi alla causa della liberazione dell'India ha inevitabilmente avuto ripercussioni sulle persone a lui più vicine, in particolare sulla sua famiglia. Ci si potrebbe dunque chiedere se il suo impegno pubblico, che lo portò a sacrificare molti aspetti essenziali della sua vita privata, possa essere considerato una forma di sofferenza (violenza?) imposta ai suoi cari, soprattutto al figlio Harilal, il quale ebbe una vita tormentata, segnata dall'alcolismo. La realtà è che le situazioni umane sono sempre più intricate di quanto appaia a prima vista, e le conseguenze delle scelte individuali possono essere ambivalenti e contraddittorie.
«Comunque sia, sono passati più di ventidue secoli dalla morte del Tathagata. Le cinque impurità hanno prosperato e ormai da molti anni, in tutte le situazioni, le buone azioni sono diventate estremamente rare. Siamo in un’epoca in cui, se anche una persona fa del bene, compiendo una buona azione ne accumula dieci cattive; in definitiva, facendo un piccolo bene commette un gran male, eppure in cuor suo si vanta di aver praticato un “gran bene”»
(Nichiren Daishonin, Gosho “La recitazione dei capitoli Espedienti e Durata della vita").
Qui Nichiren descrive la complessità morale della nostra epoca: anche se cerchiamo di fare il bene, a causa delle circostanze della vita, dei vincoli, delle necessità, e della corruzione che pervade il mondo, i nostri buoni propositi sono contaminati dal male. Nonostante le buone intenzioni, finiamo inevitabilmente per compiere azioni che sono in qualche modo negative. I vincoli sociali e materiali, e i limiti della nostra stessa natura, rendono impossibile il compimento di un bene puro, non-violenza compresa.
Essendo strutturato in questo modo contraddittorio e caotico il nostro piano materiale, la nostra mente, per evitare di essere sovraccaricata da tale enorme e ingestibile complessità, adotta spesso un pensiero “euristico”, ovvero utilizza scorciatoie mentali per prendere decisioni rapide. Questi processi semplificati, però, ci portano a vedere il mondo attraverso schemi rigidi e polarizzati. Ad esempio, tendiamo a categorizzare le persone e le situazioni in termini di opposti: buono/cattivo, forte/debole, amico/nemico. Questi costrutti, pur essendo in parte funzionali alla nostra sopravvivenza in molte situazioni, sono illusori, riduttivi e fuorvianti, e come cattivi amici ci accompagnano in una lotta continua per primeggiare, perché sentiamo, più o meno inconsciamente, di essere sempre in grave pericolo.
Le anime più evolute intenderanno tale lotta per primeggiare soprattutto a livello interiore, e cercheranno di ripulire la propria anima e il proprio intelletto da tutta la sporcizia spirituale che questo mondo ci getta addosso. Tali anime cercheranno la liberazione dalla paura, dal desiderio e dall’avversione, e faranno il possibile per non lasciarsi domare dagli inganni e della vanagloria. Non si esalteranno nel successo né si avviliranno nei fallimenti, e manterranno un cuore compassionevole e grato.
La maggior parte di noi, però, intenderà la lotta per primeggiare non tanto come l’impegno a domare e a far evolvere la propria mente instabile e sprovveduta, ma come la distruzione del proprio prossimo, fin dove le regole sociali, legali ed economiche lo consentiranno, a meno di non sfociare nella criminalità o nella guerra armata nuda e cruda. Sarà una gara al massacro, in cui si ritroveranno coinvolte anche le anime più pie ed equilibrate, che saranno annientante se non eserciteranno una qualche forma di “potere” da un alto, e se dall’altro non accetteranno il “dominio” del più forte, nel senso di aggressivo e violento. Questa si chiama “guerra”. Ed è guerra dal concepimento, pur per quanto esso sia auspicabilmente il frutto di uno dei massimi atti di amore, fino alla morte. E anche oltre.
Fin qui abbiamo discusso della guerra come connaturata alla vita e del rifiuto della guerra come rifiuto della vita. Può essere molto difficile da accettare, se esplicitato in questi termini così duri. Ciò sembrerebbe in netto contrasto con l'insegnamento di Gesù, che predicava l'amore per i nemici:
«Ma io vi dico: Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi maltrattano e vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro, che è nei cieli, poiché egli fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i malvagi, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Perché, se amate coloro che vi amano, che premio ne avrete? Non fanno altrettanto anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno altrettanto anche i pubblicani? Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro, che è nei cieli»
(Matteo 5, 44-48).
In realtà, la tradizione cristiana, in particolare con il Padre della Chiesa Sant'Agostino e il Dottore della Chiesa San Tommaso d'Aquino, ha considerato la guerra come moralmente giustificata in determinate circostanze, considerandola come una “concessione alle imperfezioni del mondo”, cioè un male necessario. In un articolo del 30 aprile 2018 di Disputationes Theologicae (piattaforma accademica e scientifica di stampo cattolico tradizionalista), leggiamo:
«[...] E qui emerge un altro aspetto troppo spesso dimenticato, ovvero il dovere di amare il prossimo fino al punto di dichiarargli guerra. Per il suo bene. Ovvero togliergli la libertà di fare il male impunemente e soprattutto sottrargli quella tranquilla felicità di malfattore, che rafforza la spavalderia degli impuniti e la loro mala volontà, può essere un gesto d’amore. [...]».
Nell'ebraismo esiste il concetto di milkhemet mitzvah (“guerra comandata”). Nell'Islam, la Jihad si riferisce a uno “sforzo” o “lotta” sulla via di Dio e può riguardare sia una lotta spirituale interna (il “grande jihad”) sia una lotta esterna, che può includere il combattimento armato (il “piccolo jihad”). Anche l'induismo riconosce la necessità di combattere in certe situazioni. Buddisti e jainisti rifiutano la guerra come legittima in qualsiasi circostanza, almeno in teoria.
Purtroppo abbiamo dei controesempi storici nel caso dei buddisti. Ad esempio, in Giappone, durante il periodo medievale, alcuni monasteri buddisti (soprattutto quelli della scuola Tendai e della setta buddista guerriera Sohei) avevano veri e propri eserciti monastici. I monaci guerrieri (sohei) divennero noti per il loro coinvolgimento in conflitti armati. Questi monaci partecipavano attivamente a scontri con altre fazioni buddiste o signori feudali. Fu anche per queste ragioni che Nichiren Daishonin, precedentemente citato, sostenne che il Giappone stava affrontando una crisi spirituale e politica a causa dell'abbandono degli insegnamenti buddisti corretti, ma non dilunghiamoci oltre.
La guerra non può essere evitata e la pratica della non-violenza non impedisce agli altri di farci violenza. Lo stesso Gandhi affermò che, sebbene preferisse la non-violenza come principio assoluto, tra la codardia e la violenza, la violenza è da preferirsi:
[...] Credo che nel caso che l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza. [...] E sempre per questo stesso principio mi sono dichiarato favorevole all’addestramento militare di coloro che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il suo onore piuttosto che, in modo codardo, divenisse o rimanesse testimone impotente del proprio disonore. [...]
[...] È difficile che un topo perdoni una gatta mentre viene fatto a pezzi da questa. [...]
(Estratti di “Young India”, rivista settimanale fondata e gestita da Gandhi, 11 agosto 1920. L'articolo completo si intitola "The Doctrine of the Sword", suggerisco di leggerlo nella sua interezza per contestualizzare ed evitare fraintedimenti)
Però, se riconosciamo la natura illusoria del nostro piano materiale, e l’inevitabile fine di ogni cosa che abbia inizio, cosa ne sarà delle nostre guerre, delle nostre conquiste, delle nostre memorie? I nostri corpi, un tempo belli, giovani e capaci di attirare l’attenzione, prima o poi non saranno altro che putridume ripugnante, un covo di malattie, a cui seguiranno morte e decomposizione. Siamo costretti a fare la guerra, ma a quale scopo?
In cosa risiede il senso della nostra esistenza, se non nell’essere parte di una comunità, di qualcosa di più grande del nostro ego?
Se non fossimo protetti dall’altro principio che nella dualità è opposto alla guerra, cioè l’amore, le nostre esistenze semplicemente non sarebbero possibili.
(25 settembre 2024)
In guerra
Il centro del mondo?
Dopo l'ultimo articolo "La verità rende schiavi?", vorrei esplicitare i miei dubbi su quale sia il centro del mondo. Da sempre, in tutti i planisferi che ho visto, l'Europa è al centro e in alto, con l'Italia in una posizione fondamentale. Al tempo della scuola, feci notare ai miei insegnanti che questa rappresentazione mi sembri, allora come oggi, abbastanza forzata e non necessaria.
Ad esempio, se fossi nato nella Corea del Nord, non sarebbe questa il centro del mondo? Vediamo come potrebbe apparirmi:
Tale visione sarebbe tanto corretta quanto quella convenzionale usata nelle scuole italiane, è solo cambiato il punto di osservazione.
Anche limitandoci alla sola Europa, potremmo scegliere di posizionare le nazioni sulla mappa in modo inconsueto, ma altrettanto valido:
Prima di proseguire oltre, vorrei solo aggiungere una piccola nota politica. In questa cartina con la Sicilia in alto, la Russia è correttamente inclusa tra i paesi europei, perché in effetti lo è. Il fatto che il mainstream stia trattando la Russia come se fosse un paese esterno dall'Europa geografica e politica è una falsità finalizzata alla propaganda di guerra. Volendo essere ancora più precisi, il continente geografico di cui facciamo parte si chiama Eurasia, come qui evidenziato nel mappamondo:
Il confine convenzionale negli Urali tra Europa e Asia è solo una costruzione politica fittizia. Non esiste infatti una separazione fisica chiara che possa giustificare la divisione di un'unica massa continentale, l'Eurasia, in due continenti distinti. I monti Urali non sono una barriera naturale significativa, sono montagne relativamente basse e non creano una divisione culturale o ecologica netta. Ma anche accettando tale confine, la Russia fa comunque parte dell'Europa.
Tornando alla nostra ricerca del centro del mondo, qualcuno potrebbe obiettare che invertire il Sud con il Nord, come nella precedente cartina dell'Europa, non terrebbe conto che l'ordinamento convenzionale dei punti cardinali è stato favorito dall'uso generalizzato della bussola magnetica e dal bisogno di avere una convenzione uguale per tutti. La mia risposta è che queste sono argomentazioni molto deboli. In realtà nessun popolo vorrebbe posizionare se stesso ai "confini" del mondo, mettendo al centro altri.
L'alto e il basso, la sinistra e la destra possono essere non soltanto invertiti, ma anche completamente sovvertiti, come in questa proiezione bidimensionale del globo inventata da Buckminster Fuller nel 1946:
A proposito del centro del mondo, qualcuno ha osservato con attenzione il logo delle Nazioni Unite? Suggerisco di notare come appaiono Stati Uniti e Russia:
La nostra percezione geografica è fortemente falsata dalla rappresentazione dei planisferi comunemente utilizzati nelle scuole, che spesso mostrano il mondo in una proiezione di Mercatore. In questa rappresentazione, gli Stati Uniti si trovano a sinistra e la Russia a destra, creando l'impressione che questi due paesi siano molto distanti tra loro. Tuttavia, questa percezione è ingannevole a causa della distorsione delle distanze che caratterizza questo tipo di proiezione cartografica.
In realtà, come è evidente dal logo dell'ONU, gli Stati Uniti e la Russia sono molto più vicini di quanto la maggior parte delle persone immagini, in pratica "si toccano". La distanza minima tra Russia e Stati Uniti è di soli 3,7 chilometri, e si trova nello Stretto di Bering (che è di 82km), tra l'isola Piccola Diomede (che appartiene agli Stati Uniti) e l'isola Grande Diomede (che appartiene alla Russia). Durante l'inverno, lo stretto può congelare parzialmente, rendendo teoricamente possibile camminare da un continente all'altro. Quest'altra cartina dovrebbe rendere molto più evidente la vicinanza geografica tra le due superpotenze:
Questo stretto legame geografico tra i due paesi sottolinea come le distanze percepite siano spesso influenzate più dalla rappresentazione cartografica politicamente finalizzata che dalla realtà geografica.
Tra l'altro, mentre Piccola Diomede segue il fuso orario dell'Alaska (UTC-9 o UTC-8 a seconda dell'ora legale), Grande Diomede segue il fuso orario della Russia (UTC+12). Di conseguenza, si crea una differenza di circa 21 ore tra le due isole. Ciò evidenzia come pure i fusi orari, al pari delle carte geografiche, siano una convenzione artificiale stabilita per facilitare un certo tipo di ordine globale. Lo ripeto: circa 4km di distanza e 21 ore di differenza.
Del resto, non è stata un'idea colonialista ed eurocentrica aver scelto il meridiano di Greenwich come riferimento per tutto il mondo nel 1884 alla Conferenza Internazionale Dei Meridiani? Dal punto di vista di molte nazioni non europee, questa scelta può essere vista come un'imposizione dei valori e delle pratiche europee sul resto del mondo. In questo senso, il sistema dei fusi orari, centrato su Greenwich, riflette non solo una convenienza scientifica e logistica, ma anche l'influenza delle dinamiche di potere globali di quel tempo. Fra l'altro, fu in quella conferenza che l'inizio di ogni giorno fu fissato alla mezzanotte: anche questa è una convenzione opinabile.
Per concludere questa riflessione sul centro del mondo, che i meridiani, le carte geografiche e la storia hanno finora collocato nell'Europa e più nello specifico nella Gran Bretagna, come del resto è evidente dal fatto che l'inglese è l'unica lingua considerata e imposta come internazionale, vorrei portare l'attenzione su come America Latina, Australia e Africa possano improvvisamente sembrare le zone del mondo più importanti. Basterebbe infatti "correggere" il planisfero per accordarlo al fine politico desiderato:
Proviamo a cercare l'Italia... c'è, ma non è così centrale come ci insegnano a scuola... anzi, le stesse terre emerse non sono più così centrali. Una tale rappresentazione difficilmente piacerà, però è realistica: la superficie terrestre è composta da circa il 29% di terre emerse e il 71% di oceani, anche se generalmente tutte le altre cartine fanno il possibile per non renderlo troppo evidente.
(14 agosto 2024)
La verità rende schiavi?
Se la verità fosse una luce camaleontica inafferrabile proiettata dalla nostra mente, allora saremmo liberi di pensare e di percorrere l’eterna strada della ricerca di un senso della vita e delle cose. Sarebbe un cammino molto interessante senza un punto di arrivo, ma solo con l'inevitabile certezza della trasformazione e della morte. Poi, quel che avverrà durante e dopo la morte, sarà a libera scelta in base al proprio credo e ai propri bisogni. In assenza di qualsiasi verità, saremmo liberi.
Discorso ben diverso se la verità fosse invece un punto luminoso stabile ed esterno, non prodotto dalla nostra mente ma da essa osservabile. Ciò la renderebbe un riferimento che più verrebbe da noi compreso e interiorizzato, e minore spazio di libertà ci lascerebbe. In tale scenario, l’ipotetica comprensione totale della verità coinciderebbe con l’annullamento del pensiero personale, il quale non avrebbe altra scelta se non quella di coincidere con la verità stessa. Nel migliore dei casi potrebbe essere un’esperienza mistica se corrispondesse al superamento del proprio ego, ma è abbastanza raro che ciò accada. L'adesione a verità esterne porta invece solitamente a fenomeni sociali deludenti e mediocri, comuni nel sistema educativo e nel mainstream e, come reazione uguale e contraria, nel web e nei social. Potremmo sintetizzare tali fenomeni in questo modo:
- “Complottismo” come nuova religione → E' il punto di vista di chi crede alle più svariate teorie, alternative o mainstream che siano, in modo acritico e fideistico e senza sentire ragioni di sorta, esibendo un atteggiamento maniacale e paranoico. Per fare un esempio, chi crede nei Santi Vaccini vedendo i non vaccinati come gli untori del 1630 di manzoniana memoria (teoria mainstream), non è molto diverso da chi crede che il governo e la scienza ufficiale siano “sempre” entità malevole che nascondono “sempre” la verità alla popolazione (teoria alternativa dei social). In entrambi i casi della teoria mainstream e della teoria alternativa dei social, si manifesta una sorta di fideismo cieco che porta a interpretare la realtà attraverso il filtro di una narrazione totalizzante, nella quale ogni evento o dato viene piegato per conformarsi alla teoria di base, senza alcuno spirito critico. Questo atteggiamento è caratteristico di una forma di “religiosità” moderna, dove la fede non è più rivolta a divinità trascendenti, ma a costruzioni ideologiche che danno senso e ordine a un mondo percepito come caotico e minaccioso. Il complottismo, in quest’ottica, non è solo una questione di credere o meno a determinate teorie, ma rappresenta un modo di stare al mondo, di definire il bene e il male, e di trovare un'identità in un'epoca di incertezze e rapide trasformazioni.
- “Negazionismo” → E' l'atteggiamento storico-politico che, a fini ideologici e di utilità di parte, nega contro ogni evidenza l'accadimento di fenomeni storici o scientifici ben documentati, ma senza portare alcuna documentazione o esperienza empirica di tipo contrario e senza dubitare minimamente del proprio punto di vista. Anche in questo caso riscontriamo il negazionismo sia nelle teorie mainstream che in quelle social. Ad esempio, negare che i vaccini causino aumento della mortalità per tutte le cause, autismo, danni neurologici gravi e altre cause di invalidità permanente è una teoria negazionista del mainstream. Viceversa, negare che le bombe atomiche siano mai state sganciate su Hiroshima e Nagasaki durante la Seconda Guerra Mondiale è una teoria negazionista social. I sostenitori di questa teoria affermano che i resoconti ufficiali riguardanti l'uso delle armi nucleari siano stati esagerati o completamente fabbricati dagli Stati Uniti per intimidire l'Unione Sovietica e il resto del mondo, consolidando la loro posizione di potenza mondiale nel dopoguerra. Secondo loro, le immagini e le testimonianze delle esplosioni atomiche sarebbero state manipolate o falsificate. In generale, mentre il negazionismo del mainstream si basa sulla difesa a oltranza e contro ogni evidenza di interessi di parte, il negazionismo social si basa, come reazione uguale e contraria, su una combinazione di revisionismo storico estremo e sfiducia totale verso le istituzioni governative.
- “Sensazionalismo” → E' la tendenza a divulgare fatti e notizie, per lo più esagerandoli, allo scopo di suscitare un notevole interesse nell'opinione pubblica. In questo caso, l’obiettivo del mainstream e dei social è identico, cioè fare pubblico per guadagnare più soldi. Ciò porta facilmente alla falsificazione o quantomeno ad una distorsione della realtà. Prendiamo come esempio i tumulti di Capitol Hill negli Stati Uniti del 6 gennaio 2021 e quelli avvenuti in Brasile l'8 gennaio 2023. Sono esempi significativi di violenza politica, con morti. Entrambi gli eventi hanno visto sostenitori di ex presidenti, rispettivamente Donald Trump e Jair Bolsonaro, attaccare le istituzioni governative per protestare contro i risultati elettorali, spinti da accuse di frode, fondante o non che siano. Tuttavia, è facile e semplicistico concentrarsi solo sui video di questi tumulti per suscitare reazioni emotive e fare pubblico, senza un'analisi approfondita delle cause, dei retroscena, delle conseguenze e degli interessi di parte che li hanno generati e che da essi ne hanno tratto profitto.
- “Narcisismo” → E' la tendenza sia esteriore, sia l'atteggiamento psicologico interiore, di compiaciuta ed eccessiva ammirazione di se stessi. Anche in questo caso, social e mainstream si equivalgono nell’amplificare il narcisismo, anche se ovviamente cambiano i soggetti. Mentre il mainstream tende ad amplificare il narcisismo di personaggi insulsi e incapaci che fanno comodo alle politiche governative, i social sono costruiti per amplificare il narcisismo di chiunque sia capace di raccattare followers. Preferisco astenermi dal riportare esempi specifici, però possiamo fare una considerazione generale. Le persone manifestano una forma di egoismo profondo di cui di solito non sono consapevoli, con un'evidente concentrazione su se stessi negli scambi interpersonali ed un’incapacità di vedere il mondo dal punto di vista degli altri. E’ l'atteggiamento di chi pone se stesso e la propria problematica al centro di ogni esperienza, trascurando la presenza e gli interessi degli altri.
Detto ciò, sia ben chiaro che i miei dubbi vanno a sistema di pensiero “basato sulla conoscenza della verità”, che solitamente si contrappone ad altre “verità” anch’esse declamate in modo forzato e spesso disturbante. Mi rendo conto che nelle definizioni precedenti ho scelto alcuni esempi molto problematici, e l’ho fatto di proposito per suscitare una riflessione. Sono solo un modo per esternare come questi temi possano apparire da un determinato punto di vista, ma è evidente che ciò che è da ritenersi complottismo o negazionismo può essere descritto con esempi contrapposti ai miei, se il punto di osservazione cambia.
Comunque, tra “dubitare” di un’idea e “affermare il contrario” ce ne corre. Una persona che tendenzialmente “dubiti”, infatti, si lascerebbe molte strade aperte e sarebbe libera di cambiare idea o percorso di vita se lo volesse. Chi vive nelle “certezze”, invece, ne è schiavo.
I miei lettori potrebbero criticarmi per aver messo sullo stesso piano di complottismo, sensazionalismo, negazionismo e, forse, anche di analfabetismo funzionale e di incapacità di deduzioni logiche coerenti sia l’informazione ufficiale, scolastica e accademica, sia quella alternativa dei social e del web. E’ esattamente ciò che sto cercando di esprimere.
Andiamo di più nello specifico per evitare fraintendimenti. Chiunque potrebbe contestarmi che «se “a” fosse maggiore di “b” e “b” fosse maggiore di “c”, come potrei legittimamente dubitare che “a” non sia maggiore di “c”»? Detta così sarebbe infatti una verità che inchioda, una di quelle incontestabili e senza spazio per argomentazioni alternative, ma non è di questo tipo di ragionamenti logico-deduttivi che sto dissertando, anche perché la matematica non è portatrice di verità, ma solo di opportune affermazioni ricavate da assiomi che, per loro natura, hanno un valore che trascende quello della verità o della falsità.
La matematica è estremamente utile e potente se usata con giudizio e senza inganni, ma non è vera, né falsa.
Ad esempio, la matematica dei popoli precolombiani, come quella dei Maya e degli Aztechi, aveva alcuni presupposti e sistemi di numerazione e geometrici diversi da quelli da noi conosciuti. I Maya utilizzavano un sistema vigesimale (basato sul numero 20) anziché il sistema decimale. Anche la loro comprensione della geometria era diversa. Mentre la nostra geometria euclidea si basa su concetti come linee rette e angoli, i Maya e gli Aztechi svilupparono una geometria basata su forme naturali, come le curve e i cicli (cioè pattern ricorrenti o periodici osservati in natura, in particolare quelli legati all'astronomia e al tempo). La loro geometria si rifletteva nei disegni architettonici e urbanistici. I templi e le città erano infatti spesso disegnati in base a principi geometrici che riflettevano l’osservazione dei cicli astronomici e delle forme naturali. Questi strumenti matematici e geometrici erano estremamente utili per le loro esigenze astronomiche, agricole e religiose. Tuttavia, proprio come la nostra, la loro matematica e geometria non erano né vere né false in senso assoluto. Piuttosto, erano sistemi di conoscenza costruiti per rispondere alle specifiche esigenze culturali e pratiche della loro società.
Tutto ciò, tra l'altro, si tira spontamente dietro la domanda del perché questi popoli (erroneamente) considerati primitivi (dai colonialisti occidentali che non hanno esitato a sterminarli) fossero così interessati all'astronomia, visto che potrebbe sembrarci così distante dai problemi quotidiani. Evidentemente la nostra visione del mondo è significativamente diversa da quella che loro hanno avuto, pertanto la nostra non è generalizzabile e risulta alquanto limitata.
Stesso discorso per la fisica e la chimica. Qualcuno ha mai visto un elettrone? No, nessuno ne ha mai visto uno nel senso tradizionale del “vedere”, e ciò è reso impossibile dal fatto che tale particella subatomica ha dimensioni molto al di sotto della lunghezza d'onda della luce visibile. Ne diamo per scontata l’esistenza, e la fisica degli elettroni è estremamente utile e coerente con la nostra matematica e con le altre conoscenze correlate. Ma se avessimo un’altra fisica basata su un modello diverso dell’esistente, sorretta da un altro tipo di matematica, probabilmente avremmo risultati altrettanto utili senza bisogno di teorizzare l’esistenza degli elettroni.
E’ verosimile che altri popoli in altre parti dell’universo possano avere fisiche e matematiche diverse dalle nostre, ma ciò non le renderebbe più vere o più false delle nostre. A livello empirico, per dimostrarne l’esistenza basterebbe porre l'attenzione sul fatto che i velivoli alieni (osservati in tutto il mondo dai militari e dai piloti degli aerei di linea, con testimonianze talvolta molto dettagliate) volano senza propulsione e con accelerazioni impossibili per la fisica a noi conosciuta.
Un altro esempio di tipo storico sono le piramidi, sia in Egitto che in numerosi altri luoghi sparsi in tutto il pianeta: Sudan (Meroe), Messico (Teotihuacan, Chichen Itza, Uxmal), Guatemala (Tikal), Perù (Caral, Pachacamac), Cina (Provincia di Shaanxi), Cambogia (Koh Ker), Bolivia (Tiwanaku) e Iraq (Ur). Queste piramidi sono state costruite con blocchi di pietra impossibili da spostare con le nostre conoscenze e mezzi. Altri esempi analoghi sono le costruzioni in Perù come Machu Picchu, Sacsayhuamán, la Piedra de Sayhuite, le linee di Nazca e Ollantaytambo. Non sto ponendo l’attenzione sul fatto che siano opere umane o aliene (dubbio comunque legittimo), ma sul fatto che dimostrano i nostri limiti di conoscenza e il sicuro uso nei tempi antichi di matematiche e/o di ingegnerie diverse dalle nostre.
Discorsi simili valgono per i reperti archeologici che contraddicono le nostre conoscenze storiche o per le analisi di laboratorio i cui risultati sfuggono alla comprensione ordinaria. Ciò non significa che siano falsi, né possiamo presumere che siano necessariamente veri, possiamo solo affermare di avere dei seri limiti nella conoscenza. A tal proposito, gli "OOPArts" (Out Of Place Artifacts) sono reperti archeologici la cui datazione o collocazione risulta inspiegabile per le nostre conoscenze.
"Archeologia proibita" (Forbidden Archeology) è un libro scritto da Michael A. Cremo e Richard L. Thompson, pubblicato per la prima volta nel 1993. L'opera propone una visione non convenzionale della storia umana, suggerendo che l'uomo moderno potrebbe essere molto più antico (tre milioni di anni fa) di quanto indicato dalla scienza archeologica tradizionale (100.000 anni fa). I siti archeologici che producono tali evidenze, non solo sotto forma di reperti paleontologici, ma anche di manufatti, vengono dettagliatamente descritti e interpretati in questo saggio. Ciò che emerge è che con ogni probabilità non è esistita un'evoluzione del genere umano dall'Australopiteco all'Homo Sapiens, ma che al contrario uomini e ominidi hanno da sempre coesistito sulla Terra e che quindi la teoria evoluzionista della vita sul nostro pianeta, su cui si basano le odierne scienze naturali, non ha alcun fondamento certo. Del resto, la teoria di Darwin è stata fortemente strumentalizzata per fini politici e coloniali, ma l'essere umano è un evidente controesempio di tale teoria, giacché è una specie senza un habitat naturale specifico e senza un adattamento corporeo alla vita in natura in mezzo ai predatori.
Esistono comunque teorie alternative, dove "alternativo" non vuol dire "più vero", significa soltanto avere più strade di ricerca da percorrere. Nel 1969, Roger W. Wescott, allora professore ordinario di antropologia alla Drew University a Madison (New Jersey, Stati Uniti), scosse la comunità accademica con un libro in cui si sosteneva che la nostra evoluzione fosse legata a processi di domesticazione. In quel suo saggio The Divine Animal, lo studioso ipotizzava che antichi colonizzatori del nostro pianeta avessero effettuato pressioni selettive sugli ominidi, guidando nel tempo l'evoluzione umana, sia biologica che culturale. Wescott fece uno studio comparato di molte specie addomesticate, analizzando anomalie e caratteristiche biologico-comportamentali della nostra specie. A distanza di quasi cinquant'anni da quel primo studio, il biologo molecolare Pietro Buffa ha approndito la questione nel libro Resi umani. Da organismi scimmieschi all'ominide pensante. Una storia ancora da scrivere (2018).
Un altro esempio molto intrigante per mettere in dubbio le nostre attuali conoscenze è un caso documentato dal filmmaker Jeremy Corbell nel suo documentario Patient Seventeen. In estrema sintesi, il chirurgo Roger Leir ha rimosso piccoli oggetti dal corpo dei suoi pazienti la cui analisi isotopica ha dimostrato valori diversi da quelli terrestri. Stiamo parlando di oggetti che quindi non possono avere avuto origine nel nostro pianeta. Ma non voglio dilungarmi oltre, né discutere nel merito. E’ solo per dire che se cerchiamo controesempi che pongono interrogativi su ciò che crediamo di sapere, possiamo trovarne un’infinità. E’ però estremamente raro mettersi a cercare qualcosa che metta in dubbio le proprie idee o conoscenze, è molto più semplice farlo per fare polemica e additare gli altri.
Il problema non è studiare un argomento e farsi un’idea propria, il che sarebbe più che auspicabile, ma credere fermamente in un’idea precostituita o insegnata da altri. Ciò può provocare disastri, soprattutto quando quell’idea si presenta con la pretesa di universalità.
Se volessi dubitare che Cristoforo Colombo abbia avuto qualche merito nella conoscenza del continente americano, non sarebbe un grande problema, perché la storia è storicistica e un po’ romanzata. Potrei usare un dubbio del genere per fare una personale ricerca storica. Questo è proprio ciò che ha fatto lo storico Riccardo Magnani, secondo cui il continente oltreoceano era già conosciuto dall’Europa e frequentato ben prima del 12 ottobre 1492. A riprova, ha raccolto diverse mappe, dipinti e testimonianze inequivocabili. Non sto dicendo che lui abbia necessariamente ragione, dico soltanto che più idee e ricerche ci sono e meglio è.
Stesso discorso se mi ponessi la domanda se Napoleone abbia mai messo piede per davvero sull’Isola d’Elba, o se Cristo abbia mai detto una sola frase di quelle contenute nei Vangeli, o se Budda sia mai esistito. Tutti questi non sarebbero problemi. Io infatti sono buddista, ma ho seri dubbi sul fatto che Gautama Siddharta sia mai esistito o, ammettendo la sua esistenza, che i testi buddisti giunti a noi abbiano un qualche fondamento storico. Mi pare più verosimile che in ogni parte del mondo si siano sviluppati filoni di pensiero che, a un certo punto, abbiano sentito l’esigenza di inventarsi divinità o personaggi straordinari per legittimarsi e conferirsi autorità. Con ciò, però, non sminuisco minimamente la saggezza delle tradizioni millenarie, che per me hanno piena dignità.
Anzi, per essere più precisi, il “bisogno” di personaggi storicamente fondati e realmente vissuti come fondatori di determinati religioni è legato più alla ricerca di rassicurazioni interiori per le proprie credenze che alla storia intesa come ricerca e studio. Nell’antichità la questione è stata intesa molto diversamente, e ciò dovrebbe farci legittimamente dubitare di certi racconti.
A titolo di esempio, Nagarjuna è considerato uno dei più grandi pensatori del buddismo asiatico, con un’influenza significativa nello sviluppo storico del buddismo. Vissuto in India tra il II e il III secolo d.C., il suo approccio filosofico si concentrò esclusivamente sulle implicazioni del pensiero del Budda, tralasciando la sua storicità. In un periodo in cui la tradizione buddista era soggetta a intense discussioni e divergenze, Nagarjuna enfatizzò il concetto di "vacuità" applicandolo a tutte le cose, comprese le stesse dottrine del Budda. Questo ci allontana dall’importanza letterale o storica del Budda verso una comprensione più astratta e filosofica della sua figura. Nei tempi successivi, il buddismo Mahayana, come quello interpretato da Nichiren Daishonin, ha fatto coincidere “il Budda” con “la vita stessa”, in una comprensione cosmica e metafisica che nulla ha a che vedere con la storicità. In tale visione, i racconti sulla vita del Budda storico assumono quindi una valore esclusivamente didattico, anche se difficilmente i fedeli se ne rendono conto o sarebbero disposti ad accettarlo.
Potremmo fare un discorso analogo sulle tradizioni giudaico-cristiane, la cui narrazione storica non ha alcuna base documentaria che possa liberarci da seri dubbi, a meno che non si voglia considerare la Bibbia come un documento storicamente fondato, di cui però non si sa nulla né sugli autori, né sulle infinite manipolazioni e aggiustamenti che ha subito nei millenni. A fare indagini storiche in tal senso ci hanno già pensato noti biblisti, con risultati sorprendenti rispetto alle narrative didattiche e semplificate trasmesse ai fedeli. Il biblista Mauro Biglino, peraltro coautore del libro con Pietro Buffa precedentemente citato, è noto per aver chiaramente messo in luce la distanza incolmabile e sorprendente tra la narrazione della tradizione cattolica e quella scritta nella Bibbia, pur senza aver mai sostenuto che l'una sia più vera dell'altra. Anzi, lui ha affermato che se qualcuno fosse alla ricerca di una teologia, farebbe meglio a scegliersene una tradizionale perché pienamente degna nel suo percorso evolutivo, piuttosto che ad affidarsi a teologie alternative contemporanee. Concordo con lui nel senso che ciò che secondo me conta è il messaggio che è arrivato a noi, non come si è formato storicamente. Più un'idea è valida, e meno sono importanti gli autori.
Quel che ho scritto fin qui è solo un punto di vista fra i tanti, di cui peraltro dubito. Il problema non è discutere con calma di determinate questioni, ma al contrario “non avere dubbi” e pretendere che nessun altro abbia il diritto d’averli. Da qui, la strada a disumanizzare l’altro sarebbe molto breve.
In tutto ciò, non è molto più liberatorio l’atteggiamento di Socrate, che sapeva di non sapere? Forse è quella l’unica libertà?
Estremizzando, come puro esercizio dialettico, potrei avere dubbi sull’esistenza della forza di gravità o sulla rotondità della Terra. La mia argomentazione è che ho dubbi sull’oggettività del mondo fisico, che lo considero più in conseguenza di come è fatta la nostra mente e dei limiti dei nostri processi cognitivi, piuttosto che dotato di caratteristiche intrinseche e immutabili. Intendo dire che noi percepiamo il mondo in un certo modo non perché sia realmente in quel modo, ma perché le nostre caratteristiche psico-fisiche non ci permettono di percepirlo diversamente. Altri popoli di altre parti dell’universo, con processi cognitivi diversi dai nostri e corpi fisici diversi o addirittura senza corpi fisici (mi riferisco sia ai casi documentati da Corrado Malanga, sia agli angeli e demoni della tradizione cristiana), potrebbero percepire tutto ciò che esiste su due dimensioni invece che su tre, oppure su quattro o cinque. E se le dimensioni geometriche non fossero tre, allora la Terra non potrebbe essere sferica, né nessun altro corpo celeste potrebbe esserlo. Il fatto che la geometria dello spazio debba avere tre dimensioni è solo una questione di utilità legata ai nostri limiti. Del resto, la stessa dinamica delle adduzioni (rapimenti alieni) ampiamente documentata da migliaia di casi, indagati uno per uno da Corrado Malanga, è fatta di eventi fisici non compatibili con la nostra percezione e conoscenza del mondo.
Quanto alla forza di gravità, le forme di vita che non hanno corpo fisico potrebbero non percepirla affetto, o percepirla in modo diverso dal nostro. Oppure, tornando ai velivoli alieni precedentemente accennati, i loro voli sono incompatibili con le nostre conoscenze fisiche, così come lo è la loro capacità di rimanere immobili in aria senza spinte propulsive. Le intelligenze che hanno creato questi mezzi di trasporto hanno presumibilmente una concezione della gravità significativamente diversa dalla nostra.
Chiunque analizzi queste mie riflessioni, noterà che ho portato tanti dubbi, e varie affermazioni opinabili. Il testo trasuda di alcuni miei punti di vista, i quali, però, domani stesso potrebbero essere diversi, perché tutto cambia e si trasforma. Come ho precedentemente accennato, dubito pure dei dubbi che ho posto.
(14 agosto 2024)
Saranno le lacrime delle madri a salvare il mondo dal nazismo?
In un mondo segnato da conflitti incessanti e dal fragore delle bombe, emergono storie di sofferenza umana che scuotono le coscienze, richiamando l'attenzione su un'umanità che sembra aver smarrito la sua essenza più profonda. Nel contesto delle ostilità a Gaza tra ottobre 2023 e giugno 2024, il rapporto delle Nazioni Unite "Detention in the context of the escalation of hostilities in Gaza", pubblicato il 31 luglio 2024, getta luce su una realtà di inaudita crudeltà e violenza, una realtà che ci obbliga a guardare in faccia il dolore e la disperazione di coloro che sono stati privati di ogni dignità.
Il rapporto dell’ONU racconta di migliaia di palestinesi arrestati dalle forze di sicurezza israeliane, detenuti in condizioni inumane e sottoposti a torture che evocano i peggiori orrori del passato. Le testimonianze raccolte sono la voce di chi ha subito l'impensabile, di chi è sopravvissuto per raccontare una storia che altrimenti sarebbe stata sepolta sotto il peso dell'indifferenza.
Uno degli episodi più emblematici riguarda Ketziot, una prigione nel deserto del Negev, dove i detenuti palestinesi sono stati sistematicamente umiliati e torturati. Secondo il rapporto, la pratica quotidiana della violenza fisica era talmente diffusa che si era trasformata in una routine. Le guardie della Keter, un’unità antisommossa, obbligavano i prigionieri a restare in piedi contro un muro durante i controlli giornalieri, picchiandoli con bastoni fino a quando crollavano a terra. È in questo contesto che un detenuto ha perso la vita, un evento così tragico da costringere le autorità a sospendere temporaneamente queste pratiche, anche se solo per breve tempo.
Ma la brutalità non si è fermata qui. I racconti di ex prigionieri parlano di umiliazioni che vanno oltre la violenza fisica. Un uomo, detenuto insieme a suo figlio, ha raccontato di essere stato costretto a bere alcol puro quando ha chiesto dell'acqua per prendere le sue medicine. “Volevano distruggermi psicologicamente”, ha detto, ricordando il dolore di vedere suo figlio subire lo stesso trattamento. La crudeltà non conosce limiti quando si tratta di spezzare la volontà e il cuore di un uomo.
Le condizioni di detenzione, già di per sé disumane, erano ulteriormente aggravate dalla privazione di cibo, acqua e cure mediche. I palestinesi intervistati dall'ONU hanno perso dai 25 ai 55 kg durante la detenzione, e altri sono morti per denutrizione. I detenuti erano costretti a dormire su pavimenti freddi e sporchi, in celle sovraffollate dove la sofferenza era palpabile nell'aria. Un giovane detenuto, affetto dalla nascita da una grave malattia intestinale, è morto perché gli è stata negata la dieta speciale necessaria per la sua sopravvivenza. Il suo corpo è stato restituito alla sua famiglia, ma la sua anima era già stata spezzata molto prima dalla negligenza deliberata dei suoi carcerieri.
Il rapporto ONU rivela inoltre che almeno 53 detenuti palestinesi sono morti sotto custodia israeliana, spesso in circostanze che suggeriscono torture e abusi gravi. Tra questi c’è il caso del dottor Adnan Ahmad Ateya Al Bursh, un rispettato medico di Gaza, arrestato mentre svolgeva il suo lavoro all'interno di un ospedale. Al Bursh è morto in una prigione israeliana nell'aprile 2024, e le circostanze della sua morte sono tuttora avvolte nel mistero. Testimonianze raccolte dai suoi compagni di prigionia suggeriscono che sia stato sottoposto a torture, una fine ingiusta e crudele per un uomo che aveva dedicato la sua vita a salvare gli altri.
Questi non sono casi isolati, ma parte di un quadro più ampio di brutalità sistematica. Un altro detenuto, Thair Abu Assab, è morto nel novembre 2023 dopo essere stato brutalmente picchiato dalle guardie della prigione di Ketziot. Lasciato senza cure mediche per ore, il suo destino era già segnato. Questi atti di violenza gratuita, documentati anche da testimoni oculari e dalle stesse organizzazioni per i diritti umani israeliane, dimostrano quanto l’odio e la disumanizzazione abbiano preso il sopravvento.
L'uso della tortura non si è limitato al semplice infliggere dolore fisico. La violenza sessuale e la degradazione sono stati strumenti di umiliazione e controllo. Numerose testimonianze raccolte dall’ONU descrivono detenuti costretti a spogliarsi nudi e a subire percosse mentre erano legati e indifesi. Uomini e donne sono stati torturati con elettroshock sui genitali e l'ano, mentre altri sono stati costretti a restare nudi in celle gelide per giorni interi, sotto la minaccia costante di ulteriori violenze. Una delle testimonianze più sconvolgenti riguarda un uomo che è stato filmato mentre un pezzo di verdura veniva inserito nel suo ano, mentre era ammanettato nudo dietro la schiena con altri prigionieri nelle stesse condizioni, costretti ad ammassarsi l'uno sull'altro. E' stata una pratica di umiliazione che ha lasciato segni indelebili non solo sul corpo, ma anche nell'anima.
Le violenze, comprese quelle a sfondo sessuale, sono state perpetrate da soldati sia uomini che donne. Numerosi sono i casi di percosse severe, elettroshock, posizioni di stress prolungate e waterboarding. Quest'ultimo, che potremmo tradurlo come "annegamento simulato", è una forma di tortura con l'acqua che provoca una sensazione così intensa di soffocamento, annegamento e panico che la vittima crede di morire.
Le madri di questi uomini, donne e bambini versano lacrime che non conoscono conforto. Lacrime che, forse, possono ancora smuovere le coscienze del mondo. Sono lacrime che raccontano storie di sofferenza, di speranza spezzata, di vite strappate troppo presto. Ma sono anche lacrime che ci ricordano cosa significa essere umani.
Di fronte a tutto ciò, la polemica su chi abbia ragione o torto in una specifica guerra, o in un’altra, è un esercizio inutile, sterile, controproducente. Stesso discorso sulle elucubrazioni su quali siano le violenze "legittime" e quali no. Il nazismo del secolo scorso non c’è più, ma quello odierno, sia in questa che in altre parti di mondo, è il tumore di tante anime smarrite e possedute. La cattiveria e la bontà non hanno nazionalità. Ogni ragionamento di superiorità o inferiorità tra gli esseri viventi tale da condurre alcuni a sentirsi "eletti" rispetto ad altri è lo schema del nazismo che si ripete di epoca in epoca, pur cambiando sembianza.
[...] se la mente degli esseri viventi è impura, anche la loro terra è impura, ma se la loro mente è pura, lo è anche la loro terra; non ci sono terre pure e terre impure di per sé: la differenza sta unicamente nella bontà o malvagità della nostra mente. [...]
tratto da: Il conseguimento della Buddità in questa esistenza
Mentre il mondo osserva, spesso in silenzio, queste atrocità, ci chiediamo se ci sia ancora spazio per la speranza. In un’epoca in cui la disumanità sembra prevalere, è possibile che proprio le lacrime delle madri possano essere la chiave per ritrovare la nostra umanità perduta? Forse, queste lacrime sono l'ultimo baluardo contro il cinismo e l'indifferenza. Sono il segno che, nonostante tutto, esiste ancora un filo sottile che ci lega gli uni agli altri, un filo fatto di empatia, di compassione, di dolore condiviso.
In un mondo che sembra aver dimenticato cosa significa essere umani, le lacrime delle madri potrebbero essere l’unico antidoto alla barbarie che ci circonda. Finché ci saranno madri che piangono, finché ci saranno occhi che vedono e cuori che sentono, ci sarà ancora speranza per il nostro mondo. Perché in quelle lacrime risiede la forza di cambiare, di guarire, di redimersi. Saranno le lacrime delle madri, e non le armi, a poter salvare il mondo. E finché piangeremo per questi orrori, ci sarà speranza. Perché in quel pianto si cela l’umanità che ancora può salvarci.
(11 agosto 2024)
La critica di Nichiren Daishonin alle preoccupazioni mondane
Nichiren Daishonin critica il fatto che dedichiamo tutte le nostre energie alle preoccupazioni mondane, trascurando così la pratica buddista. Invece di coltivare saggezza e consapevolezza, sprechiamo le nostre giornate in attività superflue rispetto alla scopo della vita.
Non siamo qui per rincorrere i desideri terreni. A cosa ci servirà l'appagamento dei nostri desideri quando saremo davanti al tribunale di Yama, dio della morte?
[...] Gli uomini vivono in questo mondo fuggevole ove tutto è incertezza e impermanenza, eppure giorno e notte non pensano che alla quantità di ricchezza che possono ammassare in questa esistenza. Dall’alba al crepuscolo si concentrano solo su faccende terrene, senza venerare il Budda e senza credere nella Legge; trascurano la pratica buddista, mancano di saggezza e sprecano le loro giornate. Quando saranno trascinati davanti al tribunale di Yama, il signore dell’inferno, quali provviste porteranno con sé nel lungo viaggio attraverso il triplice mondo, cosa potranno usare come barca o zattera per attraversare il mare delle sofferenze di nascita e morte e giungere nella Terra della Ricompensa Effettiva o nella Terra del Budda della Luce Tranquilla? Quando siamo illusi è come se sognassimo, quando siamo illuminati è come se ci fossimo svegliati. [...]
tratto da: Le quattordici offese
Re Yama, il Signore della Morte, è il terribile giudice dei morti. È anche la personificazione dell'impermanenza, dell'infallibile legge del karma e dell'inevitabile mortalità.
Quindi il "Tribunale di Yama" è il luogo dove saremo giudicati, dopo la morte, per le nostre azioni durante la vita terrena. Yama, con l'aiuto dei suoi assistenti, valuta le azioni buone e cattive e decide il destino post-mortem, che può includere la reincarnazione in diverse forme di vita o la permanenza in vari regni celesti o infernali.
Visto che dovremo passare tutti dal giudizio di Yama, Nichiren Daishonin critica l'inutilità del dedicare tutte le nostre energie e tempo a questioni materiali. Possiamo estendere questa osservazione all'inutilità di aggrapparsi a idee rigide e divisive. Come il denaro e i beni terreni servono a separare chi li ha da chi non li ha, creando conflitti e discordie, anche le idee rigide ci separano dagli altri e creano guerre. Ma il denaro, i beni, i desideri e le idee sono effimeri e di nessun aiuto dopo la morte.
Quando nutriamo emozioni negative o pensieri divisi o distruttivi, pensiamo a Yama. Quando abbiamo la bramosia di qualcosa o di qualcuno, pensiamo a Yama.
Tutte le tradizioni antiche, pur con un linguaggio diverso, ci danno il medesimo messaggio.
Nell'antica religione egizia, le anime dei defunti venivano giudicate da Osiride, il dio dei morti e della resurrezione. Il defunto doveva confessare davanti a 42 giudici ed essere sottoposto alla "Pesatura del Cuore", ovvero il cuore del defunto veniva pesato contro la "piuma della verità". Se il cuore era più leggero o uguale alla piuma, l'anima poteva entrare nel regno dei morti felici. Se era più pesante, l'anima veniva divorata da Ammit, un mostro con parti di leone, ippopotamo e coccodrillo.
Nella mitologia greca, dopo la morte, le anime dei defunti venivano condotte da Ermes al fiume Stige, dove Caronte le traghettava nell'oltretomba. Qui, tre giudici – Minosse, Radamante e Eaco – giudicavano le anime. A seconda delle loro azioni in vita, le anime venivano mandate nei Campi Elisi (per i giusti), nel Tartaro (per i malvagi) o negli Asfodeli (per le anime comuni).
Nello zoroastrismo, le anime dei defunti devono attraversare il Ponte Chinvat. Le anime dei giusti trovano il ponte largo e facile da attraversare, conducendole al paradiso. Le anime dei malvagi trovano il ponte stretto e difficile, facendole cadere nell'inferno. Questo giudizio avviene sotto la supervisione di Mithra, Sraosha e Rashnu.
Nel cristianesimo, il concetto di giudizio dopo la morte è rappresentato dal Giudizio Particolare e dal Giudizio Universale. Il Giudizio Particolare avviene immediatamente dopo la morte e determina lo stato dell'anima in base alla vita vissuta e alle azioni compiute. Il Giudizio Universale avviene alla fine dei tempi, durante la seconda venuta di Cristo. Durante il Giudizio Universale, tutte le azioni e i motivi delle persone saranno rivelati pubblicamente.
Nel credo islamico, il Giorno del Giudizio è quando Allah giudicherà tutti gli esseri umani. Le azioni buone e cattive, scritte preventivamente dagli angeli su fogli sottilissimi, saranno pesate su una "bilancia escatologica". Chi avrà più buone azioni entrerà in paradiso, mentre chi avrà più cattive azioni sarà mandato all'inferno.
La mitologia norrena ha un approccio diverso. Invece di un giudizio morale universale, il destino delle anime è più legato alle circostanze della morte e al ruolo sociale del defunto. C'è però un'eccezione per le anime di assassini, spergiuri e adulteri, che finiscono in Náströnd, continuamente sbranate dal serpe Níðhöggr e tormentate da un groviglio di serpenti. Questa è una punizione specifica per crimini socialmente distruttivi piuttosto che un giudizio morale.
Nella religione tradizionale cinese, sia nel buddismo che nel taoismo, Yanluo Wang è il re dell'inferno e giudice delle anime. Le anime dei defunti vengono giudicate per le loro azioni e assegnate a diverse pene o premi. Questa figura presenta molte similitudini con il Re Yama della mitologia induista, con cui ha condiviso influenze culturali e religiose nel corso dei secoli.
Questi esempi tratti da varie tradizioni religiose ci dimostrano che capire la morte è un prerequisito per comprendere la vita. Ciò dovrebbe far luce su quest'altre parole del Daishonin:
[...] Se mi guardo indietro, è da quando ero ragazzo che sto studiando gli insegnamenti del Budda. Allora pensavo: «La vita dell’essere umano è fugace. Non sempre a un respiro ne segue un altro. Nemmeno la rugiada che svanisce al vento è una metafora adeguata. Nessuno, saggio o stolto, vecchio o giovane, sa mai che cosa gli accadrà nell’istante successivo. Così va il mondo! Perciò prima di tutto dovrei studiare ciò che riguarda il momento della morte e poi tutto il resto».
Così ho radunato tutti i sacri insegnamenti dell’intera vita di Shakyamuni, come pure gli scritti e i commentari degli eruditi e dei maestri, e ho meditato su di essi. Poi li ho applicati, come uno specchio limpido, al momento della morte delle persone e ai momenti successivi, e non ho trovato la minima discordanza.
Ho visto che questa persona era caduta nell’inferno o che quell’altra era rinata nel mondo degli esseri umani o celesti. Al contrario, c’erano persone che nascondevano la verità sugli ultimi momenti dei loro maestri o dei loro genitori, dicendo che erano rinati nella Pura terra a ovest. Che tristezza! Mentre i loro maestri, caduti nei cattivi sentieri dell’esistenza, affrontavano sofferenze insopportabili, i discepoli rimasti in questo mondo ne glorificavano la morte, non facendo altro che aggravarne la sofferenza nell’inferno. È come tappare la bocca a chi ha commesso una grave colpa mentre lo stanno interrogando, oppure non incidere un bubbone a qualcuno e lasciare che si aggravi. [...]
tratto: L'importanza del momento della morte
Prima viene la comprensione della morte, poi quella della vita.
(3 agosto 2024)
La Via di Mezzo (Nagarjuna) e il conseguimento della Buddità in questa esistenza (Nichiren Daishonin)
Nagarjuna è stato un importante filosofo e maestro buddista del II secolo d.C., la cui opera principale, il "Mūlamadhyamakakārikā" (Le stanze della Via di Mezzo), è il testo fondamentale della scuola Madhyamaka. La sua filosofia è incentrata sulla dottrina della vacuità (śūnyatā) ed è nota per la sua capacità di "smontare" qualsiasi idea sul piano logico.
La Logica Negativa
La logica negativa di Nagarjuna si basa sull'uso di argomentazioni dialettiche per mostrare che tutte le concezioni e le teorie sono intrinsecamente contraddittorie e insostenibili. Questo processo è noto come "prasaṅga". Questi sono i punti chiave della logica negativa:
1. Vacuità (Śūnyatā) → Secondo Nagarjuna, tutte le cose sono vuote di esistenza intrinseca o essenza indipendente. Non esistono in modo autonomo, ma solo in relazione ad altre cose. Questo principio è applicato a tutte le fenomeni, siano essi fisici o concettuali.
2. Dipendenza e Relatività → Nagarjuna argomenta che tutto ciò che esiste è dipendente da altre cose (dipendenza condizionata o pratītyasamutpāda). Poiché nulla esiste indipendentemente, ogni affermazione di esistenza intrinseca può essere decostruita mostrando come dipenda da altri fattori.
3. Quattro Proposizioni (Catuṣkoṭi) → La tecnica dialettica di Nagarjuna spesso utilizza le quattro proposizioni:
- Qualcosa esiste.
- Qualcosa non esiste.
- Qualcosa esiste e non esiste simultaneamente.
- Qualcosa né esiste né non esiste.
Nagarjuna dimostra che tutte queste proposizioni portano a contraddizioni quando si cerca di applicarle alla realtà assoluta. Ad esempio, egli esamina le quattro possibili relazioni di causa ed effetto e dimostra che nessuna di queste può essere logicamente sostenuta senza cadere in contraddizione. Vediamole nel dettaglio:
1. La causa esiste indipendentemente dall'effetto → Se una causa esistesse indipendentemente dall'effetto, allora l'effetto non sarebbe necessario per la causa. Questo implica che una causa potrebbe esistere senza mai produrre un effetto, il che contraddice la definizione stessa di causa. Se una causa esistesse senza produrre un effetto, allora non avrebbe senso considerarla una causa.
2. L'effetto esiste indipendentemente dalla causa → Se un effetto potesse esistere indipendentemente dalla causa, allora non ci sarebbe bisogno di una causa per spiegare l'effetto. Questo rende superfluo il concetto di causa, il che è logicamente incoerente poiché negherebbe l'intera idea di causalità. Un effetto che esiste senza causa non può essere considerato un effetto.
3. La causa e l'effetto esistono simultaneamente → Se causa ed effetto esistessero simultaneamente, non sarebbe possibile distinguere tra i due. Inoltre, se esistessero nello stesso tempo, non ci sarebbe una relazione di dipendenza temporale tra loro, eliminando così la sequenzialità necessaria per la causalità. Causa ed effetto perderebbero la loro identità distintiva.
4. La causa e l'effetto non esistono né simultaneamente né indipendentemente → Questa posizione suggerisce che causa ed effetto non possono essere definiti in nessuna relazione coerente, portando a una contraddizione interna nella concezione stessa della causalità. Se causa ed effetto non possono essere definiti in alcun modo, allora non possono esistere.
Attraverso queste argomentazioni, Nagarjuna mostra che il concetto di causalità, come tutte le altre idee, è intrinsecamente vacuo di esistenza indipendente e stabile.
Tale argomentazione mette in crisi concetto di dualità, che risulta intrinsecamente vacuo perché non possiamo sostenere logicamente né che le entità siano completamente separate né che siano completamente unite. Questa vacuità della dualità significa che ogni idea di separazione o distinzione fissa è fondamentalmente insostenibile.
Possiamo usare la stessa logica negativa per dimostrare che anche la mente, come concetto separato e indipendente, è vacua. Consideriamo le seguenti proposizioni applicate alla mente:
1. La mente esiste indipendentemente dai suoi pensieri → Se la mente esistesse senza i pensieri, cosa sarebbe? Non possiamo concepire una mente senza contenuti mentali. Questo mostra che la mente non può esistere indipendentemente dai pensieri.
2. I pensieri esistono indipendentemente dalla mente → Se i pensieri esistessero senza la mente, dove risiederebbero? I pensieri sono manifestazioni della mente, quindi non possono esistere indipendentemente da essa.
3. La mente e i pensieri esistono simultaneamente → Se la mente e i pensieri esistono simultaneamente e sono la stessa cosa, allora non c'è dualità tra mente e pensieri. Tuttavia, percepiamo una distinzione, il che crea una contraddizione.
4. La mente e i pensieri non esistono né simultaneamente né indipendentemente → Questa proposizione suggerisce che non possiamo definire chiaramente la relazione tra mente e pensieri, mettendo in crisi la dualità tra soggetto e oggetto, osservatore e osservato.
A tal riguardo, circa mille anni dopo Nagarjuna, il maestro buddista giapponese del XIII secolo Nichiren Daishonin, in uno dei testi fondamentali della sua dottrina dedicato al conseguimento della Buddità in questa esistenza, richiama esplicitamente la Via di Mezzo di Nagarjuna con queste parole:
[...]
Cosa significa myo (mistico)? È semplicemente la misteriosa natura della nostra vita di istante in istante, che la mente non riesce a comprendere e le parole non possono esprimere. Guardando la nostra mente in ogni singolo istante, non percepiamo né colore né forma per verificare che esiste. Eppure non possiamo nemmeno dire che non esiste, poiché molti pensieri differenti sorgono di continuo. Non possiamo né ritenere che la mente esista né che non esista. È una realtà inafferrabile che trascende sia le parole sia i concetti di esistenza e di non esistenza. Non è né esistenza né non esistenza, e tuttavia manifesta le proprietà di entrambe. È la mistica entità della Via di mezzo che è l’unica vera realtà.
[...]
(tratto da: Il conseguimento della Buddità in questa esistenza)
Qui Nichiren Daishonin dimostra una profonda comprensione degli insegnamenti di Nagarjuna, integrandoli nella sua visione unica del consegumento della buddità tramite la pratica di Nam-myoho-renge-kyo. Attraverso la sua spiegazione, Nichiren enfatizza la complessità e la profondità della Via di Mezzo, che egli definisce come "l'unica vera realtà".
La Via di Mezzo ci permette di comprendere che non solo le idee e le credenze, ma anche i desideri e le passioni sono vacui di un'esistenza propria e sostanziale. Ci conviene quindi non tentare di aggrapparci né agli uni né agli altri, perché sarebbe come tentare di afferrare a mani nude l'acqua o l'aria.
"Non aggrapparsi" ai desideri
Nella visione buddista, a partire fino dal primo sermone di Shakyamuni una volta raggiunta l'illuminazione, noto come "Dhammacakkappavattana Sutta" o "Discorso di Benares", il problema fondamentale che causa la sofferenza è l'attaccamento, che si manifesta non solo attraverso le credenze rigide ma anche attraverso i desideri e le aspettative. Attaccarsi ai desideri porta a una continua insoddisfazione e sofferenza perché i desideri sono, per loro natura, impermanenti e mutevoli.
La Via di Mezzo ci insegna a vedere la realtà senza gli estremi di esistenza assoluta o non esistenza, e quindi anche a non essere né troppo indulgenti né repressivi verso i nostri desideri, ma a riconoscerli nella loro natura transitoria.
In pratica, seguire la Via di Mezzo significa sviluppare una mente equanime che non si aggrappa né si lascia trascinare dai desideri. Questo non implica una rinuncia ascetica estrema, ma piuttosto una relazione sana e bilanciata con i propri desideri, riconoscendoli come fenomeni temporanei e non fondamentali per il proprio benessere ultimo. In questo modo, possiamo vivere con maggiore serenità e saggezza, riducendo la sofferenza legata all'attaccamento.
Una mente equanime è in grado di mantenere serenità e stabilità emotiva, senza farsi influenzare eccessivamente dalle emozioni positive o negative. In altre parole, una persona con una mente equanime non si lascia trascinare dall'euforia quando le cose vanno bene né si deprime troppo quando le cose vanno male.
A tal riguardo, in un altro dei testi fondamentali della sua dottrina dedicato ai desideri, Nichiren Daishonin ha scritto:
[...]
È l’illuminazione al fatto che realtà e saggezza sono due, ma allo stesso tempo non sono due.
Questi sono insegnamenti d’importanza primaria. Corrispondono ai princìpi per cui “le illusioni e i desideri sono illuminazione” e “le sofferenze di nascita e morte sono nirvana”. Recitare Nam-myoho-renge-kyo durante l’unione fisica di uomo e donna è veramente ciò che si chiama “le illusioni e i desideri sono illuminazione” e “le sofferenze di nascita e morte sono nirvana”. Il principio secondo cui “le sofferenze di nascita e morte sono nirvana” esiste solo nella comprensione che l’entità della vita in tutto il suo ciclo di nascita e morte non viene né generata né distrutta. Il Sutra di Virtù Universale afferma che «senza eliminare le illusioni o separarsi dai cinque desideri, [essi potranno] purificare i loro sensi e spazzare via le loro offese». In Grande concentrazione e visione profonda si afferma che «l’ignoranza e la polvere dei desideri sono illuminazione e le sofferenze di nascita e morte sono nirvana».
[...]
(tratto da: "Le illusioni e i desideri sono illuminazione")
Ad una prima lettura, questo testo potrebbe essere frainteso e sembrare in contraddizione con i principi di base del buddismo. In realtà, Nichiren qui si sta basando completamente sull'insegnamento della Via di Mezzo di Nagarjuna che, ricordiamolo ancora una volta, egli definisce come "l'unica vera realtà". Confrontiamo ciò che ha scritto Nichiren con il terremoto prodotto da Nagarjuna nelle teorie delle scuole buddiste della sua epoca, notando le similitudini:
[...]
Le cause che portano al ciclo mondano delle rinascite (samsara) non possono essere le stesse che portano alla pace (nirvana). Questi stati dell'esistenza sono diversi come il fuoco e l'acqua: il samsara placherà la sete tanto quanto il nirvana porterà al fuoco della passione. Quindi, sono le parole del Buddha, per coloro che sostenevano la teoria dell'effetto come preesistente alla causa, ad avere il potenziale di purificare la coscienza, e non le parole di qualsiasi maestro non ortodosso; sono le pratiche dei buddisti, per coloro che sostenevano la nozione di efficacia causale esterna, che poteva liberare dalla rinascita, e non le pratiche di coloro che perpetuavano le ambizioni del mondo quotidiano e lavorativo. Queste scuole erano, ognuna nella sua unicità buddista, veri e propri esemplari dei presupposti secolari della visione del mondo del karma, in cui una persona è ciò che fa e ciò che fa deriva dal tipo di trucco fondamentale che ha ereditato da vite precedenti di azioni, una visione del mondo che è che sposa intimamente essenza, esistenza ed etica. Essere buddista significa proprio distinguere tra atti buddisti e non buddisti, tra ignoranza e illuminazione, tra il mondo sofferente del samsara e il raggiungimento purificato del nirvana.
Nel suo rivoluzionario trattato I versi fondamentali sulla Via di Mezzo, Nagarjuna getta alle ortiche questa distinzione elementare tra samsara e nirvana, e lo fa nel nome stesso del Buddha. "Non c'è la minima distinzione", dichiara nell'opera, "tra samsara e nirvana. Il limite dell'uno è il limite dell'altro". Ora, come si può affermare una cosa del genere, cioè l'identità tra samsara e nirvana, senza minare totalmente le basi teoriche e gli obiettivi pratici del buddismo in quanto tale? Infatti, se non c'è differenza tra il mondo della sofferenza e il raggiungimento della pace, allora che tipo di lavoro deve fare un buddista che cerca di porre fine alla sofferenza? Nagarjuna risponde ricordando ai filosofi buddisti che, come Gautama Sakyamuni aveva rifiutato il sostanzialismo metafisico ed empirico con l'insegnamento della "non anima" (anatman) e dell'interdipendenza causale (pratityasamputpada), il Buddhismo Scolastico doveva quindi rimanere fedele a questa posizione non sostanzialista attraverso il rifiuto delle teorie causali che richiedevano nozioni di natura fissa (svabhava), teorie che reificavano metafisicamente la differenza tra samsara e nirvana. Questo successivo rifiuto potrebbe basarsi sulla nozione, appena coniata da Nagarjuna, di "vuoto", "assenza" o "nullità" (sunyata) di tutte le cose.
[...]
Ma forse la cosa più rivoluzionaria è stata l'estensione da parte di Nagarjuna della dottrina della "vacuità" di tutti i fenomeni alla discussione del rapporto tra il Buddha e il mondo, tra il ciclo delle rinascite inflitte dal dolore (samsara) e la libertà soddisfatta e priva di desideri (nirvana). Il Buddha, conosciuto colloquialmente come "colui che è venuto e se n'è andato" (Tathagata), non può essere propriamente pensato per Nagarjuna nel modo in cui lo hanno fatto gli scolastici buddisti, cioè come il seme eternamente puro del vero insegnamento di pace che mette a tacere le illusioni del mondo altrimenti contaminato. Il nome e la persona di "Buddha" non devono servire come base teorica e giustificazione della distinzione tra il mondo ordinario, ignorante, e l'illuminazione perfetta. Dopo tutto, ricorda Nagarjuna ai suoi lettori, tutti i cambiamenti nel mondo, comprese le trasformazioni che portano all'illuminazione, sono possibili solo grazie alla causalità interdipendente (pratityasamutpada), e la causalità interdipendente, a sua volta, è possibile solo perché le cose, i fenomeni, non hanno una natura fissa e quindi sono aperti (sunya) alla trasformazione. Il Buddha stesso si è trasformato solo a causa dell'interdipendenza e della vacuità e quindi, come afferma Nagarjuna, "la natura del Tathagata è la natura stessa del mondo". È evidente che non si possono fare delimitazioni essenziali tra il mondo della sofferenza e le pratiche che possono portare alla pace, perché entrambi sono solo risultati alternativi nel nesso dell'interdipendenza del mondo.
[...]
tratto da: Nagarjuna, il secondo Budda, il maestro del metodo scettico, la Via di Mezzo
Ecco, su questa questione Nichiren Daishonin condivide totalmente la visione di Nagarjuna. A questo punto dovrebbe essere evidente che la Via di Mezzo di Nagarjuna e la frase di Nichiren Daishonin secondo cui "le illusioni e i desideri sono illuminazione" sono complementari e integrati in una visione coerente della pratica buddista. Riassumiamo alcuni punti principali:
Non-dualità → La visione di Nichiren che "le illusioni e i desideri sono illuminazione" si allinea con la comprensione della vacuità di Nagarjuna. Se tutto è vacuo di esistenza intrinseca, allora anche le illusioni, i desideri e l'illuminazione non hanno un'essenza indipendente.
Entrambi gli insegnamenti enfatizzano la trasformazione della mente. Nel contesto della Via di Mezzo, si tratta di comprendere la vacuità per evitare di aggrapparsi agli estremi (di esistenza assoluta o di non esistenza) e vivere in armonia con la vera natura della realtà. Nel contesto di Nichiren, si tratta di trasformare e purificare la propria mente, con le sue illusioni e desideri, attraverso la pratica del Daimoku, rimanendo nella realtà della vita quotidiana.
Recitazione del Daimoku → La pratica del Daimoku (Nam-myoho-renge-kyo) insegnata di Nichiren Daishonin può essere vista come un metodo per coltivare la comprensione della vacuità e realizzare la Via di Mezzo. Attraverso questa pratica, sviluppiamo una visione che integra le esperienze mondane con la saggezza ultima, riconosciamo realtà della vita e illuminazione come interconnesse e interdipendenti, e vediamo entrambe come manifestazioni della stessa realtà vacua.
A tal proposito, vale la pena di notare che Nichiren Daishonin abbraccia il principio del "mutuo possesso dei Dieci Mondi", secondo cui il "mondo di inferno" contiene anche il "mondo di Buddità" e il "mondo di Buddità" contiene anche il "mondo di inferno". Sofferenza estrema ed illuminazione del Budda si includono quindi a vicenda.
Nascita e morte come nirvana → L'insegnamento di Nichiren che "le sofferenze di nascita e morte sono nirvana" riflette l'idea di Nagarjuna che non c'è una separazione essenziale tra samsara (il ciclo delle rinascite) e nirvana (la liberazione dal ciclo delle rinascite). Entrambi sono vacui di esistenza intrinseca.
Inoltre, Nichiren Daishonin ci fa notare che la vita "non viene né generata né distrutta". Sebbene non esista un'anima stabile, c'è una continuità della vita. Questo può essere paragonato a una fiamma che passa da una candela all'altra. La fiamma non è la stessa, ma è un continuum. Allo stesso modo, la vita continua attraverso cicli di nascita e morte, ma senza un'entità immutabile che persista.
L'insegnamento che la vita non ha un inizio né una fine assoluti sottolinea la natura interconnessa, impermanente e in continua trasformazione della vita. Questo punto di vista enfatizza la pratica e la realizzazione della saggezza per comprendere e vivere in armonia con la vera natura della realtà.
Purificazione attraverso la comprensione → La citazione dal Sutra di Virtù Universale e altre affermazioni simili nei testi di Nichiren sottolineano che non è necessario eliminare le illusioni e i desideri, ma comprenderne la vera natura. Questo è in linea con l'insegnamento della vacuità di Nagarjuna, dove la comprensione della vera natura delle cose conduce alla liberazione.
Nichiren e Nagarjuna insegnano entrambi che non bisogna respingere le esperienze mondane, ma comprenderle e trasformarle. La Via di Mezzo evita l'estremo della negazione della realtà mondana, mentre gli insegnamenti di Nichiren enfatizzano l'uso delle esperienze quotidiane come mezzo per raggiungere l'illuminazione.
Il principio che "l'ignoranza e la polvere dei desideri sono illuminazione" indica che le stesse cause di sofferenza e desiderio possono essere trasformate in saggezza. La polvere dei desideri non è qualcosa da evitare, ma da purificare attraverso la pratica e la comprensione.
Vantaggi del "non aggrapparsi" alle idee
La Via di Mezzo ci insegna a mantenere una mente aperta e flessibile. In pratica, questo significa:
Accettare la fluidità delle idee → Le nostre convinzioni possono evolvere con nuove esperienze e informazioni. Riconoscere questo ci libera dal dogmatismo e ci permette di adattarci meglio alle circostanze mutevoli.
Essere aperti al dialogo → Ascoltare le opinioni degli altri senza pregiudizi arricchisce il nostro punto di vista e ci aiuta a trovare soluzioni più equilibrate nei conflitti.
Essere adattabili → Affrontando cambiamenti o situazioni inaspettate, possiamo reagire in modo più calmo e ponderato, senza sentirci minacciati o destabilizzati.
Evitare il conflitto → Molti conflitti nascono dall'attaccamento a idee fisse. Se impariamo a non identificarci troppo con le nostre opinioni, possiamo risolvere i conflitti in modo più pacifico.
Esaminare le idee → Abituarci a esaminare criticamente le nostre credenze e opinioni, con la disposizione a cambiare idea quando le prove ci mostrano che siamo in errore.
Sperimentare la libertà mentale → Liberarci dall'attaccamento alle idee ci offre una grande libertà mentale. Possiamo esplorare nuove possibilità e approcci senza sentirci limitati dalle vecchie credenze.
Il distacco dalle idee non significa distacco dall'umanità o dal benessere degli altri. Al contrario, liberarci dall'attaccamento alle idee favorisce la compassione (karuna) e la non violenza (ahimsa):
Coltivare la compassione → Liberarci dall'attaccamento alle nostre idee ci permette di vedere e comprendere meglio le sofferenze degli altri. Possiamo rispondere con maggiore empatia e gentilezza, promuovendo il benessere altrui senza essere limitati da pregiudizi o credenze rigide.
Praticare la non violenza → Senza l'attaccamento alle idee, siamo meno inclini a entrare in conflitto con gli altri. La non violenza diventa un modo naturale di interagire con il mondo, poiché comprendiamo la vacuità delle posizioni assolute e vediamo il valore dell'armonia e della pace.
La combinazione di consapevolezza, compassione e non violenza ci permette di vivere in modo più completo e autentico, contribuendo positivamente al mondo che ci circonda.
Differenza tra idee e fede
Sia nella tradizione di Nagarjuna che nel Buddismo di Nichiren Daishonin, la "fede" è vista come "fiducia" negli insegnamenti buddisti, che deve essere accompagnata dalla pratica e dalla comprensione. Non è un atto di sottomissione cieca, ma un processo attivo e consapevole di esplorazione e trasformazione personale.
Nagarjuna utilizza la critica delle costruzioni concettuali per dimostrare che tutte le teorie e le visioni del mondo sono, in ultima analisi, vuote di essenza. Questo approccio rifiuta qualsiasi forma di dogmatismo, poiché ogni concetto è soggetto a decostruzione e analisi critica.
Anche Nichiren Daishonin rifiuta un'accettazione passiva di dogmi. Nichiren incoraggia i suoi seguaci a studiare profondamente gli insegnamenti in modo critico. Questa enfasi sullo studio e sul fare domande contrasta con il dogmatismo, poiché i praticanti sono invitati a comprendere, a interiorizzare e a "vivere" gli insegnamenti piuttosto che ad accettarli ciecamente.
L'insegnamento sia di Nagarjuna che di Nichiren Daishonin implica un invito a non avere "risposte pronte" su nessuna questione, promuovendo invece un approccio dinamico e investigativo alla comprensione della realtà e degli insegnamenti buddisti. La fede (cioè la fiducia) e la comprensione crescono attraverso l'esperienza e la pratica, piuttosto che attraverso l'adozione di risposte preconfezionate.
(27 luglio 2024)
Bisogna studiare, senza fermarsi al settarismo di nessuno
Il risultato più alto dell'educazione è la tolleranza.
(Helen Keller)
L'istruzione è la capacità di ascoltare quasi tutto senza perdere la calma o la fiducia in se stessi.
(Robert Frost)
Sappiamo ciò che c'è, ma non sappiamo ciò che potrebbe esserci. Desiderare un mondo migliore è possibile.
(Giulio Ripa, aforismi)
Se vogliamo comprendere la realtà con il ragionamento, inciampiamo in una contraddizione dopo l'altra.
(Francesco Galgani, Studiare serve a confermare la propria ignoranza?)
L'insegnamento fondamentale della vita a cui partecipiamo è comprendere la vita stessa.
(Giulio Ripa, aforismi)
Non puoi insegnare qualcosa a un uomo; puoi solo aiutarlo a scoprirla dentro di sé.
(Galileo Galilei)
Gli uomini che non sanno nulla degli argomenti di discussione possono parlare, mentre gli uomini che sanno molto spesso tacciono.
(George Bernard Shaw)