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Il significato della sofferenza?

La sofferenza diventa sopportabile solo quando riusciamo a darle un senso, mentre risulta insopportabile se resta un puro dolore privo di significato. Attribuire uno scopo alla sofferenza non significa negare o minimizzare il dolore che proviamo, bensì trasformarlo in un motore di crescita e di consapevolezza. In tale prospettiva, anche le esperienze più difficili possono portare a una comprensione più profonda di noi stessi e della realtà che ci circonda.

Come recita il Dhammapada (vv. 277-279): “Tutte le cose condizionate sono impermanenti [...] Tutte le cose condizionate sono di per sé insoddisfacenti [...] Tutte le realtà sono prive di un sé permanente: quando lo comprendiamo direttamente e profondamente, ci sentiamo stanchi di questa vita di sofferenza. E’ questa la via della purificazione”.  In questi versi, il Buddha insegna che tutte le cose condizionate (ovvero tutto ciò che è soggetto a causa ed effetto) sono impermanenti, insoddisfacenti e prive di un sé permanente. Questa è la comprensione delle tre caratteristiche dell'esistenza (anicca, dukkha, anattā). Quando realizziamo pienamente questa verità, non ci aggrappiamo più alle cose con attaccamento o avversione, perché comprendiamo che esse non possono offrire una felicità duratura. Questo porta a un senso di distacco (nibbidā), che non è rifiuto della vita, ma una disillusione serena e salutare che ci spinge a vedere la realtà con maggiore equanimità (upekkhā, cioè stabilità di fronte alle fluttuazioni della fortuna mondana) e saggezza, riducendo il coinvolgimento emotivo e le illusioni che causano sofferenza. Questo processo interiore è appunto "la via della purificazione" (visuddhimagga).

"Monaci, i sette fattori del risveglio, se sviluppati e coltivati, conducono unicamente al disincanto, al distacco, alla cessazione, alla pace, all’intuizione, al risveglio e al nibbana. Quali sette? Il fattore del risveglio della presenza mentale, dell’investigazione del Dhamma, dell’energia, dell’estasi, della tranquillità, della concentrazione e dell’equanimità. Questi sette fattori del risveglio, se sviluppati e coltivati, conducono unicamente al disincanto, al distacco, alla cessazione, alla pace, all’intuizione, al risveglio e al nibbana". (SN 46.20: Nibbidā Sutta – Disincanto)

Passando da questa riflessione a un aspetto specifico, uno dei principali “benefici” della sofferenza è il suo potenziale per un progresso interiore significativo. Tuttavia, perché ciò accada, è necessario un lavoro lento e spesso faticoso su di sé, fatto di introspezione, autoanalisi e volontà di cambiare. Tale percorso trascende le singole tradizioni spirituali, poiché l’esperienza intima e personale del dolore tocca dimensioni dell’essere umano che vanno al di là di ogni specifica dottrina. Allo stesso tempo, molte strade di fede offrono strumenti e chiavi di lettura preziose per orientarci in questo cammino di trasformazione.

Il Buddismo non mira a cancellare la sofferenza, ma a riconoscerla, comprenderne le cause e trasformare le nostre reazioni interiori. Secondo il Budda:

«Questa, monaci, è la nobile verità del dolore. La nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che odiamo è dolore, la separazione da ciò che amiamo è dolore, non ottenere ciò che desideriamo è dolore, in breve i cinque aggregati dell’attaccamento sono dolore.

Questa, monaci, è la nobile verità sull’origine del dolore. E’ la sete che porta alla rinascita, vincolata all’avidità e alla brama, e ovunque porta all’attaccamento, vale a dire la sete dei piaceri dei sensi, la sete di esistenza e del divenire, e la sete di non-esistenza.

Questa, monaci, è la nobile verità della cessazione del dolore. È la completa cessazione della sete, l’abbandono, la rinuncia, la liberazione, il distacco.

Questa, monaci, è la nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore. È il Nobile Ottuplice Sentiero, e cioè: retta visione, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione». (SN 56.11: Dhamma Cakkappavattana Sutta)

Allo stesso tempo, la visione del Bodhisattva rivoluziona la prospettiva: anche chi potrebbe uscire dal ciclo delle rinascite (ovvero raggiungere il Nirvana, cioè la fine di ogni sofferenza) sceglie di rimanervi, per portare benessere e pace a tutti gli esseri senzienti. Questa attitudine compassionevole e altruista richiede un continuo impegno su di sé e l’accettazione che la condizione incarnata comporti inevitabilmente una quota di sofferenza. Ciò è esemplificato dai Tre Principi del Bodhisattva nel Canone Tibetano:

  • Nutrire costantemente l'auspicio di poter essere utile agli altri
  • Abbandonare tutto ciò che può essere causa di danno agli altri.
  • Coltivare tutto ciò che può servire come base per il bene degli altri.

Quando comprendiamo che la sofferenza può diventare un’opportunità di evoluzione, iniziamo a percepire una serenità di fondo che non dipende più unicamente dalle circostanze esterne. Dare un significato al dolore non lo annulla, ma ci permette di sperimentare una luminosità interiore più stabile, fondata sulla consapevolezza di avere la capacità di trasformare le avversità in saggezza. Non è un processo immediato né privo di ostacoli, ma, passo dopo passo, possiamo scoprire come la sofferenza stessa possa diventare una maestra di compassione e di apertura al mistero dell’esistenza.

Dare un senso alla sofferenza è un atto profondamente umano e spirituale: integrando il dolore nella nostra vita, anziché subirlo passivamente, troviamo la forza per non esserne schiacciati. Ogni tradizione religiosa o spirituale offre strumenti specifici per affrontare il “male di vivere”, e ciascuno può trovare il sentiero più adatto alla propria sensibilità. Ciò che resta fondamentale, al di là delle singole vie, è il riconoscimento che la sofferenza, se accolta e compresa, può condurre a un’espansione di coscienza e a una profonda luminosità interiore, in grado di sostenere noi stessi e di irradiare positività verso chi ci circonda. Come ci ricorda ancora il Dhammapada (v. 183): “Smetti di fare il male, coltiva il bene, purifica il cuore. E' questa la Via del Risvegliato”.

(20 febbraio 2025)

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