Esistono un’infinità di forme di spiritualità e di modi di pregare, tutti quanti legittimi. Eppure, secondo me, nella grande impresa di “collegare” o di “far comunicare” il sé individuale con “ciò che è più grande del proprio sé individuale” (ammesso che sia questo il senso della preghiera), rischiamo di perdere la visione d’insieme. Indubbiamente il senso della preghiera dipende dal tipo e dalla qualità della spiritualità: anche laddove non sia presente una trascendenza verso cui rivolgersi, la preghiera potrebbe essere intesa come il tentativo di fondere ciò che è interno a sé con ciò che è esterno a sé, fino al punto in cui non ci sono più un interno e un esterno. La differenza rispetto a quanto ho scritto precedentemente è che non si tratta più di “far comunicare”, ma di “far coincidere”. Credo che questa sia la visione dei mistici di tutto il mondo, al di là dei contesti culturali e religiosi.
Eppure c’è qualcosa che “stona”, che non torna. Al di là della preghiera di chi ha riconosciuto la propria natura “divina” (o come altrimenti la si vuole denominare), ovvero di chi, messo da parte ogni egoismo, non fa appello unicamente a un potere esterno o a un potere interno, perché tutto è collegato a tutto, rimane il fatto che, nel senso comune, “pregare” è fondamentalmente sinonimo di “chiedere”. Di per sé non c’è nulla di male o di sbagliato, però potrebbe essere una trappola.
Provo a spiegare quest’ultimo punto, partendo dal presupposto che “nulla è per caso”, e che quindi ogni preghiera viene ascoltata e ottiene una risposta (al di là che questa risposta possa o meno piacere). Se non fossimo d’accordo su questo presupposto, la preghiera non avrebbe senso o quantomeno sarebbe fortemente depotenziata, ma se invece crediamo nel forte potere della preghiera, allora necessariamente crediamo che “tutto ha un senso”, ovvero che “nulla è per caso” (due modi diversi di esprimere lo stesso concetto).
Se fin qui siamo d’accordo, ovvero che “tutto ha un senso” e che “nulla è per caso”, quale effetto può avere una preghiera più o meno velatamente lamentosa, ovvero di continue richieste (o della stessa continua richiesta), fatta da chi si sente in continuo stato di bisogno? Una risposta può venire dagli studi delle discipline psico-sociali, che per anni mi hanno accompagnato. Nel 1948, il sociologo statunitense Robert King Merton (1910-2003), introdusse nelle scienze sociali il concetto di “profezia che si autoadempie”, definendola come «una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l'avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità». Merton trasse ispirazione dalla formulazione che un altro celebre sociologo americano, William Thomas (1863-1947), aveva dato di quello che è passato alla storia come Teorema di Thomas, che recita: «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Orbene, qual è in questo caso la profezia che si autoadempie? Quella di essere in continuo stato di bisogno, perché con questa condizione interiore viene formulata la preghiera.
Se davvero tutto è collegato a tutto e tutto ha un senso, e se davvero la vita è la più alta forma di intelligenza che esista, cerchiamo di recuperare la visione d’insieme. Se siamo qui, c’è un motivo e per quel motivo (o missione) la vita già ci dà quel che ci occorre. E’ questione di crederci veramente o, in altre parole, di fidarsi della vita (senza giudizi, lamentele, pretese, accuse). Questa fiducia di fondo può cambiare completamente la condizione interiore rispetto alla preghiera, che non sarà più per “chiedere alla vita”, ma per “dare alla vita” ciò che Le occorre da noi, ovvero per adempiere alla nostra missione. Qual è in questo caso la profezia che si autoadempie? Quella di dare completo senso alla nostra esistenza e di avere già, adesso, in questo preciso momento, tutto ciò che ci occorre per adempiere alla nostra missione.
(22 luglio 2021)