Quanto segue è un articolo di Umberto Galimberti, pubblicato su Repubblica.it, il 4 gennaio 2000 (fonte)
Cari ragazzi studenti dell'anima
Ci sono alcuni saperi che, chissà perché, tendono ad essere emarginati, tenuti accuratamente nascosti, non insegnati e in ogni caso non incrementati, a differenza di altri la cui attinenza con l'oggetto è tutta da dimostrare, così come è da dimostrare la loro validità scientifica. Sto parlando delle scienze psicologiche e di quelle psichiatriche che vanno sempre più attestandosi sul versante biologico-naturalistico e sempre meno sul versante propriamente umano, anche se l'uomo continua ad essere l'oggetto specifico della loro competenza.
A differenza di quanto accade in medicina, infatti, in psichiatria i sintomi non sono dati oggettivi, ma esperienze vissute che hanno una dimensione narrativa e storica, quindi più vicina alle scienze "umane" che a quelle "esatte". Oggi, come scrive lo psichiatra Eugenio Borgna in Noi siamo un colloquio (Feltrinelli, pagg. 232, lire 30.000), "dilaga una psichiatria dell'esteriorità" che guarda i sintomi e prescrive i farmaci senza minimamente preoccuparsi di "cosa ci sia dietro i sintomi (di una depressione ad esempio) e di come ogni paziente riviva nella sua soggettività i modi d'essere nell'angoscia, nell'ossessività e nella felicità sfrenata che sono poi i modi di essere di ogni esperienza neurotica e di ogni esperienza psicotica".
Ma esiste un sapere capace di scavare dietro il sintomo e di entrare in comunicazione con i vissuti di chi soffre? Signorsì, esiste e si chiama psicopatologia, un sapere inaugurato da Karl Jaspers nel 1913 con la sua Psicopatologia generale (un'opera continuamente riedita in italiano da Il Pensiero Scientifico Editore, pagg. 954, lire 80.000), di cui la psichiatria italiana sembra fare allegramente a meno, probabilmente perché "comprendere" (in senso jaspersiano) un paziente non porta alcun contributo al mercato farmaceutico.
Giorni fa sono stato invitato dalla professoressa Maria Armezzani della facoltà di Psicologia dell'università di Padova non a fare una conferenza o a partecipare a un convegno, ma a rispondere alle domande di trecentocinquanta studenti di psicologia che avevano scelto l'indirizzo clinico e autonomamente si erano riuniti nell'aula magna di quella facoltà non per fare la rivoluzione, ma per chiedere qualche insegnamento che facesse loro comprendere che cos'è, dal punto di vista psicologico, il disagio mentale al di là di quanto si potesse apprendere dai corsi di anatomia, biologia, neurofisiologia, statistica, teoria e tecniche dei test.
Oltre a me, la professoressa Maria Armezzani aveva invitato due psichiatri, Giovanni Stanghellini e Gilberto Di Petta, che ancora non hanno disgiunto la psichiatria dalla psicopatologia, che è poi quella negletta scienza che va al di là delle sintomatologie cliniche, che formano l'oggetto della psichiatria, per cogliere il nocciolo interiore del disagio psichico senza lasciarsi imbrigliare dalla esteriorità della sintomatologia separata dal vissuto che la alimenta.
Ora la facoltà di Psicologia dell'Università di Padova è la prima e la più frequentata d'Italia con i suoi 10.000 studenti, 160 docenti e più di 100 insegnamenti. Dei quattro indirizzi che gli studenti possono seguire l'80 per cento, mi riferiva il professor Sadi Marhaba, sceglie quello clinico, dove la psicopatologia compare in due insegnamenti sui cento disponibili, e per giunta come esame complementare che si può anche non fare. Obbligatori sono invece gli esami di statistica e di testistica, come se nell'approccio clinico capire cosa passa nel vissuto del paziente avesse decisamente meno rilevanza di quanto non ne abbia rassemblare dati grezzi per indagini statistiche, o somministrare test che danno tanto l'impressione di scientificità, dove è garantita la professionalità dello psicologo anche nel fallimento dell'incontro.
Ma poi che credibilità dare a questi test che occupano tanta parte degli studi di psicologia? Hathaway, psicofisiologo, e McKinley, neuropsichiatra, hanno ideato alla fine degli anni '30 il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI), il testo oggettivo di personalità tuttora più conosciuto e diffuso nel mondo. Ma nel 1972 in un articolo che ha per titolo: "Where have we gone wrong? The mistery of the missing progress" (in J.N. Butcher - Ed. -, Objective Personality Assessment, Academic Press, New York, 1972), Hathaway muove critiche radicali all'impiego dei metodi naturalistici nell'indagine sulla personalità, rimangiandosi, con rara onestà, il lavoro di tutta una vita che lo aveva reso famoso. Ecco le sue parole: "Se il lettore sostiene la tesi che lo sforzo degli ultimi quarant'anni abbia prodotto test e inventari di personalità di sicura efficacia, lascio a lui il compito di provarlo... Devo ammettere che posso impiegare solo deboli argomenti a favore della validità pratica dei test... Se mi chiedessero di esibire un'evidenza convincente che, in un'ora, un determinato intervistatore non può fare bene e meglio, non esiterei ad accettare la sfida".
Hathaway cerca quindi i motivi del fallimento (questo è il mistero) in una serie di indizi: il costrutto elusivo, l'origine complessa, i criteri impossibili, la strategia improduttiva, arrivando alla conclusione che non si possono applicare nello studio della personalità "gli stessi strumenti matematici e gli stessi disegni di ricerca che sono serviti per risolvere problemi in altri campi della scienza". E questo perché: "L'analisi fattoriale, l'analisi della varianza e altri feticci sono procedure standard per l'analisi della personalità, ma ciò che non va nei test è stato causato proprio dalla applicazione di queste strategie statistiche", per cui "lancio una sfida alla metodologia della scienza applicata alla psiche, invocando perfino uno scetticismo iconoclasta; comunque non darò nessuna direttiva convincente per qualcosa di nuovo". A mo' di chiosa Hathaway osserva che: "Leggendo questo, un collega dichiarò che si stanno facendo molti progressi nella conoscenza della schizofrenia stabilendo o osservando correlazioni e procedendo nella scoperta di parametri che sembrano riferirsi all'andamento non lineare di "r(a)". Ma un altro collega disse che, alla mia età, potevo permettermi di dire qualunque cosa. Grazie a questo privilegio, rispondo al mio primo collega che lo sapevo già. Ho visto così tanti parametri e correlazioni sulla schizofrenia cambiare in continuazione, che la sua fiducia sembra essere basata più su un entusiasmo giovanile verso la scienza che sulla probabilità che si stiano facendo effettivi progressi". Il testo completo di Hathaway è apparso in traduzione italiana nel volume La diagnosi testologica (a cura di Franco Del Corno e Margherita Lang, Franco Angeli Editore, 1989) con il titolo: Dove abbiamo sbagliato? Il mistero del progresso scomparso, ma gli studenti oggi non lo possono più leggere perché nella riedizione del 1997 sono riapparsi tutti gli altri saggi tranne questo. Onori alla scientificità della ricerca e all'onestà intellettuale. Per chi oggi ne vuol sapere qualcosa consiglio l'ottimo lavoro di Maria Armezzani, L'indagine di personalità (La Nuova Italia Scientifica, 1995) dove c'è un paragrafo dedicato al ripensamento di Hathaway, con un riassunto e la trascrizione di molti passi, nonché i cambiamenti intervenuti nella somministrazione del test, che però riguardano solo la standardizzazione su nuovi campioni e lo svecchiamento di alcuni item, ma non la struttura dell'inventario che resta ancorata alle stesse superate categorie per giunta rinnegate dal suo ideatore. Contro questo modo di fare psicologia e psichiatria, in Italia conducono la loro quasi solitaria battaglia gli psichiatri Bruno Callieri da un lato ed Eugenio Borgna dall'altro.
Quest'ultimo autore di saggi fondamentali sulla depressione, la schizofrenia, l'angoscia, che ciascuno, e non solo lo specialista, può leggere nelle Edizioni Feltrinelli per scoprire cosa si nasconde in ogni anima che non voglia comprimere e pietrificare nelle definizioni psichiatriche stati d'animo fluttuanti e mutevoli, esperienze vissute, ferite inferte e lacerazioni subite che sembrano allontanare chi ne è afflitto da una "norma" che resta comunque e sempre problematica e astratta. Nel suo ultimo libro: Noi siamo un colloquio, Borgna adotta per titolo l'espressione di Holderlin per significare che non si dà diagnosi e cura se si trascura quel tratto specifico dell'uomo (che la psicopatologia a indirizzo fenomenologico non si stanca di ribadire) che è quello di essere in perenne comunicazione con sé e con gli altri, per cui in ogni dialogo, in ogni colloquio siamo aperti al mondo degli altri e al nostro mondo interiore nella loro continua e dialettica correlazione.
Talvolta, scrive Borgna, "quando siamo lambiti o sommersi dalla tristezza, che è il nocciolo segreto di ogni depressione, il dialogo con la nostra interiorità continua, ma quello con il mondo degli altri si attenua e si smorza, fino a inaridirsi e a perdersi nella solitudine ancora virtualmente aperta, del resto, a qualche scheggia dialogica e colloquiale". Chiudere quest'apertura con diagnosi "oggettive" e con cure esclusivamente farmacologiche, significa spegnere non solo il colloquio con gli altri, ma anche il colloquio con se stessi, svuotandolo di ogni significato e inaridendolo in un deserto dove nessuno più chiama e il silenzio si fa assordante. Senza colloquio c'è il misconoscimento della soggettività e di quel che si muove nei suoi abissi. E certamente non è possibile restaurare la soggettività, sempre cercata e sempre perduta, con pratiche terapeutiche che non hanno in vista il soggetto, ma solo il sintomo e il disturbo sociale che arreca. Sin-tomo è parola greca che significa "accadere insieme". Insieme al sintomo accade un vissuto soggettivo che la psicopatologia cerca di "comprendere" (in senso jaspersiano) mentre la psichiatria a orientamento naturalistico cerca di "spiegare" con il metodo della scienza e della natura, ottenendo come risultato quello che Jaspers scrive nella sua Psicopatologia generale: "è possibile spiegare qualcosa senza comprenderlo", perché la "spiegazione" prescinde dalla soggettività a cui la "comprensione" si rivolge. Ma per questo occorre "in relazione", "essere in dialogo" anche se, come già scriveva Kafka: "Prescrivere ricette è facile, parlare con la gente è molto più difficile".
Partendo dagli abissi della soggettività, oscillando intorno a quel limite che si muove tra il comprensibile e l'incomprensibile, Borgna sviluppa una psicopatologia della condizione depressiva, della condizione isterica, di quella paranoica, di quella delirante e di quella tossica dove scorge una fuga dalle condizioni di vuoto esistenziale e un tentativo disperato di riempire questo vuoto assegnando alla droga il compito di far brillare in modo "stupefacente" un senso nel deserto dell'insignificanza. Accostare la tossicodipendenza dall'esterno, come avviene nei centri deputati alla distribuzione controllata ma indifferente del metadone, significa allontanarsi già da subito dalle strutture profonde del tossicodipendente. Significa "non essere in colloquio", e come dice Holderlin "non potersi ascoltare l'un l'altro". Con l'avvertenza che il poter ascoltare non è una conseguenza che deriva dal parlare insieme, ma ne è piuttosto il presupposto.
"La psicopatologia - conclude Borgna - è una disciplina debole e indifesa nel contesto di una psichiatria nella quale la farmacologia e l'indifferenza al dialogo (al colloquio) abbiano a dilagare con il timbro trionfale di molta musica wagneriana; ma, nel ritorno alla psicopatologia (nel ritorno all'interiorità come area tematica di ogni psichiatria), mi sembra di cogliere una modalità di riflessione che consenta alla psichiatria di non morire nel deserto della routine e nella banalizzazione delle cose".
Agli studenti di psicologia con indirizzo clinico di Padova che chiedono come si può comprendere, al di là dei test, il disagio e la sofferenza a cui la loro laurea dovrebbe in qualche modo abilitarli, consiglio loro di dedicare un bel po'del loro tempo ai libri di psicopatologia, magari incominciando proprio da quest'ultimo di Eugenio Borgna: Noi siamo un colloquio, perché altrimenti siamo una solitudine chiusa in se stessa. E sotto le apparenze della professionalità, che ostenta sicurezza e ottiene riconoscimento sociale, siamo un'isola che dolorosamente non riesce a farsi dialogo, quando invece è proprio questo il compito dello psicologo e dello psichiatra.
(Umberto Galimberti)