Articolo di Douglas Berger, Southern Illinois University, USA, pubblicato sull'Internet Encyclopedia of Philosophy
Questa è una mia traduzione temporanea non revisionata e non autorizzata, per ogni dubbio fate riferimento alla versione in inglese.
Nagarjuna (150 ca. - 250 ca.)
Spesso indicato come "il secondo Buddha" dalle tradizioni buddiste Mahayana (Grande Veicolo) tibetane e dell'Asia orientale, Nagarjuna ha proposto aspre critiche alla filosofia sostanzialista braminica e buddista, alla teoria della conoscenza e agli approcci alla pratica. La filosofia di Nagarjuna rappresenta una sorta di spartiacque non solo nella storia della filosofia indiana, ma nella storia della filosofia nel suo complesso, poiché mette in discussione alcuni presupposti filosofici a cui si ricorre facilmente nel tentativo di comprendere il mondo. Tra questi presupposti vi sono l'esistenza di sostanze stabili, il movimento lineare e unidirezionale della causalità, l'individualità atomica delle persone, la credenza in un'identità fissa o in un'autostima, e le rigide separazioni tra buona e cattiva condotta e tra vita benedetta e vita grama. Tutti questi presupposti sono messi in discussione dalla prospettiva unica di Nagarjuna, che si fonda sull'intuizione del vuoto (sunyata), un concetto che non significa "non esistenza" o "nichilismo" (abhava), ma piuttosto mancanza di esistenza autonoma (nihsvabhava). La negazione dell'autonomia secondo Nagarjuna non ci lascia un senso di privazione metafisica o esistenziale, una perdita della sperata indipendenza e libertà, ma ci offre invece un senso di liberazione attraverso la dimostrazione dell'interconnessione di tutte le cose, compresi gli esseri umani e il modo in cui la vita umana si svolge nel mondo naturale e sociale. Il concetto centrale di Nagarjuna della "vacuità (sunyata) di tutte le cose (dharma)", che indica la natura incessantemente mutevole e quindi mai fissa di tutti i fenomeni, è servito tanto come puntello terminologico del successivo pensiero filosofico buddista quanto come vessazione dei sistemi vedici contrapposti. Il concetto ebbe implicazioni fondamentali per i modelli filosofici indiani di causalità, per l'ontologia della sostanza, per l'epistemologia, per le concettualizzazioni del linguaggio, per l'etica e per le teorie della salvezza liberatrice del mondo, e si rivelò fondamentale anche per le filosofie buddiste dell'India, del Tibet, della Cina e del Giappone molto diverse da quella di Nagarjuna. Non sarebbe infatti esagerato affermare che l'innovativo concetto di vuoto di Nagarjuna, sebbene sia stato ermeneuticamente appropriato in molti modi diversi dai filosofi successivi sia nel Sud che nell'Est asiatico, avrebbe influenzato profondamente il carattere del pensiero buddista.
Indice dei contenuti
- Vita, leggenda e opere di Nagarjuna
- Il metodo scettico di Nagarjuna e i suoi obiettivi
- Contro il sostanzialismo mondano e finale
- Contro la prova
- Il nuovo spazio e la nuova missione buddhista
- Riferimenti e ulteriori letture
1. Vita, leggenda e opere di Nagarjuna
Si sa pochissimo della vita reale del Nagarjuna storico. Le due più ampie biografie di Nagarjuna, una in cinese e l'altra in tibetano, sono state scritte molti secoli dopo la sua vita e contengono molto materiale vivace ma storicamente inattendibile, che a volte raggiunge proporzioni mitiche. Tuttavia, dagli abbozzi di dettagli storici e dalla leggenda di natura pedagogica, combinati con i testi ragionevolmente attribuiti a lui, si può avere un'idea del suo posto nella tradizione buddista e filosofica indiana.
Nagarjuna nacque come "indù", il che ai suoi tempi implicava la fedeltà religiosa ai Veda, probabilmente in una famiglia bramina di casta superiore e probabilmente nella regione meridionale dell'Andhra dell'India. Le date della sua vita sono altrettanto amorfe, ma due testi che potrebbero essere stati scritti da lui offrono un aiuto. Si tratta di epistole indirizzate al re storico della dinastia Satvahana settentrionale Gautamiputra Satakarni (regnante intorno al 166-196 d.C.), il cui costante patrocinio braminico, le continue battaglie contro i potenti governanti Shaka Satrap settentrionali e i cui ambiziosi ma alla fine fallimentari tentativi di espansione sembrano indicare che non riuscì a seguire il consiglio di Nagarjuna di adottare il pacifismo buddista e mantenere un regno pacifico. In ogni caso, la corrispondenza imperiale collocherebbe gli anni significativi della vita di Nagarjuna tra il 150 e il 200 d.C.. Le fonti tibetane, quindi, potrebbero essere sostanzialmente accurate nel descrivere l'emigrazione di Nagarjuna dall'Andhra per studiare il buddismo a Nalanda, nell'attuale Bihar, la futura sede del più grande monastero buddista di apprendimento scolastico nella storia orgogliosa di questa tradizione in India. Questa emigrazione verso il nord seguì forse il percorso degli stessi re Shaka. Nella vivace vita intellettuale di un'India settentrionale non molto tranquilla, Nagarjuna si affermò come filosofo.
L'occasione della "conversione" di Nagarjuna al buddismo è incerta. Secondo il racconto tibetano, era stato predetto che Nagarjuna sarebbe morto in giovane età, così i suoi genitori decisero di evitare questo terribile destino iscrivendolo all'ordine buddista, dopo di che la sua salute migliorò prontamente. Si trasferì quindi a nord e iniziò la sua opera di tutela. L'altra leggenda cinese, più colorita, racconta di un giovane adolescente diabolico che usa i poteri magici dello yoga per intrufolarsi, con alcuni amici, nell'harem del re e sedurre le sue amanti. Nagarjuna riuscì a fuggire quando furono scoperti, ma i suoi amici furono tutti arrestati e giustiziati e, rendendosi conto di quanto fosse precaria la ricerca dei desideri, Nagarjuna rinunciò al mondo e cercò l'illuminazione. Dopo essersi convertito, l'abilità di Nagarjuna nella magia e nella meditazione gli valse un invito sul fondo dell'oceano, sede del regno dei serpenti. Lì, l'iniziato prodigio "scoprì" la "letteratura sapienziale" della tradizione buddista, nota come Sutra Prajnaparamita, e, in virtù dei suoi grandi meriti, la restituì al mondo; da allora fu conosciuto con il nome di Nagarjuna, il "nobile serpente".
Nonostante la tradizione insista sul fatto che sia stata l'immersione nei testi scritturali dei movimenti concorrenti del buddismo classico Theravada e dell'emergente "Grande Veicolo" (Mahayana) a stimolare gli scritti di Nagarjuna, sono rari i riferimenti estesi ai primi e voluminosi sutra buddisti classici e ai testi Mahayana che allora venivano composti nella lingua scelta da Nagarjuna, il sanscrito. È molto più probabile che Nagarjuna si sia nutrito dei nuovi ed entusiasmanti dibattiti filosofici scolastici che si stavano diffondendo in tutta l'India settentrionale tra i pensatori bramini e buddisti. Il buddismo era forse la più antica visione sistematica del mondo in competizione sulla scena, ma le scuole vediche come il Samkhya, che divideva il cosmo in entità spirituali e materiali, lo Yoga, la disciplina della meditazione, e il Vaisesika, o atomismo, erano probabilmente già consolidate. Ma nelle sale di dibattito stavano accadendo cose nuove ed eccitanti. Una nuova scuola vedica di logica (Nyaya) stava facendo il suo debutto letterario, proponendo un elaborato realismo che categorizzava i tipi di cose conoscibili di base nel mondo, formulando una teoria della conoscenza che doveva servire come base per tutte le pretese di verità e tracciando una teoria completa dell'argomentazione logica corretta e fallace. Parallelamente, all'interno del campo buddista, emersero sette di metafisici con le proprie dottrine sull'atomismo e sulle categorie fondamentali della sostanza. Nagarjuna si impegnò con forza in questi nuovi movimenti braminici e buddisti, un'impresa intellettuale fino ad allora inedita.
Nagarjuna vide nel concetto di sunya, che nella prima letteratura buddista pali connotava la mancanza di un'esistenza stabile e intrinseca nelle persone, ma che dal III secolo a.C. indicava anche il numero "zero", di recente formulazione, la chiave interpretativa del cuore dell'insegnamento buddista e la sconfitta di tutte le scuole filosofiche metafisiche che all'epoca fiorivano intorno a lui. La filosofia di Nagarjuna, infatti, può essere vista come un tentativo di decostruire tutti i sistemi di pensiero che analizzavano il mondo in termini di sostanze ed essenze fisse. Secondo Nagarjuna, infatti, le cose mancano di essenza, non hanno una natura fissa, ed è solo grazie a questa mancanza di un essere essenziale e immutabile che il cambiamento è possibile, che una cosa può trasformarsi in un'altra. Ogni cosa può esistere solo grazie alla sua mancanza (sunyata) di essenza intrinseca ed eterna. Con questo nuovo concetto di "vuoto", "nullità", "mancanza" di essenza, "zeroness", questo prodigio alquanto improbabile avrebbe contribuito a plasmare per sempre il vocabolario e il carattere del pensiero buddista.
Armato della nozione di "vuoto" di tutte le cose, Nagarjuna costruì il suo corpus letterario. Sebbene si discuta ancora su quali dei testi che portano il suo nome possano essere attribuiti con certezza a Nagarjuna, la letteratura scientifica sembra aver raggiunto un accordo generale. Poiché non si conosce l'ordine cronologico in cui sono stati prodotti i suoi scritti, la cosa migliore che si possa fare è quella di ordinarli tematicamente in base alle opere di argomento buddhista, a quelle di argomento braminico e infine all'etica, Nagarjuna scrisse i Versi fondamentali sulla Via di Mezzo (Mulamadhyamakakarika) e poi, per perfezionare ulteriormente il suo concetto appena coniato e rivoluzionario, i Settanta Versi sul Vuoto (Sunyatasaptati), seguiti da un trattato sul metodo filosofico buddhista, i Sessanta Versi sul Ragionamento (Yuktisastika). . Tra le opere rivolte ai buddisti potrebbe essere stato incluso un altro trattato sul mondo empirico condiviso e sulla sua costituzione attraverso le consuetudini sociali, intitolato Prova della convenzione (Vyavaharasiddhi), che però, a parte alcuni versi citati, ci è perduto, nonché un libro di istruzioni sulla pratica, citato da un indiano e da alcuni commentatori cinesi, la Preparazione all'illuminazione (Bodhisambaraka). Infine, un'opera didattica sulla teoria causale del Buddhismo, i Costituenti della dipendenza (Pratityasumutpadahrdaya). Seguono una serie di opere sul metodo filosofico, che per la maggior parte sono critiche reazionarie alle categorie sostanzialistiche ed epistemologiche brahminiche, La fine delle dispute (Vigrahavyavartani) e il non troppo velatamente intitolato Polverizzare le categorie (Vaidalyaprakarana). Infine, un paio di trattati religiosi ed etici indirizzati al re Gautamiputra, intitolati A un buon amico (Suhrlekha) e Ghirlanda preziosa (Ratnavali). Nagarjuna fu quindi un autore piuttosto attivo, affrontando le questioni filosofiche più urgenti del buddismo e del brahmanesimo del suo tempo e, soprattutto, portando le sue idee buddiste nel campo della filosofia sociale, etica e politica.
Anche in questo caso non si sa con precisione quanto visse Nagarjuna. Ma la storia leggendaria della sua morte è ancora una volta un tributo al suo status nella tradizione buddista. Le biografie tibetane raccontano che, quando il successore di Gautamiputra stava per salire al trono, era ansioso di trovare un sostituto come consigliere spirituale che si adattasse meglio alle sue preferenze brahmaniche e, non sapendo come trattare delicatamente o diplomaticamente Nagarjuna, chiese apertamente al saggio di accogliere e mostrare compassione per la sua situazione suicidandosi. Nagarjuna acconsentì e fu decapitato con un filo d'erba sacra che lui stesso, qualche tempo prima, aveva accidentalmente sradicato mentre cercava materiale per il suo cuscino di meditazione. L'indomito logico poteva essere abbattuto solo dalla sua stessa volontà e dalla sua stessa arma. Che sia vero o no, questo maestro del metodo scettico avrebbe apprezzato l'ironia.
2. Il metodo scettico di Nagarjuna e i suoi obiettivi
Il cuore di ciò che viene chiamato scetticismo è il dubbio, una sospensione del giudizio su alcuni stati di cose o sulla correttezza di alcune affermazioni. Naturalmente ci sono molte cose, sia nel mondo che nelle affermazioni che le persone fanno sul mondo, che possono essere messe in dubbio, interrogate, rifiutate o lasciate in sospeso scetticamente. Ma oltre alle molte cose diverse di cui si può dubitare, ci sono anche diversi modi di dubitare. Il dubbio può essere casuale, come quando una persona vede un'altra persona di notte e non è sicura che sia sua amica; può essere di principio, come quando uno scienziato rifiuta di prendere in considerazione cause non materiali o divine in un processo fisico che sta studiando; può essere sistematico, come quando un filosofo dubita delle spiegazioni convenzionali del mondo, solo alla ricerca di una spiegazione più fondamentale e onnicomprensiva dell'esperienza, alla maniera di Socrate, Cartesio o Husserl (Nagarjuna era per lo più uno scettico di questo tipo). Può anche essere onnicomprensiva e autoriflessiva, un atteggiamento dimostrato dal filosofo greco Pirro, che dubitava di tutte le affermazioni, compresa la sua stessa affermazione di dubitare di tutte le affermazioni. Di conseguenza, esistono tanti tipi diversi di scettici quanti sono i diversi tipi o modi di dubitare. Nagarjuna era considerato uno scettico nella sua stessa tradizione filosofica, sia dagli avversari brahmanici che dai lettori buddisti, e questo perché metteva in discussione i presupposti categoriali di base e i criteri di prova assunti da quasi tutti nella tradizione indiana come assiomatici. Tuttavia, nonostante questo scetticismo, Nagarjuna credeva che il dubbio non dovesse essere casuale, ma richiedesse un metodo. Questa idea che il dubbio debba essere metodico, nata nel buddismo delle origini, fu una novità rivoluzionaria per la filosofia indiana. Nagarjuna porta la novità di questa idea ancora più in là, suggerendo che il metodo del dubbio di scelta non dovrebbe nemmeno essere il proprio, ma piuttosto dovrebbe essere temporaneamente preso in prestito dalla stessa persona con cui si sta discutendo! Ma alla fine Nagarjuna era convinto che questo scetticismo disciplinato e metodico portasse da qualche parte, cioè alla saggezza ultima che era al centro degli insegnamenti del Buddha.
L'interpretazione filosofica standard del dubbio nel pensiero indiano è stata spiegata nella scuola di logica vedica (Nyaya). Gautama Aksapada, l'autore del testo fondamentale dei logici bramini, era probabilmente un contemporaneo di Nagarjuna. Egli formulò quella che a quel tempo doveva essere una distinzione tradizionale tra due tipi di dubbio. Il primo è il dubbio casuale su un oggetto che tutte le persone sperimentano nella loro vita quotidiana, quando si incontra qualcosa nell'ambiente e per varie ragioni lo si scambia per qualcos'altro a causa dell'incertezza su cosa sia esattamente l'oggetto. Gli esempi più comuni utilizzati nei testi indiani sono: vedere una corda e scambiarla per un serpente, oppure vedere una conchiglia nella sabbia e scambiarla per argento. Il dubbio che può sorgere quando ci si rende conto di essersi sbagliati o di non essere sicuri di un particolare oggetto può essere corretto da una cognizione successiva, ad esempio osservando più da vicino la corda o facendosi dire da un compagno che l'oggetto nella sabbia è una conchiglia e non argento. La cognizione correttiva rimuove il dubbio offrendo una sorta di prova conclusiva su cosa sia l'oggetto in questione. L'altro tipo di dubbio è il dubbio categorico, esemplificato in particolare da un filosofo che può interrogarsi o dubitare di varie categorie dell'essere, come l'esistenza di Dio, i tipi di sostanze fisiche esistenti o la natura del tempo. Per risolvere quest'ultimo tipo di dubbio filosofico, il metodo preferito dai logici era il dibattito formale. I dibattiti fornivano uno spazio in cui i giudici presiedevano, stabilivano le regole per l'argomentazione e la contro-argomentazione, riconoscevano le fallacie logiche e le forme corrette di inferenza e due interlocutori in cerca della verità svolgevano tutti il loro ruolo per stabilire la posizione corretta. Il punto è che, secondo il pensiero tradizionale braminico, era possibile una conoscenza oggettiva certa e corretta del mondo; in linea di principio si poteva conoscere qualsiasi cosa si volesse sapere, da cosa sia quell'oggetto che giace nell'oscurità ai tipi di causalità che operano nel mondo, fino all'esistenza e alla volontà di Dio per gli esseri umani. Lo scetticismo, pur essendo un atteggiamento naturale e un aiuto fondamentale per gli esseri umani sia nella vita quotidiana che in quella riflessiva, può essere superato a patto che ci si armi dei metodi di prova forniti dalla logica del buon senso. Per il Nyaya, mentre tutto e niente può essere messo in dubbio, ogni dubbio può essere risolto. Il logico brahmanico, il Naiyayika, è un cauto e realista ma convinto ottimista filosofico.
I primi buddisti non erano altrettanto sicuri della possibilità di una conoscenza ultima del mondo. Infatti, il fondatore della tradizione, Siddharta Gautama Sakyamuni (il "Buddha" o "risvegliato"), notoriamente si rifiutava di rispondere a domande su ariose riflessioni metafisiche come "Il mondo ha un inizio o no?", "Dio esiste?" e "L'anima perisce dopo la morte o no?". Convinto che la conoscenza umana fosse più adatta e più utile per la diagnosi e la cura delle ossessioni e degli attaccamenti psicologici autodistruttivi degli esseri umani, il Buddha paragonò una persona convinta di poter trovare le risposte a queste domande ultime a un soldato ferito a morte su un campo di battaglia che, morendo a causa del veleno trasportato da una freccia, pretende di sapere tutto sul suo tiratore prima di essere portato da un medico. La conoscenza definitiva non può essere raggiunta, o almeno non può essere raggiunta prima che le follie e le fragilità della vita umana portino alla disperazione. A meno che gli esseri umani non raggiungano l'illuminazione meditativa e auto-riflessiva, l'ignoranza avrà sempre il sopravvento sulla conoscenza nelle loro vite, e questa è la situazione difficile che devono risolvere per alleviare la loro sofferenza mal compresa. I primi testi tradizionali mostrano come il Buddha abbia sviluppato un metodo per rifiutare di rispondere a tali domande alla ricerca della conoscenza metafisica ultima, un metodo che è stato soprannominato la negazione dei "quattro errori" (catuskoti). Alla domanda, ad esempio, se il mondo abbia o meno un inizio, un buddista dovrebbe rispondere negando tutte le risposte logicamente alternative alla domanda: "No, il mondo non ha un inizio, non manca di avere un inizio, non ha e non ha un inizio, né ha né non ha un inizio". Questa negazione non è considerata logicamente difettosa nel senso che viola la legge del mezzo escluso [detta anche "principio del terzo escluso", n.d.t.] (A non può avere sia B che non B), perché questa negazione è più un rifiuto di principio di rispondere che una contro-tesi, è più una decisione che una proposizione. In altre parole, non si può obiettare a questa negazione dei "quattro errori" dicendo semplicemente "il mondo o ha un inizio o non ce l'ha", perché il Buddha sta raccomandando ai suoi seguaci di non prendere posizione sulla questione (nella moderna logica proposizionale questa è nota come illocuzione). Questa negazione era raccomandata perché interrogarsi su tali questioni era considerato dal Buddha come una perdita di tempo prezioso, tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al compito molto più importante e fattibile della padronanza psicologica di sé. I primi buddisti, a differenza delle loro controparti filosofiche braminiche, erano scettici. Ma, a loro avviso, il loro scetticismo non li rendeva pessimisti, ma al contrario ottimisti, perché anche se la mente umana non poteva rispondere alle domande ultime, era in grado di diagnosticare e curare le proprie malattie fondamentali, e questo era sicuramente sufficiente.
Ma nei quattro-sei secoli che intercorrono tra la vita di Siddartha Gautama e quella di Nagarjuna, i buddisti, sentendo il bisogno di spiegare la loro visione del mondo in un ambiente filosofico nord-indiano in continua espansione, scambiarono il loro scetticismo con la teoria. Gli impegni dottrinali fondamentali del buddismo, come l'insegnamento dell'impermanenza di tutte le cose, il rifiuto buddista di un'identità personale persistente e il rifiuto di ammettere universali naturali come il "verde", il "rosso" e simili, furono messi in discussione dai filosofi bramini. Come si fa, si chiedevano gli oppositori vedici, a difendere l'idea che la causalità governa il mondo fenomenico e contemporaneamente a sostenere che non esiste una transizione temporale misurabile dalla causa all'effetto, come sembravano sostenere i buddisti? Come mai, se i buddisti hanno ragione nel supporre che non esista un ego duraturo che persista nelle nostre vite vissute, tutte le mie esperienze e cognizioni sembrano appartenere a me come soggetto unitario? Perché, se tutte le cose possono essere ridotte all'universo buddista di un flusso di atomi in continua evoluzione, gli oggetti stabili e interi sembrano circondarmi nel mio ambiente di vita? Di fronte a queste sfide, i monaci studiosi hanno partecipato con entusiasmo ai dibattiti per rendere spiegabile la visione del mondo buddista. In seguito a questi scambi si svilupparono alcune importanti scuole di pensiero buddista, le due più importanti delle quali furono la Sarvastivada ("Esistenza universale") e la Sautrantika ("Vera dottrina"). In varie forme, esse proponevano teorie che descrivevano l'efficacia causale come presente in tutte le dimensioni del tempo o istantanea, l'identità personale come il prodotto psicologico di stati mentali complessi e interrelati e, cosa forse più importante, gli oggetti apparentemente stabili della nostra esperienza vissuta come semplici composti di sostanze elementari e irriducibili con una "natura propria" (svabhava). Attraverso le esigenze che queste scuole cercavano di soddisfare, il buddismo entrò nel mondo della filosofia, del dibattito, della tesi e della verifica, della rappresentazione del mondo. I monaci buddisti divennero non solo teorici, ma alcuni dei più sofisticati teorici del mondo intellettuale indiano.
Per secoli si è discusso su come collocare Nagarjuna in questo contesto filosofico. Deve essere visto come un buddista conservatore e tradizionale, che difende il consiglio del Buddha stesso di evitare la teoria? Deve essere inteso come un buddista del "Grande Veicolo", che risolve controversie che non esistono affatto nel buddismo tradizionale, ma che sono comprensibili solo a un mahayanista? Potrebbe anche essere uno scettico radicale, come sembravano considerarlo i suoi primi lettori bramini, che nonostante la sua ostentazione della filosofia sposava posizioni che solo un filosofo poteva apprezzare? Nagarjuna sembra essersi inteso come un riformatore, in primo luogo un riformatore buddista, certo, ma sospettoso del fatto che la sua amata tradizione religiosa fosse stata attirata, contro il parere del suo stesso fondatore, nei giochi della metafisica e dell'epistemologia da vecchie ma ancora seducenti abitudini intellettuali braminiche. La teoria non era, come pensavano i bramini, la condizione della pratica, e nemmeno, come cominciavano a credere i buddisti, la giustificazione della pratica. La teoria, secondo Nagarjuna, era nemica di ogni forma di pratica legittima, sociale, etica e religiosa. La teoria deve essere distrutta attraverso la dimostrazione che le sue conclusioni metafisiche buddiste e i processi di ragionamento braminici che vi conducono sono contraffatti, senza alcun valore reale per le attività autenticamente umane. Ma per dimostrare un tale impegno, il dubbio doveva essere metodico, così come era metodica la filosofia che doveva minare.
Il metodo suggerito da Nagarjuna per portare a termine la disfatta della teoria non era, curiosamente, un metodo di sua invenzione. Egli riteneva più pragmatico prendere in prestito i metodi filosofici di ragionamento, in particolare quelli volti a smascherare le argomentazioni errate, per confutare le affermazioni e gli assunti dei suoi avversari filosofi. Questa era la strategia da scegliere perché, se si accettano provvisoriamente i concetti e le regole di verifica dell'avversario, la confutazione della posizione dell'avversario sarà ancora più convincente per l'avversario che se si rifiutasse semplicemente il sistema dell'avversario. Questa accettazione provvisoria e temporanea delle categorie e dei metodi di prova dell'avversario è dimostrata dal modo in cui Nagarjuna impiega stili e approcci argomentativi diversi a seconda che stia scrivendo contro i bramini o contro i buddisti. Tuttavia, egli adatta leggermente e sottilmente ciascuno dei rispettivi sistemi per soddisfare i propri scopi argomentativi.
Per quanto riguarda i metafisici e gli epistemologi bramini, Nagarjuna accetta le forme di fallacie logiche delineate dai logici e accetta di entrare nel loro stesso formato di dibattito. Ma sceglie una variante di un formato di dibattito che, pur essendo riconosciuto come una forma di discorso praticabile, non era molto gradito ai Nyaya. Il dibattito standard del Nyaya, chiamato vada o dibattito sulla "verità", mette l'uno contro l'altro due interlocutori che portano al dibattito tesi opposte (pratijna o paksa) su un dato argomento, per esempio un sostenitore del Nyaya che difende la tesi che la testimonianza verbale autorevole è una forma accettabile di prova e un sostenitore buddista che sostiene che tale testimonianza non è una verifica autonoma ma può essere ridotta a una sorta di inferenza. Ciascuna di queste posizioni contrapposte servirà quindi come ipotesi di un argomento logico da dimostrare o confutare, e la persona che confuterà l'argomento dell'avversario e stabilirà il proprio vincerà il dibattito. Tuttavia, esisteva una varietà di questo tipo di formato standard che i logici chiamavano vitanda o dibattito "distruttivo". Nel vitanda, il proponente di una tesi cerca di affermarla contro un avversario che si limita a confutare il punto di vista del proponente, senza affermare o anche solo sottintendere il proprio. Se l'avversario della tesi proposta non è in grado di confutarla, perderà; ma perderà anche se, nel confutare la tesi dell'avversario, si troverà ad affermare o a sottintendere una contro-tesi. Ora, se da un lato i Naiyayika braminici consideravano questo formato una buona pratica logica per lo studente, dall'altro non ritenevano che il vitanda fosse la forma ideale di discorso filosofico, perché se da un lato poteva eventualmente smascherare le tesi false, dall'altro non poteva, anzi non era concepito per, stabilire la verità, e a cosa servono la ragione o l'analisi filosofica se non perseguono o non possono perseguire e raggiungere la verità?
Da parte sua, Nagarjuna accetterebbe di partecipare a un dibattito filosofico solo come vaitandika, impegnato a distruggere le posizioni metafisiche ed epistemologiche dei sostenitori bramini, senza che ciò renda necessario un contrapposto. A tal fine, Nagarjuna si armò di tutta la batteria di controrepliche accettate agli argomenti fallaci che i logici avevano da tempo autorizzato, come il regresso infinito (anavastha), la circolarità (karanasya asiddhi) e il principio vacuo (vihiyate vadah) per attaccare le posizioni metafisiche ed epistemologiche che riteneva problematiche. Va notato che le scuole di pensiero buddiste indiane più tardive, molto popolari e influenti, ossia le scuole della Cognizione (Vijnanavada) e della Logica buddista (Yogacara-Sautranta), rifiutarono questa posizione puramente scettica di Nagarjuna e andarono a fondare le proprie dottrine positive della coscienza e della conoscenza, e fu solo con le successive scuole di buddismo più sintetiche del Tibet e dell'Asia orientale che gli approcci antimetafisici e anticognitivisti di Nagarjuna guadagnarono simpatia. Non c'è dubbio, tuttavia, che tra i suoi avversari vedici e i successivi commentatori madhyamika la strategia della "sola confutazione" di Nagarjuna fu molto provocatoria e scatenò continue polemiche. Ma, a suo parere, solo impiegando il metodo braminico contro la pratica braminica si potevano mostrare la società e la religione vedica per quello che lui riteneva fossero, ovvero legittimazioni autoritarie della società delle caste che usavano i miti di Dio, della rivelazione divina e dell'anima come razionalizzazioni, e non le ragioni giustificate che si pretendeva fossero.
Contro il sostanzialismo buddista, Nagarjuna riprese la negazione dei "quattro errori" (catuskoti) del Buddha stesso, ma le diede un taglio più definitivamente logico rispetto al precedente impiego pratico di Suddhartha Gautama. Fino a questo momento nella tradizione buddista indiana c'erano stati due scettici di rilievo, uno dei quali era il Buddha stesso e l'altro un saggio del III secolo di nome Moggaliputta-tissa, che aveva vinto diversi dibattiti cruciali contro una serie di gruppi settari tradizionali su richiesta dell'imperatore mauryano Asoka e aveva di conseguenza scritto il primo grande manuale di dibattito della tradizione. Mentre il Buddha aveva previsto il metodo dei "quattro errori" per scoraggiare la difesa delle posizioni metafisiche e religiose tradizionali, Moggaliputta-tissa costruì un formato di discussione che esaminava varie dispute dottrinali del buddhismo delle origini, che, a suo avviso, rappresentavano posizioni ugualmente logicamente non valide e che quindi non dovevano essere affermate (no ca vattabhe). Forse ispirato da questo approccio scettico logicamente affilato, Nagarjuna affinò il metodo dei "quattro errori" dallo strumento strettamente illocutivo e pragmatico che era stato nel buddhismo delle origini, in una macchina logica che dissolveva le posizioni metafisiche buddhiste che stavano crescendo di influenza. Al tempo di Nagarjuna, le principali scuole buddiste avevano accettato che le cose del mondo dovevano essere costituite da elementi metafisicamente fondamentali che avevano una loro essenza fissa (svabhava), altrimenti non ci sarebbe stato modo di spiegare le persone, i fenomeni naturali o il processo causale e karmico che li determinava. Senza supporre, ad esempio, che le persone abbiano una natura fondamentalmente fissa, non si potrebbe dire che un individuo in particolare stia soffrendo, né che un monaco in particolare che abbia perfezionato la sua disciplina e la sua saggezza abbia ottenuto l'illuminazione e la liberazione dalla rinascita nel nirvana. Senza una nozione di essenza, pensavano i contemporanei di Nagarjuna, le affermazioni buddiste non potevano avere senso e la pratica buddista non poteva fare nulla di buono, non poteva produrre un reale cambiamento del carattere umano.
La risposta di Nagarjuna fu quella di "catturare" questa posizione metafisica della pratica buddista nelle spire dei "quattro errori", dimostrando che il cambiamento che il buddismo cercava era realmente possibile solo se le persone non avevano essenze fisse. Infatti, se si esamina veramente il cambiamento, si scopre che, secondo i catuskoti, il cambiamento non può prodursi da solo, né può essere introdotto da un'influenza estrinseca, né può derivare sia da se stesso che da un'influenza estrinseca, né da nessuna influenza. Tutte le alternative logiche di una determinata posizione vengono testate e bocciate con il metodo dei "quattro errori". Ci sono ragioni logiche fondamentali per cui tutte queste posizioni falliscono. Innanzitutto sarebbe incoerente (no papadyate) supporre che qualsiasi cosa con una natura o un'essenza fissa (svabhava) possa cambiare, poiché tale cambiamento violerebbe la sua natura fissa e quindi distruggerebbe la premessa originale. Inoltre, non sperimentiamo empiricamente nulla che non cambi, e quindi non conosciamo mai (na vidyate) essenze fisse nel mondo che ci circonda. Ancora una volta, il metodo del proponente è stato ripreso in modo ingegnoso per minare le sue conclusioni. Le regole del gioco filosofico sono state rispettate, ma in questo caso non per ottenere la vittoria, bensì per dimostrare a tutti i giocatori che il gioco era sempre stato solo quello, un semplice gioco che non aveva conseguenze reali sostenibili.
Nagarjuna si è giustamente meritato l'etichetta di scettico, perché si impegna a smontare le posizioni teoriche ovunque le trovi, e lo fa in modo metodicamente logico. Come gli scettici della tradizione greca classica, che pensavano che il dubbio risolto sulle asserzioni dogmatiche sia in filosofia che nella vita sociale potesse condurre l'individuo alla pace della mente, per Nagarjuna lo scetticismo non porta da nessuna parte. Al contrario, è la chiave stessa dell'intuizione. Infatti, nel processo di smantellamento di tutte le posizioni metafisiche ed epistemologiche, si giunge all'unica conclusione possibile per Nagarjuna, ossia che tutte le cose, i concetti e le persone non hanno un'essenza fissa, e questa mancanza di essenza fissa è proprio il motivo per cui e come possono essere suscettibili di cambiamento, trasformazione ed evoluzione. Il cambiamento è proprio il motivo per cui le persone vivono, muoiono, rinascono, soffrono e possono essere illuminate e liberate. Il cambiamento è possibile solo se le entità e il modo in cui le concettualizziamo sono privi o vuoti (sunya) di qualsiasi essenza eterna, fissa e immutabile. In effetti, Nagarjuna si riferisce a volte al suo uso speciale dell'approccio dei "quattro errori" come al "confutare e spiegare con il metodo dello svuotamento" (vigraheca vyakhyane krte sunyataya vadet) concetti e cose dell'essenza. E come tutti i metodi propriamente buddisti, una volta che questo foglio logico ha raggiunto il suo scopo, può essere scartato, barattato per così dire con la saggezza che ha conferito. La finzione della conoscenza porta alla rovina, mentre l'autentico scetticismo può condurre l'essere umano alla conoscenza ultima. Solo il metodo dello scetticismo deve conformarsi alle regole del sapere convenzionale, perché come afferma notoriamente Nagarjuna: "Senza dipendere dalle convenzioni, la verità ultima non può essere insegnata, e se la verità ultima non viene raggiunta, il nirvana non sarà raggiunto".
3. Contro il sostanzialismo mondano e finale
Durante la vita di Nagarjuna, il buddismo scolastico era diventato molto più di una semplice istituzione che si incaricava di tramandare le scritture ricevute, la tradizione e l'ortodossia stabilita dai concili; si era trasformato in un insieme di posizioni filosofiche molto variegate, impegnate interiormente ed esteriormente. Queste scuole non si sono limitate a rappresentare l'insegnamento buddista o a rendere disponibili i benefici della sua pratica, ma si sono impegnate a spiegare il buddismo, a renderlo non solo un discorso filosofico ragionevole, ma il più supremamente ragionevole di tutti. Il fine ultimo della vita, la liberazione dalla rinascita, sebbene in generale condiviso da tutte le soteriologie del brahmanesimo, del giainismo e del buddismo, era rappresentato in modo unico dai buddisti come la pacificazione di tutti gli attaccamenti psicologici attraverso l'estinzione (nirvana) dei desideri, che avrebbe portato alla conseguente estinzione del karma e alla prevenzione della rinascita. Una dottrina particolarmente singolare del Buddismo, nel suo tentativo di tematizzare questi aspetti, è stata la teoria del no-self o no-soul (anatman) e le implicazioni che essa comportava. In senso empirico, l'idea di assenza di sé significava che non solo le persone, ma anche quelle che normalmente sono considerate le sostanze stabili della natura non sono in realtà fisse e continue, che tutto, dal senso di identità personale alle forme degli oggetti, poteva essere analizzato, per così dire, nelle parti atomiche che ne erano la base. In senso metafisico ultimo, significava che nessuno, una volta liberato dalla rinascita, vivrà eternamente come entità spirituale e autocosciente (atman), ma che la serie di nascite causate dal karma ereditato terminerà semplicemente, riducendo, come valore di cassa, la quantità totale di sofferenza nel mondo. Queste teorie hanno suscitato domande e critiche acute e profonde, come: "se le cose e le persone del mondo non sono altro che atomi in continuo movimento, come può una persona avere un'esperienza ordinata di un mondo di sostanze apparenti?", "se non c'è un'identità o un sé duraturo, chi è che pratica il buddismo ed è liberato?", e "come dobbiamo spiegare le differenze tra gli esseri illuminati come il Buddha e quelli non illuminati, come noi?". A rispondere a queste domande in modo intelligente per le menti curiose della comunità filosofica c'erano diverse scuole distinte che vennero collettivamente conosciute come scuole coinvolte nell'"analisi degli elementi" (abhidharma). Nagarjuna ricevette la sua formazione filosofica nei testi, nel vocabolario e nei dibattiti degli Abhidharma.
Le due scuole più diffuse di Abhidharma erano quella dell'"Esistenza universale" (Sarvastivada) e quella della "Vera dottrina" (Sautrantika). Queste scuole avevano in comune una teoria del sostanzialismo che serviva a spiegare le questioni metafisiche sia mondane che ultime. Questa teoria del sostanzialismo, formulata in modi leggermente diversi da ciascuna scuola, aveva due cardini fondamentali. Il primo era una teoria della causalità, ovvero la stretta necessità che un evento segua un altro evento. La teoria della necessità causale era essenziale per tutto il pensiero buddista, poiché lo stesso Gautama Siddharta aveva fermamente affermato che tutte le sofferenze o i dolori psicologici avevano una causa distinta, ossia l'attaccamento o il desiderio (tanha), e che la chiave per eliminare la sofferenza dalla propria vita e raggiungere la "tranquillità della mente" o la soddisfazione (upeksa) del nirvana era quella di eliminarne la condizione causale. La sofferenza è causata da una causa ben precisa, ma tale causa dipende dai comportamenti e dalle pratiche umane di ogni individuo; se si potesse esorcizzare l'attaccamento da questi comportamenti e pratiche, allora l'individuo potrebbe vivere una vita che non sperimenterebbe più l'impermanenza e la perdita come dolorose, ma accetterebbe il mondo per quello che è in realtà. La teoria e la pratica buddista si sono sempre basate sulla nozione che, non solo l'attaccamento psicologico, ma tutti i fenomeni sono causalmente interdipendenti, che tutte le cose e gli eventi che accadono nel mondo nascono da una catena causale (pratityasamutpada). Il buddismo è inconcepibile senza questa teoria causale, perché apre la porta alla diagnosi e alla rimozione della sofferenza. Per le scuole dell'Esistenza Universale e della Vera Dottrina, tuttavia, il secondo cardine era una teoria degli elementi fondamentali, una teoria che doveva derivare da qualsiasi teoria causale coerente. Le cause, pensavano i loro esponenti filosofici, non sono semplicemente arbitrarie, ma sono regolari e prevedibili, e la loro regolarità deve essere dovuta al fatto che le cose o i fenomeni hanno nature fisse (svabhava), che determinano e limitano i tipi di poteri causali che possono o non possono esercitare su altre cose. L'acqua, per esempio, può placare la sete e il fuoco può bruciare altre cose, ma l'acqua non può causare un incendio, così come il fuoco non può placare la sete. Il modello e i limiti di particolari poteri causali e dei loro effetti sono quindi radicati nel tipo di cosa che si dà il caso sia una cosa; la sua natura definisce ciò che può o non può fare ad altre cose. Ora, nei loro modelli teorici, l'efficacia causale non era contenuta in un oggetto intero e unificato, ma piuttosto nelle parti, nelle qualità e negli elementi atomici di cui ogni oggetto era costituito; quindi, nella loro formulazione, non era il fuoco a bruciare, ma il calore prodotto dalle sue molecole di fuoco, e non era l'acqua a dissetare, ma la corrispondenza delle sue molecole alla ricettività delle molecole del corpo. In effetti, in questi sistemi il fuoco era tale solo per le sue qualità molecolari, e lo stesso vale per l'acqua. Ma queste qualità, molecole ed elementi avevano nature fisse, e quindi potevano emettere o ricevere certe potenze causali e non altre.
La differenza fondamentale tra la scuola dell'Esistenza Universale e quella della Vera Dottrina nel sostenere le teorie buddiste delle cause e degli elementi fondamentali è rappresentata dalle rispettive descrizioni del funzionamento di tali cause. Per la scuola dell'Esistenza Universale, l'effetto di una causa era già insito nella natura della causa stessa (satkaryavada). La mia sete è placata non da un cambiamento fondamentale nella mia condizione, ma perché l'acqua che ho bevuto aveva il potere di placare la mia sete, e questo potere non risiede in me, ma in ciò che sto cercando di bere; ecco perché il fuoco non può placare la sete. Il cambiamento qui è solo un'apparente trasformazione già potenziale negli attori che stanno interagendo. Per la scuola della Vera Dottrina, invece, qualsiasi effetto deve essere per definizione un cambiamento nella condizione del recettore del potere causale e, in quanto tale, il potenziale causale diventa effettivo solo quando può produrre un cambiamento reale in qualcos'altro (asatkaryavada). Ancora una volta, usando l'acqua come illustrazione, le proprietà dell'acqua producono un cambiamento nelle proprietà del mio corpo, trasformando la mia condizione da una condizione di sete a una condizione di sete placata. Il cambiamento è il cambiamento di ciò che viene effettuato, altrimenti sarebbe sciocco parlare di cambiamento.
Questa differenza, apparentemente astratta o insignificante, si rivela tuttavia molto rilevante in questi due sistemi contrapposti, poiché le idee sostanzialiste di natura fissa ed essenza forniscono la base non solo per concettualizzare il mondo materiale ed empirico, ma anche per concepire la conoscenza e il raggiungimento della realtà ultima. Infatti, così come solo l'analisi metafisica poteva distinguere tra i fenomeni e i loro costituenti causali ultimi, tale analisi era anche l'unica guida affidabile per purificare l'esperienza dagli attaccamenti. Le cause che portano al ciclo mondano delle rinascite (samsara) non possono essere le stesse che portano alla pace (nirvana). Questi stati dell'esistenza sono diversi come il fuoco e l'acqua: il samsara placherà la sete tanto quanto il nirvana porterà al fuoco della passione. Quindi, sono le parole del Buddha, per coloro che sostenevano la teoria dell'effetto come preesistente alla causa, ad avere il potenziale di purificare la coscienza, e non le parole di qualsiasi maestro non ortodosso; sono le pratiche dei buddisti, per coloro che sostenevano la nozione di efficacia causale esterna, che poteva liberare dalla rinascita, e non le pratiche di coloro che perpetuavano le ambizioni del mondo quotidiano e lavorativo. Queste scuole erano, ognuna nella sua unicità buddista, veri e propri esemplari dei presupposti secolari della visione del mondo del karma, in cui una persona è ciò che fa e ciò che fa deriva dal tipo di trucco fondamentale che ha ereditato da vite precedenti di azioni, una visione del mondo che è che sposa intimamente essenza, esistenza ed etica. Essere buddista significa proprio distinguere tra atti buddisti e non buddisti, tra ignoranza e illuminazione, tra il mondo sofferente del samsara e il raggiungimento purificato del nirvana.
Nel suo rivoluzionario trattato I versi fondamentali sulla Via di Mezzo, Nagarjuna getta alle ortiche questa distinzione elementare tra samsara e nirvana, e lo fa nel nome stesso del Buddha. "Non c'è la minima distinzione", dichiara nell'opera, "tra samsara e nirvana. Il limite dell'uno è il limite dell'altro". Ora, come si può affermare una cosa del genere, cioè l'identità tra samsara e nirvana, senza minare totalmente le basi teoriche e gli obiettivi pratici del buddismo in quanto tale? Infatti, se non c'è differenza tra il mondo della sofferenza e il raggiungimento della pace, allora che tipo di lavoro deve fare un buddista che cerca di porre fine alla sofferenza? Nagarjuna risponde ricordando ai filosofi buddisti che, come Gautama Sakyamuni aveva rifiutato il sostanzialismo metafisico ed empirico con l'insegnamento della "non anima" (anatman) e dell'interdipendenza causale (pratityasamputpada), Il Buddhismo Scolastico doveva quindi rimanere fedele a questa posizione non sostanzialista attraverso il rifiuto delle teorie causali che richiedevano nozioni di natura fissa (svabhava), teorie che reificavano metafisicamente la differenza tra samsara e nirvana. Questo successivo rifiuto potrebbe basarsi sulla nozione, appena coniata da Nagarjuna, di "vuoto", "assenza" o "nullità" (sunyata) di tutte le cose.
Riprendendo un'analisi logica delle teorie causali delle scuole dell'Esistenza Universale e della Vera Dottrina, Nagarjuna rifiuta le premesse delle loro teorie. L'affermazione di base che queste scuole condividevano era che l'efficacia causale poteva essere spiegata solo attraverso la natura fondamentale di un oggetto; il fuoco causava la combustione degli oggetti perché il fuoco era fatto di elementi di fuoco e non di elementi di acqua, la regolarità e la prevedibilità dei suoi poteri causali erano coerenti con la sua base materiale essenziale. Riprendendo e affinando logicamente il metodo dei "quattro errori" (catuskoti) dei primi buddisti, Nagarjuna tenta di smontare questo assunto filosofico. Contrariamente alle opinioni della Scolastica buddista, Nagarjuna trova che, se gli oggetti avessero un'essenza stabile e fissa, i cambiamenti apportati dalle cause non sarebbero logicamente intelligibili né materialmente possibili. Diciamo, in accordo con la scuola dell'Esistenza Universale, che l'effetto preesiste alla causa, o per esempio che la combustione del fuoco e la dissetazione dell'acqua sono insite nei tipi di sostanze che sono il fuoco e l'acqua. Ma se gli effetti esistono già nella causa, allora non avrebbe senso parlare di effetti, perché nella loro interazione con altri fenomeni le cause preesistenti non produrrebbero nulla di nuovo, ma si limiterebbero a manifestare i poteri potenziali già esibiti. Cioè, se la potenzialità di bruciare è concepita come esistente nel fuoco e la potenzialità di dissetare è già insita nell'acqua, allora, secondo Nagarjuna, bruciare e dissetare non sarebbero altro che apparizioni dei poteri causali delle sostanze fuoco e acqua, e questo renderebbe la nozione di effetto, la produzione di un nuovo cambiamento, priva di significato. Se, invece, ci schieriamo con la scuola della Vera Dottrina e supponiamo che l'effetto non preesista alla causa, ma sia un nuovo cambiamento nel mondo, allora la categoria di sostanza viene meno. Perché? Perché se il fuoco e l'acqua sono sostanze stabili che possiedono nature o essenze fisse, allora che tipo di relazione potrebbero avere con altri oggetti che hanno nature fisse completamente diverse? Come si può pensare che il fuoco abbia effetto su un essere umano, se quest'ultimo possiede una natura e quindi assume una forma completamente diversa dal fuoco? Affinché la persona sia colpita dal fuoco, la sua natura dovrebbe cambiare, dovrebbe essere distruttibile, e questo inficia la supposizione che la natura della persona sia fissa. Essenze stabili e fisse (svabhava) che sono concepite come completamente eterogenee non potrebbero avere alcun modo di relazionarsi senza che le loro essenze fisse inizialmente supposte siano compromesse. La conclusione è che nessuna di queste due spiegazioni buddiste sostanzialiste dell'efficacia causale può sopravvivere all'esame logico.
Di fronte a questi fallimenti, potremmo essere tentati di adottare teorie alternative della causalità sostenute al di fuori della tradizione buddista per salvare l'intelligibilità della sostanza. Potremmo supporre, insieme ai filosofi Jaina, che gli effetti procedano in qualche modo sia dai poteri intrinseci delle sostanze sia dalle vulnerabilità degli oggetti con cui queste sostanze interagiscono. Questo ovviamente non va bene per il logico Nagarjuna, perché equivarrebbe a suggerire che le cose e gli eventi sorgono o si realizzano sia grazie ai propri poteri causali sia come effetto di altre cose, che l'evento A, come bruciare o dissetarsi, è causato sia da se stesso sia da altre cose. Questo viola in pieno la legge del mezzo escluso, poiché una cosa non può essere caratterizzata sia da A che da non-A, e quindi non serve come spiegazione. Esaurita la ricerca di un valido principio sostanzialista di causalità, potremmo optare per la posizione completamente antimetafisica della scuola materialista indiana, che nega sia che gli eventi si producano attraverso i poteri causali intrinseci dei loro relata sia che siano causati da poteri estranei. Questa negazione completa vorrebbe farci credere che non esiste alcun rapporto di causa-effetto tra i fenomeni, e i buddisti non possono ricorrere a questa conclusione perché contrasta con gli insegnamenti fondamentali del Buddha, secondo cui tutti i fenomeni empirici nascono dall'interdipendenza. Questo era l'insegnamento del Buddha stesso, e quindi nessun buddista può ammettere che gli eventi non siano causati.
Cosa dobbiamo trarre da questa astratta critica logica? Dobbiamo forse dedurre che la filosofia di Nagarjuna si riduce a uno strano misticismo paradossale in cui c'è un senso ambiguo in cui le cose dovrebbero essere considerate causalmente interdipendenti, ma interdipendenti in qualche modo assolutamente inspiegabile e imperscrutabile? Niente affatto! Nagarjuna non ha confutato tutte le teorie di causa ed effetto disponibili, ha solo respinto tutte le teorie sostanzialiste di causa ed effetto. Pensa di aver dimostrato che, se manteniamo l'assunto filosofico secondo cui le cose del mondo derivano da un'unica base materiale ed essenziale, allora ci ritroveremo a mani vuote nella ricerca di spiegare come le cose possano relazionarsi tra loro, e quindi non avremo modo di descrivere come avvengono i cambiamenti. Ma poiché sia il nostro senso comune che le parole del Buddha affermano senza esitazione che i cambiamenti avvengono, e avvengono costantemente, dobbiamo supporre che essi avvengano in qualche modo, attraverso qualche altro fatto o circostanza dell'esistenza. Da parte sua, Nagarjuna conclude che, poiché le cose non sorgono perché i fenomeni si relazionano attraverso essenze fisse, allora devono sorgere perché i fenomeni non hanno essenze fisse. I fenomeni sono malleabili, sono suscettibili di alterazione, aggiunta e distruzione. Questa mancanza di natura fissa (nihsvabhava), questa alterabilità delle cose significa allora che le loro forme fisiche ed empiriche non sono costruite sull'essenza, come sostengono sia la scuola dell'Esistenza Universale che quella della Vera Dottrina, ma sul fatto che nulla (sunya) le definisce e le caratterizza eternamente e incondizionatamente. Non è che le cose siano di per sé nulla, né che possiedano un'assenza positiva (abhava) di essenza. Il cambiamento è possibile perché una radicale indeterminazione (sunyata) permea tutte le forme. La combustione avviene perché possono verificarsi condizioni in cui la temperatura diventa incindibile e brucia la carne, così come la sete può essere placata quando il processo di ingestione trasforma l'acqua in corpo. Gli esseri si relazionano tra loro non per la loro eterogeneità di forme, ma perché la loro interazione li rende suscettibili di continue trasformazioni.
I Versi fondamentali sulla Via di Mezzo sono un tour de force attraverso l'intero sistema categoriale dell'analisi metafisica buddista (abhidharma) che ha dato vita ai movimenti scolastici. Nagarjuna attacca tutti i concetti di queste tradizioni che erano tematizzati secondo una metafisica sostanzialista ed essenzialista, utilizzando in ogni occasione il metodo dei "quattro errori" logicamente rivisto. Ma forse la cosa più rivoluzionaria è stata l'estensione da parte di Nagarjuna della dottrina della "vacuità" di tutti i fenomeni alla discussione del rapporto tra il Buddha e il mondo, tra il ciclo delle rinascite inflitte dal dolore (samsara) e la libertà soddisfatta e priva di desideri (nirvana). Il Buddha, conosciuto colloquialmente come "colui che è venuto e se n'è andato" (Tathagata), non può essere propriamente pensato per Nagarjuna nel modo in cui lo hanno fatto gli scolastici buddisti, cioè come il seme eternamente puro del vero insegnamento di pace che mette a tacere le illusioni del mondo altrimenti contaminato. Il nome e la persona di "Buddha" non devono servire come base teorica e giustificazione della distinzione tra il mondo ordinario, ignorante, e l'illuminazione perfetta. Dopo tutto, ricorda Nagarjuna ai suoi lettori, tutti i cambiamenti nel mondo, comprese le trasformazioni che portano all'illuminazione, sono possibili solo grazie alla causalità interdipendente (pratityasamutpada), e la causalità interdipendente, a sua volta, è possibile solo perché le cose, i fenomeni, non hanno una natura fissa e quindi sono aperti (sunya) alla trasformazione. Il Buddha stesso si è trasformato solo a causa dell'interdipendenza e della vacuità e quindi, come afferma Nagarjuna, "la natura del Tathagata è la natura stessa del mondo". È evidente che non si possono fare delimitazioni essenziali tra il mondo della sofferenza e le pratiche che possono portare alla pace, perché entrambi sono solo risultati alternativi nel nesso dell'interdipendenza del mondo. Le parole e le etichette che si attribuiscono sia al mondo che all'esperienza del nirvana non sono i mezzi per separare il grano della vita dalla pula, né i veri coltivatori del terreno dell'esperienza dalla marmaglia "quotidiana" troppo ambiziosa. Piuttosto, samsara e nirvana non significano altro che la mancanza di garanzie in una vita di desideri e la possibilità di cambiare e sperare. Noi affermiamo", dice Nagarjuna a nome dei buddisti, "che qualsiasi cosa sorga in modo dipendente è in quanto tale vuota". Questo modo di designare le cose è esattamente la via di mezzo". Il giuramento buddista di evitare la sofferenza non può essere inteso come una denuncia del mondo, ma solo come un impegno a sfruttare le possibilità di pace che già sono insite in esso. Parlare del Buddha e delle pratiche ispirate al Buddha non equivale a innalzare una bandiera religiosa o ideologica che delimita un Paese dall'altro; piuttosto, il mondo della sofferenza e il mondo della pace hanno la stessa estensione e gli stessi confini, e parlare della sofferenza e del Buddha serve solo a renderci consapevoli delle possibilità del mondo, e di come la nostra realizzazione di queste possibilità dipenda proprio da ciò che facciamo e da come interagiamo.
4. Contro la prova
La posizione apparentemente anti-teorica assunta da Nagarjuna non gli procurò molti amici filosofi, né tra i suoi lettori buddisti contemporanei né nei circoli di pensiero braminici. Se è vero che, nei sette secoli successivi di pensiero scolastico buddhista, il concetto di vuoto venne articolato con maggiore forza, è anche vero che esso venne ermeneuticamente fatto proprio da altri sistemi in modi che Nagarjuna non avrebbe necessariamente approvato. Sunyata fu presto reso portatore di significati teorici estranei alla teoria causale in varie sette buddiste, servendo come supporto di una filosofia della coscienza per la più tardi illustre scuola Vijnanavada o della Cognizione e come spiegazione della natura sia dell'epistemologia che dell'ontologia nella precisa scuola della Logica buddista (Yogacara-Sautrantika). Queste scuole, deridendo lo scetticismo di Nagarjuna, mantennero il loro impegno verso uno stile di filosofare in India che permetteva di prendere posizioni intellettuali solo sulla base di impegni di tesi, contro-tesi, regole di argomentazione e standard di prova, cioè scuole che equiparavano la riflessione filosofica a dottrine concorrenti della conoscenza e della metafisica. Ciò è ancora più ironico se si considera il palese tentativo di Nagarjuna di scongiurare la possibilità che l'idea del vuoto venga confutata o cooptata da questo stile di filosofare, tentativo ancora conservato nelle pagine della sua opera La fine delle dispute (Vigrahavyavartani).
La fine delle dispute fu in gran parte un'opera reazionaria, scritta solo quando vennero sollevate obiezioni filosofiche contro l'approccio non essenzialista e antimetafisico di Nagarjuna alla filosofia. L'opera si rivolgeva a una scuola relativamente nuova del pensiero braminico, la scuola di logica (Nyaya). Il dibattito filosofico, condotto in forme formalizzate in ambienti generalmente di corte, era persistito in India forse già ottocento anni prima del tempo del primo sistematizzatore letterario della scuola di logica, Gautama Aksapada. Prima del Nyaya, le scuole buddiste e giainiste avevano fatto diversi tentativi di comporre manuali per il dibattito formale. Ma il Nyaya portò sulla scena filosofica indiana una dottrina completa non solo delle regole e dell'etichetta del processo di discussione, ma anche un intero sistema di inferenza che distingueva tra forme di argomentazione logicamente accettabili e inaccettabili. Infine, alla base di tutte le forme di argomentazione valida c'era un sistema epistemologico, una teoria della prova (pramanasastra), che distingueva tra vari tipi di eventi mentali che potevano essere considerati rivelatori di verità o corrispondenti a stati di cose reali e quelli su cui non si poteva fare affidamento come mediatori della realtà oggettiva. I logici ritenevano che la percezione sensoriale diretta, l'argomentazione logica valida, l'analogia sostenibile e la testimonianza autorevole fossero gli unici tipi di cognizioni che potevano corrispondere a cose o eventi reali nel mondo. Essi potevano servire come prove per le affermazioni che facciamo per conoscere. Con alcune modifiche, l'approccio del Nyaya venne accettato come "primo principio" filosofico da quasi tutte le altre scuole di pensiero indiane per secoli, sia vediche che non vediche. In effetti, in molti ambienti filosofici, prima di addentrarsi nelle sottigliezze e nell'agonismo del dibattito filosofico avanzato, ci si aspettava che uno studente passasse attraverso i prerequisiti dello studio della grammatica e della logica sanscrita. Tutto il pensiero, e quindi tutte le scienze positive, dall'agricoltura allo studio vedico, fino alla statistica, erano talvolta ritenute fondamentalmente basate e del tutto pretestuose senza un addestramento di base all'"analisi critica" (anviksiki), che, secondo Gautama Aksapada, era precisamente ciò che era il Nyaya.
I logici, venuti a conoscenza molto presto del pensiero di Nagarjuna, mossero contro la sua posizione del vuoto (sunyata) una critica serrata. Certamente nessuna affermazione, insistevano, dovrebbe costringerci a dare il nostro assenso a meno che non si possa sapere che è vera. Nagarjuna ci ha detto che il vuoto è la mancanza di una natura fissa ed essenziale che tutte le cose presentano. Ma se tutte le cose sono vuote di una natura fissa, allora questo includerebbe, non è vero, l'affermazione di Nagarjuna stesso che tutte le cose sono vuote? Dire che tutte le cose sono prive di una natura fissa significherebbe anche dire che nessuna asserzione, nessuna tesi come quella di Nagarjuna secondo cui tutte le cose sono vuote, potrebbe pretendere di avere un riferimento fisso. E se una tesi così fondamentale e onnicomprensiva deve ammettere di non avere essa stessa né un significato né un riferimento fisso, allora perché dovremmo crederci? La tesi "tutte le cose mancano di un'essenza fissa e sono quindi vuote", essendo un quantificatore universale e quindi comprendendo tutte le cose, comprese le tesi, non si confuta forse da sola? I logici non affermano tanto che lo scetticismo necessariamente si sottrae alla sua stessa posizione, come quando una persona, dicendo "non so nulla", testimonia inconsapevolmente di sapere almeno due cose, ossia come usare il linguaggio e la propria ignoranza, come nei casi dell'ironia socratica e del paradosso del bugiardo. È piuttosto l'accusa diretta che una filosofia che rifiuta di ammettere le essenze universali deve essere palesemente autocontraddittoria, poiché una negazione universale deve essere essa stessa essenzialmente vera per tutte le cose. Non dovremmo forse considerare Nagarjuna come una persona che, intraprendendo quello che altrimenti sarebbe stato un ingegnoso e promettente viaggio filosofico, con un po' troppa fretta è inciampato nei suoi stessi piedi uscendo dalla porta principale?
Nagarjuna, in La fine delle controversie, risponde in due modi. Il primo è un tentativo di mostrare agli altezzosi logici che, se esaminano davvero criticamente questo concetto fondamentale di prova che fonda la loro teoria della conoscenza, non si troveranno in una posizione migliore di quella in cui sostengono che si trovi Nagarjuna. Come, si chiede Nagarjuna in una lunga argomentazione, si può dimostrare qualcosa con una certezza fissa nel modo in cui sostengono i Naiyayika? Quando si va al sodo, un fatto presunto può essere dimostrato solo in due modi: o è autoevidente o è dimostrato come vero da qualcos'altro, da qualche altro fatto o pezzo di conoscenza già assunto come vero. Ma se ci atteniamo alle regole della logica e dell'argomentazione valida che i logici vedici sposano, scopriremo, secondo Nagarjuna, che entrambe le supposizioni sono errate. Prendiamo l'affermazione che qualcosa può essere dimostrato come vero sulla base di altri fatti noti come veri. Supponiamo, per usare un esempio preferito dal logico Gautama, che io voglia sapere quanto pesa un oggetto. Lo metto su una bilancia per misurarne il peso. La bilancia mi dà un risultato e per un momento mi soddisfa; posso fare affidamento sulla misurazione perché le bilance possono misurare il peso. Ma aspetta, Nagarjuna sbandiera che il tuo affidamento sull'affidabilità della bilancia è di per sé una supposizione, non una conoscenza. Non si dovrebbe testare anche la bilancia? Misuro l'oggetto su una seconda bilancia per verificare l'accuratezza della prima, e la misura concorda con la prima. Ma come posso dare per scontato, ancora una volta, che la seconda bilancia sia accurata? Entrambe le scale potrebbero essere sbagliate. E l'esercizio continua: non c'è nulla in linea di principio che mi giustifichi nel presumere che un qualsiasi test che utilizzo per verificare una conoscenza sia di per sé affidabile al di là di ogni dubbio. Quindi, conclude Nagarjuna, la supposizione che qualcosa possa essere dimostrato attraverso il riferimento a qualche altro fatto presunto si scontra con il problema che la serie di prove non avrà mai fine, e ci lascia con un regresso infinito. Se ci impegnassimo nella giustificazione opposta e affermassimo di conoscere cose vere che sono autoevidenti, Nagarjuna risponderebbe che staremmo facendo un'affermazione vacua. Il punto centrale dell'epistemologia è scoprire metodi affidabili di conoscenza, il che implica che dal lato del mondo ci sono i fatti e dal lato del conoscitore ci sono le prove che rendono questi fatti trasparenti alla coscienza umana. Se le cose fossero semplicemente autoevidenti, le prove sarebbero superflue: dovremmo sapere subito se una cosa è tale e quale oppure no. L'affermazione dell'autoevidenza distrugge, in modo ironico e sempre gradito a Nagarjuna, la necessità stessa di una teoria della conoscenza!
Avendo testato entrambi i criteri di evidenza e non avendo ottenuto risultati, il logico potrebbe, e di fatto storicamente lo ha fatto, provare una teoria alternativa di reciproca corroborazione. Possiamo non sapere con certezza che un blocco di pietra pesa troppo per entrare in un tempio che sto costruendo, e possiamo non essere certi che la bilancia usata per misurare le pietre sia accurata al cento per cento, ma se, dopo aver testato le pietre con la bilancia, le metto nell'edificio e scopro che funzionano bene, ho motivo di fare affidamento sulla conoscenza che ottengo attraverso le reciproche conferme della misurazione e del successo pratico. Per Nagarjuna, tuttavia, questo processo non dovrebbe passare per un epistemologo che pretende di essere rigoroso come i logici bramini. In realtà, questo processo non dovrebbe nemmeno essere considerato una reciproca conferma; è anzi circolare. Suppongo che i sassi abbiano una certa massa misurabile, quindi progetto uno strumento per confermare la mia ipotesi, e suppongo che le bilance misurino il peso, quindi valuto gli oggetti in base ad esse, ma in termini di logica rigorosa, sto solo supponendo che questo processo di corroborazione provi le mie supposizioni, ma in realtà non fa altro che alimentare le mie ipotesi preconcette piuttosto che darmi informazioni sulla natura degli oggetti. Possiamo dire che una certa persona è un figlio perché ha un padre, osserva Nagarjuna, e possiamo dire che un'altra persona è un padre perché ha un figlio, ma a parte questa definizione reciproca, come facciamo a sapere quale persona in particolare è quale? Per estensione, sostiene Nagarjuna, questo è il problema del progetto di costruire una teoria della conoscenza in quanto tale. Epistemologia e ontologia sono parassite l'una dell'altra. Le epistemologie sono convenientemente formulate per giustificare le visioni preferite del mondo e le ontologie si presume che siano giustificate attraverso teorie sistematiche della prova, ma a parte il fatto che questi progetti sono reciprocamente necessari dal punto di vista teorico, in realtà non abbiamo alcun modo onesto di sapere se essi diano effettivamente credito alle nostre credenze. Ancora una volta, Nagarjuna ha utilizzato gli strumenti del logico, in questo caso le fallacie argomentative standard, per dimostrare che è la logica brahminica, e non la sua filosofia del vuoto, a essersi inciampata prima di avere la possibilità di farsi strada nel mondo.
Questa, come già detto, è stata la prima risposta di Nagarjuna all'accusa dei logici di avere una filosofia del vuoto fondamentalmente incoerente. Tuttavia, Nagarjuna afferma notoriamente un altro pettito principii nell'accusa del Nyaya: la tesi "tutte le cose sono vuote e prive di una natura fissa" è incoerente. L'affermazione "tutte le cose sono vuote" in realtà, dice Nagarjuna, non è una tesi filosofica formale! Secondo le regole Nyaya dell'argomentazione logica praticabile, il primo passo per dimostrare che un'asserzione è vera è l'affermazione dichiarata del fatto presunto come tesi nell'argomentazione (pratijna). Affinché qualcosa possa qualificarsi come tesi filosofica formale, un'affermazione deve essere un fatto relativo a un particolare oggetto o stato di cose conoscibili nel mondo, ed è una questione di dottrina per il Nyaya che tutti gli oggetti o stati di cose particolari siano classificabili nelle loro categorie di sostanze, qualità e attività. Nagarjuna, tuttavia, non accetta questa serie di categorie ontologiche, e quindi il logico non è sincero quando cerca di coinvolgerlo nel gioco ontologico con l'accusa che l'idea del vuoto sia metafisicamente incomprensibile. Il Logico Brahmanico insiste sul fatto che nessuna persona può impegnarsi in una discussione filosofica senza acquistare, almeno in minima parte, una teoria delle essenze e delle questioni relative alla categorizzazione delle essenze. È proprio questo punto, ribatte Nagarjuna, a essere discutibile! Ma poiché il logico non vuole fare a Nagarjuna la cortesia di discutere alle sue condizioni, il buddista gli risponde alle sue condizioni: "Se la mia affermazione (sulla vacuità) fosse una tesi filosofica, allora sarebbe effettivamente difettosa; ma io non affermo alcuna tesi, e quindi il difetto non è mio".
Con l'eccezione dei suoi due principali commentatori quattro secoli dopo, questa posizione di Nagarjuna non soddisfa nessuno nella tradizione filosofica indiana, né i brahmana né i colleghi buddisti. Era la posizione del tipo di dibattitore che si definisce vaitandika, una persona che confuta le posizioni filosofiche rivali pur non sostenendo alcuna tesi. Nonostante tutti gli altri disaccordi, i brahmana e i buddisti dei secoli successivi non consideravano una posizione del genere come veramente filosofica, perché se una persona che la occupava poteva essere in grado di smascherare teorie dubbie, non si poteva mai sperare di imparare da esse la verità sul mondo e sulla vita. Una persona del genere, si sospettava, è più probabilmente un ciarlatano che un saggio. Nonostante il titolo della sua opera, il tentativo di Nagarjuna di mettere "in discussione" le teorie della prova non è riuscito a porre fine a tutte le controversie. Tuttavia, Nagarjuna chiude quest'opera controversa e molto discussa ricordando ai suoi lettori chi è. Rendendo omaggio al Buddha, il maestro, dice, della causalità interdipendente e della vacuità, Nagarjuna dice al suo pubblico che "nulla prevarrà per coloro in cui la vacuità non prevarrà, mentre tutto prevarrà per chi prevarrà la vacuità". Si tratta di una reiterazione dell'impegno di Nagarjuna, secondo il quale teoria e prassi non sono una partnership in cui solo attraverso la giustificazione della prima si riscatta la seconda. L'obiettivo della pratica è, dopo tutto, la trasformazione, non la fissità, e quindi se si insiste sul matrimonio tra filosofia e pratica, la riflessione filosofica non può essere vincolata alle essenze immutabili ed eterne dell'epistemologia e della metafisica abituali.
5. Il nuovo spazio e la nuova missione buddista
L'annoso dibattito se Nagarjuna fosse un devoto del buddhismo tradizionale Theravada o classico o della setta Mahayana (Grande Veicolo) si basa in parte sulla paternità delle due lettere a lui attribuite. Dalle altre opere del corpus filosofico di Nagarjuna si può ricavare ben poco che possa avvalorare l'ipotesi che lo studioso del II secolo conoscesse le dottrine o i personaggi del Grande Veicolo, anche se la nozione rivoluzionaria di vuoto era quella su cui il Mahayana si era fissato come idea centrale. Le due "epistole etiche" indirizzate al signore storico Satvahana Gautamiputra Satkarni (166-196 ca.) darebbero certamente a Nagarjuna un luogo storico plausibile. Con i loro abbondanti riferimenti alla supremazia degli insegnamenti del Grande Veicolo, essi ritrarrebbero Nagarjuna inequivocabilmente all'interno di questo movimento. Tuttavia, l'inesistenza di versioni originali in sanscrito del Suhrllekha (A un buon amico) e del Ratnavali (Ghirlanda preziosa), così come le loro pesanti rielaborazioni nelle edizioni tibetane e cinesi, rendono praticamente impossibile qualsiasi attribuzione sicuramente affidabile a Nagarjuna.
Le note distinzioni tra i Veicoli Classici e i Grandi Veicoli sono ben collaudate: il letteralismo storico e scritturale conservatore del primo contrapposto al revisionismo mitologico del secondo, l'idealizzazione dell'asceta solitario che persegue la propria perfezione nel primo contrapposto al bodhisattva angelico e socialmente impegnato del secondo. Le altre opere di Nagarjuna sono piene di passaggi onorifici dedicati solo al Buddha stesso, mentre le due epistole abbondano di elogi delle virtù dell'angelico bodhisattva, sebbene anche queste si trovino in mezzo a passaggi che esaltano le perfezioni dell'ottuplice sentiero e la nobiltà delle quattro verità. Qualunque sia la precisa identificazione settaria di Nagarjuna, egli non perde mai di vista la comprensione del fatto che la pratica del buddismo è un nuovo tipo di veicolo umano, un veicolo destinato non a trasportare le persone da un regno a un altro regno, ma un veicolo che potrebbe far nascere le persone nell'unico regno in cui hanno sempre vissuto.
Le lettere di Nagarjuna al guerriero Gautamiputra si distinguono per la relativa scarsità di consigli sull'arte di governare. In "A un buon amico", lunghi sermoni sulla corretta interpretazione dei sottili insegnamenti mahayana si mescolano a presentazioni di tipo catechistico sull'eccellenza delle virtù monastiche, così numerose che persino l'autore ammette, verso la fine della corrispondenza, che il re dovrebbe osservare il maggior numero possibile di precetti enumerati, poiché osservarli tutti metterebbe a dura prova la forza d'animo del monaco più esperto. Ma in tutte queste sezioni un po' scollegate della lettera, che anche all'interno sono solite saltare da un argomento all'altro, emerge un motivo che sembra coesistere con gli approcci più tematici all'idea del vuoto nelle altre opere, e questo motivo è il primato della condotta e della pratica virtuosa, che assume un ruolo ancora più alto e rilevante delle conquiste della saggezza.
Questo motivo è sicuramente significativo, dato che i Veicoli Classici e i Grandi Veicoli, pur sostenendo entrambi che la saggezza ultima (prajna) e la compassione (karuna) sono le due virtù più importanti, litigavano su quale fosse la più alta, i Theravada optando per la saggezza e i Mahayana per la compassione. In queste epistole, mentre Nagarjuna avverte che le intenzioni alla base degli atti morali devono essere informate dalla saggezza per non rovinare i benefici dell'azione, egli sottolinea ripetutamente l'importanza di una condotta costantemente etica. Il dharma, o comportamento retto agli occhi della legge di esistenza del Buddha, ha due aspetti, uno caratterizzato dalla non-azione meditativa e l'altro dall'azione positiva, e la strada verso la Buddità, dice, passa attraverso l'azione positiva del bodhisattva. Infatti, anche se il dharma è sottile e difficile da comprendere, in particolare quando è coinvolta la nozione di vacuità, così facilmente fraintendibile, la sua pratica attraverso la coltivazione di intenzioni e atteggiamenti morali condurrà senza errori attraverso il groviglio dei dibattiti dottrinali. Oltre a questo consiglio generale, che si applicherebbe a qualsiasi monaco o monaca, viene dato al re il consiglio che il dharma come condotta etica positiva è anche "la migliore politica", perché quando si promuove socialmente l'adesione alla condotta etica, la giustizia prevarrà nel regno e si otterranno benefici per tutti, benefici che i rivali invidieranno al di là di qualsiasi ricchezza materiale transitoria e di falsi sensi di potere.
Nel mondo del presente e del futuro, in fondo, sono solo le azioni che contano. È infatti la fisicità stessa delle azioni che porta all'accumulo di karma meritevole o dannoso, e quindi il destino di una persona è nelle sue mani. Ma attraverso gli atti compiuti nel campo del samsara, sono possibili tutti i cambiamenti immaginabili. Un principe può diventare un povero, sia volontariamente, come il Buddha, sia involontariamente. I giovani diventano vecchi, la bellezza si trasforma in decrepitezza, l'amicizia si trasforma in inimicizia. È questa contingenza lancinante del samsara che viene spesso vissuta con tanta angoscia. Ma, ricorda rapidamente Nagarjuna ai suoi lettori, tutte queste trasformazioni possono altrettanto facilmente andare nella direzione opposta, con la povertà materiale che sboccia in ricchezza spirituale, i padri che rinascono come figli e le madri come giovani mogli, e le ferite del conflitto suturate con i fili della riconciliazione. La causalità interdipendente e il vuoto da cui dipende il cambiamento fanno sì che le cose possano sempre andare in entrambe le direzioni, e quindi quale direzione prendere dipende intimamente dalle proprie azioni. Questo porta a comprendere che il luogo di pratica appropriato per il buddista non può essere solo il monastero, lontano dalle macchinazioni dello Stato, dell'economia, della classe sociale e degli altri tumultuosi e vari affari degli esseri sofferenti. Come non c'è differenza tra il samsara e il nirvana, a causa della vacuità e della natura in costante cambiamento di entrambi, così il cambiamento che un buddista opera su se stesso e su coloro che lo circondano è un cambiamento nel mondo, e questo cambiamento costante e mirato è la giusta missione del buddismo. Con la sua peculiare e visionaria interpretazione del concetto di vacuità di tutte le cose, Nagarjuna ha quindi intrecciato una posizione antimetafisica ed epistemologica con un'etica dell'azione che, fedele alle sue stesse implicazioni, avrebbe trasformato l'autocomprensione della tradizione buddhista per i millenni a venire.
6. Riferimenti e ulteriori letture
Opere di Nagarjuna rivolte ai buddisti
Mulamadhyamakakarika, (Fundamental Verses on the Middle Way) translated as The Philosophy of the Middle Way by David J. Kalapuhana, SUNY Press, Albany, 1986.
Sunyatasaptati, (Seventy Verses on Emptiness) translated by Cristian Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy of Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 35-69.
Yuktisastika, (Sixty Verses on Reasoning) translated by Christian Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy of Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 103-19.
Pratityasamutpadahrdaya, (The Constituents of Dependent Arising) translated by L. Jamspal and Peter Della Santina in Journal of the Department of Buddhist Studies, University of Delhi, 2:1, 1974, 29-32.
Bodhisambharaka, (Preparation for Enlightenment) translated by Christian Lindtner, Nagarjuniana: Studies in the Writings and Philosophy of Nagarjuna, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987, 228-48.
Opere di Nagarjuna indirizzate ai sistemi brahminici
Vigrahavyavartani, (The End of Disputes) translated as The Dialectical Method of Nagarjuna by Kamaleswar Bhattacharya, Motilal Banarsidass, Delhi, 1978.
Vaidalyaprakarana, (Pulverizing the Categories) translated as Madhyamika Dialectics by Ole Holten Pind, Akademisk Forlag, Copenhagen, 1987.
Epistole etiche di Nagarjuna
Suhrllekha, (To a Good Friend) translated as Nagarjuna’s Letter to King Gautamiputra by L. Jamspal, N.S. Chophel and Peter Della Santina, Motilal Banarsidass, Delhi, 1978.
Ratnavali, (Precious Garland) translated as The Precious Garland and the Song of the Four Mindfulnesses by Jeffrey Hopkins, Lati Rimpoche and Anne Klein, Vikas Publishing, Delhi, 1975.
Informazioni sull'autore
Douglas Berger
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Università dell'Illinois del Sud
U. S. A.