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Il piacevole potere della rinuncia in risposta alle guerre

La rinuncia, intesa come abbandono dei veleni interiori quali collera, avidità, bramosia, prepotenza, megalomania e stupidità, è una risposta potente e benefica alle guerre di ogni tipo: personali, di gruppo, tra popoli o tra alleanze di nazioni. Nel nostro mondo dove conflitti e tensioni crescono costantemente e drammaticamente, riscoprire e applicare la "voglia di rinunciare" può offrirci una soluzione interiore capace di trasformare le dinamiche interpersonali e internazionali.

La scrittura di queste riflessioni mi è stata ispirata dal Dhammapada, nel quale la parola "rinuncia" compare 14 volte, e "rinunciante" 23 volte:

110
Un solo giorno vissuto
con chiara intenzione e onestà
ha più valore di cento anni
privi di disciplina
e di saggia rinuncia.

La rinuncia non va intesa come un atteggiamento rinunciatario o passivo, ma come un atto consapevole di abbandono delle negatività che alimentano i conflitti. Questo concetto è radicato in diverse filosofie antiche, che ci offrono una guida per comprendere e applicare la rinuncia nel contesto moderno.

Nel Buddismo, la rinuncia è fondamentale per raggiungere la pace interiore e l'illuminazione. I monaci buddisti rinunciano non solo ai beni materiali ma anche ai desideri e alle avversioni, riconoscendo che questi sono le principali cause della sofferenza. Liberarsi da collera, avidità e stupidità permette di sperimentare una maggiore libertà e felicità, riducendo così la propensione al conflitto.

Similmente, nel Jainismo, la rinuncia è un mezzo per purificare l'anima e liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni. I monaci jainisti praticano una rigorosa disciplina che ha come fondamento la non-violenza e l'astensione dai beni materiali, favorendo una vita di pace e armonia. Questo approccio promuove una convivenza pacifica e rispettosa verso tutte le creature.

Il Taoismo, con il suo richiamo alla semplicità e all'armonia con la natura, insegna che rinunciare agli eccessi e alle ambizioni personali permette di vivere in equilibrio con il mondo circostante. L'obiettivo del Wu Wei è quello di mantenere gli esseri umani in armonia con la natura, affinché il mondo segua la sua naturale evoluzione. Per fare questo non si deve ambire ad azioni troppo grandi o complesse. Queste azioni, se irrealizzabili, saranno solamente causa di sofferenza e sentimenti negativi.

Nell'Induismo, la rinuncia è vista come uno stadio della vita, un passo necessario per raggiungere la moksha, la liberazione dal ciclo delle rinascite. Questo percorso di rinuncia alle illusioni materiali e alle ambizioni egoistiche può essere applicato anche per superare le rivalità e le dispute, favorendo una vita di armonia e comprensione reciproca. "Chi si reca in India per la prima volta, non può fare a meno di notare una moltitudine di uomini che seguono il cammino della rinuncia. [...] Nelle grandi festività religiose induiste [...], nudi, o coperti di pochi cenci, cosparsi di cenere e con le chiome lunghissime e incolte, i sādhu danno all’occidentale la sensazione di un salto indietro nel tempo, quasi si fosse proiettati nel terzo–quinto secolo della nostra era, davanti a certi penitenti cristiani, avvezzi a mortificazioni, astinenze, digiuni e flagellazioni, così ben descritti dal premio Nobel Anatole France nella sua Taide" (tratto da: "Rinuncia, ascesi e salvezza nell’India antica").

Fin qui ho parlato dell'Asia. Una doverosa citazione, prima di dare uno sguardo altrove, riguarda la vita di rinunce del Mahatma Gandhi. Egli abbracciò una vita di austerità, rinunciando a beni materiali, comfort e potere politico per aderire ai principi di semplicità e non-violenza. La sua filosofia, fondata sul concetto di Ahimsa, lo spinse a praticare il digiuno, la castità e a vestire un semplice dhoti filato a mano, in segno di solidarietà con i poveri e per promuovere l'autosufficienza del suo popolo. Ogni sua rinuncia era un passo verso l'armonia sociale, un modo per dimostrare che la vera forza risiede nella resistenza pacifica e nella capacità di sacrificarsi per il bene comune.

Diamo adesso uno sguardo ad Occidente.

Lo Stoicismo dell'antica Grecia, rappresentato da pensatori come Seneca e Marco Aurelio, enfatizzava le virtù cardinali di saggezza, giustizia, coraggio e temperanza come mezzo per raggiungere la felicità. Gli stoici insegnavano che la felicità deriva dal vivere in accordo con la natura e dalla libertà dagli attaccamenti e dalle emozioni distruttive, riducendo così i motivi di conflitto. Nella filosofia stoica, l’amor fati, o "amore per il destino", rappresenta un principio centrale e profondamente curativo. Questo concetto, lungi dall’essere una mera accettazione passiva degli eventi, è una forma di amore attivo e consapevole per tutto ciò che accade nella nostra vita. Gli stoici insegnavano che l’accettazione totale e incondizionata del nostro destino ci permette di vivere in armonia con la natura e con noi stessi, liberandoci dalle catene delle emozioni negative e delle aspettative irrealistiche.

Anche l'Epicureismo promuoveva la rinuncia agli eccessi e la ricerca di piaceri semplici e naturali. "Epicuro è contrario al piacere volgare [...]. Solo i desideri naturali necessari (mangiare) vanno soddisfatti, perché i desideri naturali non necessari (mangiare bene) ed i non naturali non necessari (ricchezze) non sono raggiungibili completamente e perciò provocano anche dolore. Così bisogna rinunciare ad un piacere se da ciò possa venire un dolore maggiore ed accettare il dolore se da ciò possa venire un maggiore piacere. Il frammento in cui sostiene come sia più bello e più piacevole fare il bene che riceverlo fuga qualsiasi dubbio di edonismo avanzato nei confronti della filosofia epicurea." (fonte)

Nel Cristianesimo, la rinuncia ai beni materiali è vista come un atto di fede e di dedizione a Dio. Molti santi e asceti cristiani hanno praticato la rinuncia per avvicinarsi alla spiritualità e all'amore divino. La rinuncia è vista come un mezzo per purificare l'anima e vivere una vita virtuosa, libera dai conflitti interiori e sociali. San Francesco d'Assisi è uno degli esempi più celebri: nato in una famiglia ricca, abbandonò tutti i suoi beni per vivere in povertà e servire i poveri e i malati. La sua vita di rinuncia e umiltà è diventata un modello di santità e devozione per molti cristiani.

Tra l'altro, nel Cristianesimo il digiuno riveste un ruolo cruciale come pratica spirituale e ascetica che ha radici profonde nella tradizione biblica e patristica. Voglio fare una breve parentesi su questo punto perché nella società odierna occidentale sembra qualcosa di ormai dimenticato, eppure è una forma di rinuncia che ha importanti effetti benefici nel corpo e nell'anima, placando le emozioni negative e suscitando positività. Nel Cristianesimo, è inteso come un mezzo di purificazione e di avvicinamento a Dio, simbolizzando la rinuncia ai piaceri mondani per favorire una maggiore attenzione alla dimensione spirituale. Nella Bibbia, il digiuno è spesso associato a momenti di penitenza, preghiera e preparazione per eventi significativi, come dimostrano gli esempi di Mosè, Elia e Gesù:

  • Così Mosè rimase là con l'Eterno quaranta giorni e quaranta notti; non mangiò pane né bevve acqua. E l'Eterno scrisse sulle tavole le parole del patto, i dieci comandamenti. (Libro dell'Esodo, capitolo 34, versetto 28)
  • E l'angelo dell'Eterno tornò la seconda volta, lo toccò, e disse: "Alzati e mangia, poiché il cammino è troppo lungo per te". Elia si alzò, mangiò e bevve; e per la forza che quel cibo gli dette, camminò quaranta giorni e quaranta notti fino a Oreb, il monte di Dio. (Primo Libro dei Re, capitolo 19, versetti 7-8)
  • Quando digiunate non diventate malinconici come gli ipocriti che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. [...]. Lavati il volto e profumati la testa perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo. (Matteo 6, 16-18)
  • Gesù, ripieno di Spirito Santo, partì dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto, dove, per quaranta giorni fu tentato dal diavolo. In quei giorni non mangiò niente; ma al loro termine ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: "Se tu sei il Figlio di Dio, dì a queste pietre che diventino pane". E Gesù gli rispose: "Sta scritto: L'uomo non vive soltanto di pane, ma di ogni parola di Dio". (Luca 4, 1-4)

Anche nell'Islam la rinuncia gioca un ruolo importante. Il concetto di Zuhd, che letteralmente significa "rinuncia" e si riferisce all'ascetismo, incoraggia i musulmani a vivere una vita semplice e a evitare l'attaccamento ai beni materiali. In questo caso, per rinuncia si intende l'allontanamento da un oggetto precedentemente desiderato che è, contemporaneamente, un volgersi verso qualcosa che viene riconosciuto come migliore. La rinuncia non è solo esteriore ma soprattutto interiore. Gli asceti musulmani chiamano "questo mondo" tutto ciò che distrae da Dio e separa l'uomo da Lui, intendendo non l'intero mondo di oggetti sensualmente percepibili come tali, ma la totalità di ciò che non è in relazione con Dio e non è colto e utilizzato per il suo bene.

Con questo ho concluso un breve sguardo a varie religioni e filosofie. A ciò vorrei aggiungere che praticare la rinuncia ai desideri materiali superflui e alle emozioni negative può avere benefici psicologici e fisici significativi. Ridurre l'attaccamento ai beni materiali può portarci a una maggiore pace interiore, riducendo lo stress e migliorando la nostra salute mentale e fisica. Le relazioni interpersonali possono diventare più genuine e significative, mentre l'ambiente beneficia di un consumo ridotto e di uno stile di vita più sostenibile.

Il Minimalismo, una moderna interpretazione della rinuncia, può portare a una maggiore soddisfazione e libertà, favorendo la concentrazione, la produttività e la creatività. Si tratta di una concezione di vita dove si tende a possedere, a volere e fare solo quello che davvero è necessario, pertanto essenziale.

In un'epoca dominata dal neoliberismo (cioè dalla guerra di tutti contro tutti) e dalla tecnologia, la pratica della rinuncia ci offre una via per ritrovare l'essenziale e vivere in modo più autentico e consapevole. Nel mondo digitale di oggi, la rinuncia può significare anche disconnettersi dai dispositivi e dai social media. Questo può regalarci maggiore concentrazione, produttività e salute mentale.

L'uso eccessivo di smartphone, computer e social media può portare a una serie di problemi, tra cui stress, ansia, emozioni negative, disturbi del sonno, irritabilità e deterioramento delle relazioni interpersonali. Rinunciare a un uso costante e pervasivo della tecnologia può contribuire a migliorare il nostro benessere generale, la concentrazione e la produttività. Quando si riducono le distrazioni digitali, è più facile focalizzarsi sulle attività importanti. Questo può portarci a una maggiore soddisfazione nel lavoro e nello studio.

La rinuncia alla tecnologia può anche promuovere relazioni più autentiche e significative. Passare meno tempo sui social media e più tempo con le persone care in interazioni faccia a faccia può rafforzarci i legami e migliorare la qualità delle relazioni. Questo favorisce una maggiore connessione e comprensione reciproca. Soprattutto, rinunciando a un po' di tecnologia a favore degli incontri di persona, ci guadagniamo in maggiore salute mentale, maggiore nutrimento affettivo, maggiore calore umano ed empatia, e minor voglia di fare le guerre.

«[...] quel “nutrimento affettivo” di cui ha un gran bisogno l’essere umano non può essere mediato da alcuna tecnologia e [...], anzi, al crescere della fiducia nella tecnologia decresce quella negli esseri umani, fino al punto di poter pensare di fare a meno della compagnia altrui» (tratto da "Solitudine e Contesti Virtuali").

In poche parole, rinunciando si guadagna assai di più di ciò che si perde.

(21 giugno 2024)

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